Dipendenze comportamentali e adolescenti: a rischio circa due milioni per cibo, social e videogiochi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Bidoli

DATA:   29 marzo 2023

Dipendenze comportamentali e adolescenti: a rischio circa due milioni per cibo, social e videogiochi

Dalla prima indagine sulle «Dipendenze comportamentali nella Generazione Z» dell’Istituto Superiore di Sanità è emerso che i giovani sono sempre più soli e hanno difficoltà nelle relazioni, anche con i genitori

La generazione Z, la prima generazione di nativi digitali, è a rischio di dipendenze comportamentali. A provarlo uno studio realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità su un campione rappresentativo di ragazzi tra gli 11 e i 17 anni che ha fotografato i preadolescenti e gli adolescenti italiani che risultano essere sempre più soli pronti a riempire i «vuoti» relazionali con cibo, social e videogiochi.
In realtà basterebbe che i giovani «facessero una vita “normale”, socialmente gratificante, dove le sfide sono compatibili con l’adattamento sociale e non necessariamente occasioni di trasgressione. Dobbiamo puntare a questa normalità, che nei ragazzi in età adolescenziale significa mettersi alla prova e uscire dal nido, ed è ciò che li salva nella crescita», spiega Daniele Novara, pedagogista, counselor e fondatore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (CPP).

 

Dipendenza da cibo

È quella del cibo la dipendenza più diffusa: riguarda oltre un milione e 150mila ragazzi (in maggioranza di sesso femminile delle scuole superiori) e in 1 caso su 10 è in una forma considerata grave. «Le dipendenze legate agli alimenti c’entrano con la pandemia, con l’aver trascorso un periodo molto lungo chiusi in casa. Il mangiare è diventato un’attività compensativa che facciamo ancora fatica a lasciare alle spalle», puntualizza Novara che continua. «Il cervello preadolescenziale e adolescenziale è un cervello compensativo, ovvero ha un bisogno sistematico di «compensarsi» nelle aree del piacere. È un cervello che è alla ricerca continua di gratificazioni e che, per natura, è opportunistico sul piano dei compiti sociali e molto sensibile sul piano della compensazione dell’area celebrale del piacere. Qui si tratta però di riflettere su cos’è pericoloso e cosa non lo è. Per esempio, lo sport è una classica attività di compensazione che non è pericolosa, anzi positiva. Permette ai ragazzi di vivere l’età, con le sue caratteristiche, senza metterli in pericolo.
Viceversa il tipico abbassamento del senso di pericolo, che riguarda alcuni giovani, potrebbe portali ad affrontare situazioni pericolose, oppure anche il fenomeno di isolamento sociale (noto come Hikikomori ) mette i ragazzi a rischio».

 

Dipendenza da videogiochi

Al secondo posto dei comportamenti a rischio di dipendenza ci sono i videogiochi.
Il problema vede coinvolto il 12% degli studenti (con una prevalenza nei maschi delle scuole secondarie di primo grado per i quali la percentuale arriva al 18%), con effetti legati a una maggiore incidenza di depressione, aggressività e ansia sociale.
«Qui la difficoltà è generata dalla tendenza che hanno i genitori, e in parte anche gli insegnanti, alla condivisione con gli adolescenti piuttosto che all’educazione degli adolescenti», spiega Novara. «Le pratiche educative, fatte di regole e limiti, sono state sostituite dalle pratiche di cura semplice e condivisione di tempo e/o interessi e questo porta a dei problemi. Pensiamo all’utilizzo notturno dei dispositivi digitali, che è una delle abitudini più negative che ci sia, per gli esiti scolastici ma anche perché favorisce irritabilità e disturbi alimentari. Spesso i genitori anziché intervenire sono compiacenti, aspettano che sia il ragazzo a decidere di non usare più i videogiochi di notte e questo è impossibile. Una volta che il cervello si “aggancia” alle sue aree di piacere, come nel caso di utilizzo prolungato di un device, non è più in grado di avere funzioni reversibili, ossia di fare retromarcia. Per cui il problema è ancora una volta nel mondo degli adulti. Non possiamo semplicemente condividere il tempo con gli adolescenti e compiacerli, abbiamo un ruolo educativo», dice l’esperto.

 

Dipendenza da social

La dipendenza dai social media riguarda, invece, un ragazzo su 40 (con una prevalenza nelle ragazzine over 14) con conseguenze sul piano dell’ansia sociale e una maggiore incidenza di impulsività. «Il Covid ha portato un fenomeno di cui vediamo gli affetti: il prolungamento dell’accudimento materno in adolescenza.
In questa fase della crescita l’attaccamento materno, che è una forma di cura tipica dell’infanzia, diventa deleteria per i ragazzi che hanno bisogno di sentire e provare le “sfide” della vita», spiega il pedagogista. «I figli vanno accompagnati nella crescita e guidati, soprattutto nell’adolescenza. Per quanto riguarda i social, basterebbe rispettare il decreto che ne vieta l’utilizzo sotto i 14 anni. Che senso ha che dei ragazzini frequentino lo smartphone come e quanto frequentano la scuola (o anche di più)? Significa che c’è una deroga da parte delle famiglie e dei genitori che poi produce una serie di situazioni potenzialmente pericolose», dice Novara.

