Firenze e la maestra che dà i compiti per le vacanze di Pasqua: «Divertirsi, giocare, leggere libri, fare qualcosa di gentile»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Alessandra Bravi

DATA: 6 aprile 2023

Alla primaria Vittorio veneto, la maestra dà una lista lunghissima di cose da fare, che sorprende bambini e genitori

Mercoledì 12 aprile, siamo in una scuola di Firenze, la primaria Vittorio Veneto. La maestra della IV B, Morgana Di Ascenzo, dà i compiti per le vacanze di Pasqua: una lista lunghissima, scritta a mano da lei che consegna ai bambini e la fa mettere nel diario. I bimbi cominciano a leggerla: «Morg, ma praticamente non ci hai dato i compiti». Lei li guarda e sorride: «E come no? Vediamoli insieme. Divertirsi e giocare è la cosa fondamentale da fare durante le vacanze, vi auguro di stare con le vostre famiglie e approfondire insieme a loro le tradizioni della Pasqua cattolica e di quella ebraica. Poi, fare qualcosa di gentile e bello... è un compito difficile sapete, a volte? Sconfiggere la noia, guardare il cielo e sentirsi felici e stupiti. Leggere: leggere è il sale della vita, libri, fumetti, tutto quello che vi diverte o vi insegna. Cantare, a squarciagola dentro il proprio letto o al mare, o passeggiando per le vie della nostra stupenda città. E infine, ricordarsi di dire sempre grazie e tante parole gentili: anche questo, spesso è scontato, ma non abbiate mai paura di essere banali». I bimbi capiscono, chiudono lo zaino e appena tornati a casa, dicono ai genitori: «Mamma, babbo, la maestra ci ha dato un sacco di compiti, volete vedere?».

«I compiti  a casa devono essere un'occasione per far esercitare i bimbi e acquisire competenze, velocizzare alcuni automatismi: analisi grammaticale o matematica per esempio - racconta la maestra Morgana -Il resto va fatto a scuola perché la scuola offre tempo per "imparare a fare" e imparare con gli altri. Io non sono contraria ai compiti, è l'occasione offerta al ragazzo per rielaborare le cose apprese e crearsi uno schema proprio. Laddove lo studio può fare favorire questo, i compiti a scuola con i compagni aprono a una dimensione di socialità e confronto, cooperazione che a casa non si può ritrovare».

«Noi insegnanti e genitori organizziamo il tempo e a volte manca loro il tempo per osservare, godere le cose che hanno, stupirsi delle cose normali come un cielo stellato o un fiore che nasce in un giardino pubblico. Io volevo che in queste vacanze i bambini avessero l'occasione per scoprire la bellezza che li circonda, l'occasione di stare con famiglia e amici, avessero modo di scegliere loro cosa leggere e approfondire, conoscessero le loro tradizioni, le riscoprissero in un mondo veloce che ogni tanto bisogna fermare. È importante che i bimbi abbiano anche dei momenti di noia, in cui crearsi il loro tempo, in cui si mettano a pensare. I compiti a casa non devono annoiare perché l'effetto è peggiore, è la quantità a renderli noiosi».

Contro il registro elettronico e i gruppi Whatsapp dei genitori

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Monica D'Ascenzo

DATA: 6 gennaio 2016

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Ma l’esercizio di matematica era a pagina 33 o 35?”. “Mi mandate per favore la foto della pagina da studiare di storia che non abbiamo il libro a casa”. “I soldi per la gita vanno portati entro domani?”. Purtroppo non è il gruppo whatsapp fra compagni di classe, ma quello fra genitori. Una moda che sta diventando contagiosa, dal nido al liceo. Per carità, per i genitori che lavorano è una manna dal cielo: sai in tempo reale tutto quello che sapresti andando a prendere tuo figlio all’uscita da scuola. E riesci anche a parare qualche colpo: almeno la maestra non ti scriverà sul diario che ha dovuto anticipare i soldi del pullman o che al bambino manca il materiale didattico. Eppure c’è qualcosa che non mi convince.