 

Difficoltà nelle relazioni

I ragazzi tra gli 11-13 anni con un rischio di “dipendenza social” dichiarano una difficoltà comunicativa con i genitori nel 75,9%, quelli che soffrono di “dipendenza da videogiochi” nel 58,6%, quelli con una “disturbo alimentare” grave nel 68,5%. Percentuale che arriva al 77,7% nei ragazzi delle scuole superiori che presentano una tendenza rischiosa al ritiro sociale. «C’è una difficoltà comunicativa nei ragazzi, è la paura di trovare una resistenza nell’altro. Ed è il tema tipico della gestione dei conflitti: cosa fare quando gli altri non fanno quello che tu desideri che facessero e capita, soprattutto, nei giovani che hanno avuto un maternage (accudimento materno) prolungato. I ragazzi hanno bisogno di affrontare le sfide, non di essere sostituiti in tutto per tutto dai genitori che, invece, dovrebbero accettare il loro allontanamento e gestirlo il meglio possibile. Se i ragazzi vogliono uscire, fare esperienze fuori dal nucleo familiare è normale, così come è giusto che in adolescenza considerino la casa un “albergo” , c’è da preoccuparsi se dovesse accadere il contrario. Il problema delle relazioni, però non riguarda solo il rapporto con i genitori ma anche quello tra pari. I giovani devono imparare a relazionarsi, a gestire frustrazioni e le comunicazioni “difficili” con i coetanei», spiega Novara.

 

Cosa deve preoccupare i genitori

I genitori si devono allarmare se vedono che il figlio tende a isolarsi, o se inizia a sottrarsi agli impegni. «Non volere andare a scuola, per esempio, è un segnale molto negativo», dice l'esperto. «Prima di guadare le dipendenze esplicite, bisognerebbe guardare se l’adolescente sta sfidando la vita o se si sottrae. Se si sottrae, prima o poi, si metterà nei guai. L’isolamento è l’anticamera delle dipendenze, per esempio dai videogiochi. I genitori di solito sono preoccupati dalle cattive compagnie ma, in realtà, il problema più grosso è la mancanza di compagnia. Le cattive compagnie ci sono, ma sono rare, la mancanza di compagnie si lega a un elemento depressivo che sta diventando molto comune tra i ragazzi e le ragazze di oggi. Se un giovane non ha interessi, si ritira, finisce in un vuoto che verrà prima o poi riempito da qualcosa, e spesso quel qualcosa sono dipendenze dannose» conclude Daniele Novara.

Violenze e social, ecco la società senza veri genitori

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE:  Antonio Polito

DATA:  2 giugno 2019

Massimo Ammaniti: «Violenze e social, ecco la società senza (veri) genitori

Lo psicoanalista: «È in crisi l’asse centrale della famiglia: fare figli e allevarli. Noi umani siamo dotati di un sistema che serve a prendersi cura dei piccoli, è un fatto biologico»

Professore Massimo Ammaniti, ci aiuti. Qui c’è bisogno di uno psicanalista. Che sta succedendo nelle famiglie italiane? Un tempo, neanche troppo tempo fa, eravamo campioni mondiali di familismo, la famiglia era al centro di tutto, nel bene dell’accudimento amorevole che dura una vita, dei legami di solidarietà e di affetto; e anche nel male del familismo amorale, del nepotismo, del paternalismo. Oggi invece della famiglia si parla solo in campagna elettorale e nella cronaca nera, perché dalle famiglie provengono alcune tra le storie più dolorose e ripugnanti. «È andato in sofferenza l’asse centrale e cruciale della istituzione-famiglia, la sua legge fondamentale: la scelta della procreazione, l’impegno che comporta l’allevamento, le rinunce e i sacrifici, sembrano sempre più ostacoli alla ricerca della felicità individuale, alla cultura del narcisismo, che mette al centro della vita la soddisfazione dei propri desideri. Abbiamo visto, nel giro di poche settimane, nella periferia di Milano, nella provincia piemontese, in un paese del Frusinate, tre vicende di maltrattamenti e abusi nei confronti dei figli piccoli da parte di genitori in condizioni di grave marginalità sociale, con storie di droga e alcol, padri e madri irascibili e violenti o acquiescenti e complici, che hanno preso a botte i figli fino a farli morire. E perché? Perché piangevano, si lamentavano, davano fastidio, impedivano il sonno o l’intimità dei genitori. Avrà notato che si tratta sempre di bambini intorno ai due anni. È il momento in cui un neonato, che va solo nutrito e pulito, diventa un essere umano che si muove, cammina, ha caldo e freddo, fa richieste continue. Alla prima prova con il duro mestiere di genitore, queste persone non hanno retto. Sono solo la punta dell’iceberg. I dati sugli abusi nei confronti dei minori ci dicono che otto casi su dieci si verificano in famiglia. È lì che vive l’orco delle favole».