Io non ho ricordo dei miei che chiamassero i genitori dei compagni per avere conferma della pagina da studiare o per chiedere se il giorno dopo ci sarebbe stato un compito. Se avevo scritto sul diario i compiti esatti allora andavo a scuola preparata, altrimenti rischiavo la figuraccia, il brutto voto o la nota sul diario. Certo la sensazione non era piacevole, ma di sicuro serviva a farmi stare più attenta la volta successiva. Oggi mandiamo i bambini a scuola con la rete di protezione. Se cadono, rimbalzano e non si fanno male. A volte anche più della rete: li bardiamo con salvagente, giubbotto gonfiabile, scarpe antiscivolo, parastinchi e casco. Ci assicuriamo che non si facciano male, ma non rischiamo che poi se ne facciano di più crescendo, quando non potremo fare più il gruppo whatsapp con i genitori dei compagni di università o poi con quelli dei colleghi d’ufficio?

E l’aberrazione non finisce qui. Da quest’anno anche la scuola elementare di mio figlio ha adottato il registro elettronico. Alla comunicazione di nome utente e password ho sentito un leggero fastidio, poi dopo qualche settimana, al primo ingresso nel sistema, il fastidio si è trasformato velocemente in disagio. Nel registro scolastico oltre alle assenze, i genitori possono consultare quanto fatto in classe in ogni singola materia, i compiti assegnati e (orrore!) i voti del proprio figlio. Ho chiuso in fretta il tutto come se mi fosse capitato in mano il suo diario dei pensieri.
Ma che roba è? Posso in qualunque momento sapere cosa fa mio figlio prima ancora che lui pensi anche solo se raccontarmelo o meno. Che fine fanno le chiacchiere da cena: cosa avete fatto oggi? Com’è andata la giornata? Ti ha interrogato?

Dove è finita la possibilità di scelta del bambino di raccontare o meno se è stato interrogato o se la maestra ha fatto una verifica a sorpresa? Dove è finita la libertà di confessare a un genitore un’insufficienza o invece decidere di gestirla da solo magari studiando, recuperando la volta successiva e spuntando una sufficienza in pagella?

Li abbiamo deresponsabilizzati con i gruppi di whatsapp e ora togliamo loro anche la scuola della scuola dove si impara a gestire il fallimento, il successo, la comunicazione con i genitori e i rapporti con gli insegnanti. Poi però pretendiamo che siano responsabili, consapevoli, autonomi e pienamente indipendenti quando vanno alle superiori o quando si iscrivono all’università e si devono autogestire.

A scuola in prima elementare si studia l’alfabeto e in quinta si fa l’analisi logica. Allo stesso modo esiste una crescita progressiva delle capacità personali non didattiche. Perché stiamo facendo questo ai nostri figli? Perché stiamo togliendo loro la possibilità di gestire le informazioni che riguardano la loro vita?

La soluzione? Non ne ho. Nel mio piccolo cerco di non chiedere mai conferma dei compiti o di quanto fatto a scuola agli altri genitori e ho spiegato a mio figlio che guarderemo il registro elettronico sempre e solo insieme e quando me lo chiederà lui. Correremo il rischio di non avere una media scolastica da lode, di beccare qualche nota e qualche rimprovero dalle maestre (uso il noi, perché le maestre oggi se la prendono anche con i genitori) e di non essere impeccabili. Ma accidenti se sarà meno noioso. E magari ci guadagnerà anche il nostro rapporto in termini di fiducia reciproca.

AVVERTENZE: causa numerosi commenti, scrivo qui un’aggiunta al post in modo da fugare ogni dubbio: NON E’ UN POST CONTRO LA TECNOLOGIA E L’INNOVAZIONE, CHE SONO ASSOLUTAMENTE DA ASSECONDARE E INCENTIVARE. E’ UN POST SULL’EDUCAZIONE DEI FIGLI E SU COME LI PREPARIAMO ALLA VITA FUTURA, CHE NON AVRA’ LE RETI DI SALVATAGGIO che ci sono oggi a scuola. Se un’astronauta (donna!) deve andare nello spazio fa un percorso fisico e psicologico per affrontare la missione. Se un calciatore deve affrontare la finale di Champions, si sottopone a una preparazione fisica e psicologica per la partita. La domanda che MI faccio e che VI faccio è: stiamo preparando i nostri figli alla partita che dovranno giocare o alla missione che dovranno affrontare?

Il dilemma dei compiti a casa

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Gianna Fregonara e Orsola Riva

DATA: 15 ottobre 2016

Gli Italiani studiano il triplo dei finlandesi ma vanno molto peggio nei
test Pisa.

I compiti servono ma nella giusta quantità e non ai bambini delle elementari

che fanno il tempo pieno. Ma soprattutto accentuano le differenze fra ricchi e poveri

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Le mamme di Varese che hanno mandato una petizione al sindaco per chiedere una scuola senza compiti sono solo l’ultimo caso. Impossibile star dietro al diluvio di appelli in rete di genitori affranti per il dopo lavoro pomeridiano dei propri figli. Sì, perché i compiti sono diventati un affare di famiglia: con i piccoli che, già stremati dal tempo pieno, implorano l’aiuto di mamma e papà, e loro, i grandi, che rientrando a casa alle sette di sera si ritrovano ostaggio delle divisioni a due cifre o delle invasioni doriche in Grecia nel XII secolo avanti Cristo. Una materia incandescente dove l’emotività rischia di prendere il sopravvento sulla ragione. Mentre di compiti bisognerebbe parlarne non per chiedere unilateralmente degli sconti, come quel babbo che non ha fatto fare quelli delle vacanze al figlio tredicenne perché «quest’estate gli ho insegnato a vivere» ma per cercare di valutarne i pro e i contro da un punto di vista pedagogico.

Prof e studenti: «I compiti in fondo fanno bene». Ma i genitori protestano: «Troppi»

Gli italiani, che sgobboni

L’obiezione più comune è che un problema ci dev’essere se i quindicenni italiani fanno il triplo – nove ore alla settimana - dei compiti dei ragazzi finlandesi dai quali vengono surclassati nei test Pisa: in Finlandia si studia a casa per una mezzoretta al giorno salvo negli ultimi due anni di superiori quando i compiti fanno parte del programma. Ma è pure vero che gli studenti più bravi al mondo, cioè i cinesi di Shanghai, sono anche i più sgobboni (17 ore alla settimana). E quindi? Quindi studiare serve ma in generale i risultati dei ragazzi dipendono molto più dalla qualità dell’offerta formativa e dalla preparazione dei docenti che della mole dei compiti. Un’ora in più chini sui libri vale in media 5 punti in più nei test di matematica, in Italia addirittura il triplo: 15 punti, il che vuol dire che con due ore di studio in più alla settimana si assiste a un miglioramento del rendimento scolastico equivalente a 9 mesi di lezione in classe. Tuttavia il beneficio dello studio a casa tende a diminuire – lo sostengono gli analisti dell’Ocse - se l’impegno giornaliero supera i 60 minuti: il massimo rendimento si ottiene con quattro ore alla settimana, poi comincia a calare. Oltre un certo limite di ore il miglioramento dovuto al lavoro pomeridiano diventa impercettibile.

L’Ocse: i compiti servono ma aumentano la forbice fra ricchi e poveri

Non va dimenticato infine che i compiti hanno una grande controindicazione nei sistemi scolastici: accentuano la diseguaglianza fra ricchi e poveri e dunque diventano discriminatori. Un argomento cavalcato con forza dal presidente francese François Hollande nei primi mesi all’Eliseo quando, richiamandosi a una vecchia normativa repubblicana, aveva proposto di vietare i compiti almeno alle elementari in nome dell’égalité. Fu anche uno dei suoi primi passi falsi visto che i francesi si ribellarono a quest’eventualità: giù le mani dai dévoirs à la maison – gli mandarono a dire soprattutto i giovani e laureati -: i compiti s’hanno da fare, ora e sempre. Soprattutto alle superiori : «Continuiamo ad alleggerire la scuola da ogni fatica – dice la scrittrice Paola Mastrocola, professoressa di liceo –. Ma la scuola esige studio e concentrazione, vorrei sapere che cosa diremmo di un atleta che si presenta ad una gara senza allenamento. La scuola è lo stesso, pretende allenamento quotidiano della mente».

La giusta distanza dei genitori

D’altra parte, mentre l’Ocse benedice i compiti nella misura in cui dovrebbero servire a promuovere l’autonomia dei ragazzi, la loro capacità di organizzare il tempo e mettere a punto un metodo di studio individuale, oggi purtroppo i genitori tendono a sostituirsi ai figli. Non solo in Italia. Qualche mese fa ha suscitato scalpore una ricerca inglese da cui risultava che due genitori su tre aiutano i figli nei compiti mentre in un caso su sei addirittura li fanno al posto loro. Niente di più sbagliato. Come ha dimostrato una volta per tutte lo studio americano The broken compass (La bussola rotta: coinvolgimento parentale nell’educazione dei figli), i genitori che assillano i propri figli non li aiutano a migliorare le proprie performance, al contrario li danneggiano rendendoli più insicuri. Non che si debbano fare da parte, tutt’altro: ma quello che conta semmai è comunicare ai propri figli l’importanza dello studio e della scuola.

Elementari, medie e scuole superiori

Nella classifica stilata da John Hattie in “Visible Learning” (monumentale raccolta di oltre 50 mila ricerche che hanno coinvolto 80 milioni di studenti) su quali fattori hanno un maggior impatto nell’apprendimento dei ragazzi, gli “homeworks” stanno all’88esimo posto su 138 voci: ciò che più conta invece è quello che succede a scuola, la dinamica dei rapporti fra docente e studenti e degli studenti fra loro. E comunque ci sono compiti e compiti. “Lo studio – spiega Raffaele Mantegazza – docente di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano – non può sostituire il lavoro in classe. Ha senso che un bambino delle elementari faccia le divisioni a casa? No, la didattica si fa a scuola. Se dopo 8 ore in classe, devi ancora studiare, vuol dire che il tempo pieno ha fallito il suo obiettivo”. Alle medie si può incominciare a dare pochi compiti mirati, ma per non più di un’ora al giorno. E anche alle superiori è assurdo caricarli come dei muli costringendoli magari ad abbandonare gli sport o lo studio di uno strumento musicale che fino a quel momento li aveva appassionati.

Ci sono compiti e compiti

“Ma soprattutto i compiti devono rappresentare un momento di riflessione, non di ripetizione meccanica. Ma lo sanno o no i professori che quando danno una versione di latino a casa, i ragazzi ci mettono meno di dieci minuti a procurarsi la traduzione in quella fogna che è Internet? Molto meglio allora proporre una riflessione sull’attualità di Tacito. Quando lui dice “Dove hanno fatto il deserto, ora lo chiamano pace” sta parlando anche della tragedia di Aleppo di questi ultimi mesi”. Esistono anche soluzioni più radicali, come per esempio il modello della “scuola capovolta” – flipped classroom – che, nato negli Stati Uniti, si è diffuso velocemente in Francia, soprattutto alle medie, e che anche da noi in Italia viene sperimentato ormai in poco meno di mille istituti. Le lezioni si seguono da casa, via pc o tablet, mentre i compiti si fanno in classe lavorando insieme, divisi per gruppi, con la supervisione del docente.

Giù le mani dall’autonomia didattica

Ma un conto sono le avanguardie didattiche che i professori decidono di sposare per libera scelta e con profonda convinzione, tutt’altro è appellarsi ai sindaci o al governo per vietare i compiti. Come ha ricordato anche il ministro Stefania Giannini: «Non si possono cancellare i compiti per legge. La libertà di insegnare è sacra». E comunque il conflitto permanente fra genitori e docenti non solo è un segno di debolezza da entrambe le parti ma alla fine non può che danneggiare i ragazzi. Il vero segreto della ricetta finlandese – se ce n’è uno – non sta nell’abolizione dei compiti – come banalizzando ha raccontato nel suo ultimo film Michael Moore – ma nel la centralità della figura docente, nel rispetto di cui maestri e professori godono in quella società. Come ha ricordato anche Papa Francesco, di fronte all’emergenza educativa di questi giorni, non è immaginabile altra via d’uscita che un nuovo patto scuola-famiglia. Con o senza i compiti.