Questa è la patologia dell’abbandono, della deprivazione. Ma la normalità? A me pare che il problema più grande delle famiglie italiane è che di figli ne fanno ormai davvero pochi. E chi se ne lamenta, segnalandolo come il problema principe della nostra comunità, viene subito trattato come un reazionario, un tradizionalista, un cripto-fondamentalista.
«La laicissima Francia ha preso di petto il problema della natalità, e ha messo in campo negli anni delle politiche di aiuto alle famiglie che hanno avuto ottimi risultati, tanto che oggi la natalità è più o meno sul tasso di rimpiazzo demografico, due figli per ogni donna in età fertile; mentre noi siamo a 1,32, praticamente il Paese dell’Occidente dove si fanno meno bambini. E — sono d’accordo — non è solo un problema sociale o economico. Anche se occupazione femminile, sgravi fiscali, asili nido, tempo parziale, contributi per il baby sitting, sono fattori decisivi per consentire a chi vuole generare di provarci. Ma poi ci sono anche quelli che non vogliono figli perché trovano più bella una vita senza, o li vogliono il più tardi possibile, e spesso è troppo tardi. E questo è un fatto culturale. I figli sono considerati problemi, impegni, condizionamenti, in conflitto con la realizzazione dei propri desideri. L’ha scritto anche il Papa nell’esortazione Amoris laetitia, e secondo me ha ragione, che c’è in giro troppo individualismo. Nel rapporto 2016 l’Istat calcola che il 34% delle famiglie italiane non ha figli. E del rimanente 66% con prole, il 46 per cento ha un solo figlio. È scomparso un mondo, quello dei fratelli e delle sorelle. Un mondo che consentiva ai ragazzi di non essere adultizzati fin dalla nascita, di avere un’infanzia. Se non partiamo da questo epocale cambiamento non comprendiamo niente. Una società che non fa figli si spegne».

Con la denatalità muoiono anche idee e valori del passato. Come si fa a spiegare la «fraternità» a una generazione di figli unici?
«Inoltre un bambino che cresce solo con gli adulti è spesso vittima di una iperstimolazione, che è l’altra faccia dell’abbandono, ma ha effetti negativi sullo sviluppo infantile. Li ha visti tutti questi bambini tenuti al ristorante fino a ora tarda? E tutte quelle che io chiamo le protesi educative? Il tablet già nel passeggino, il video per i viaggi in treno, YouTube a colazione, come se avessimo assunto una balia elettronica per essere un po’ lasciati in pace. Ci sono ricerche che dicono che già a otto mesi un bimbo cui vengano offerti un pupazzo e uno schermo rivolge la sua attenzione allo schermo. Così si mettono le basi per forme patologiche di dipendenza dal video. Un bambino che va a letto con la storia letta dai genitori invece ne trae un vantaggio non solo in termini di sviluppo del linguaggio, ma anche di abilità sociale, perché impara il gioco dei significati del comportamento umano, il codice della crescita».

 

Prima parlavamo dei dati Istat. Ma secondo lei è «famiglia» anche un nucleo senza figli? Gli inglesi dicono «household» che è un termine più neutro e generale, indica i gruppi umani che vivono insieme, non necessariamente legati da rapporti di sangue.
«Dal punto di vista statistico, in Italia vengono definite famiglie anche i nuclei composti da una sola persona, cioè i single. E non voglio certo discutere qui dello stile di vita che ciascuno si sceglie. Ma è un fatto indiscutibile che noi umani siamo dotati di un apposito sistema di care-giving predisposto dall’evoluzione nella corteccia orbito-frontale, e che serve a prendersi cura dei piccoli della specie. È una esigenza, diciamo così, biologica. Dal punto di vista sociale, poi, dobbiamo sapere che in una famiglia con figli è più agevole l’acquisizione di quella caratteristica cruciale dell’essere umano, il suo vero successo evolutivo, che chiamiamo “mentalizzazione”, e cioè la capacità di vedere il punto di vista degli altri, di capire che il comportamento dei simili nasce da stati d’animo simili ai nostri. Vale per i ragazzi, che se non fanno questa esperienza in famiglia poi arriveranno senza maturità all’incontro con il gruppo dei coetanei; ma vale anche per gli adulti, che diventando genitori imparano a vedere il mondo attraverso gli occhi dei figli, una singolare e travolgente esperienza di trasformazione. E la “mentalizzazione” è contagiosa, è una scuola di educazione al vivere in società».

Adesso che me lo dice capisco che cosa è che non va nei «social»: mancano persone disposte a mettersi nei panni dell’altro, per vedere le ragioni altrui, che è poi la condizione sine qua non della società aperta e della discussione pubblica. Ma che succede a un adolescente se in famiglia non riesce ad apprendere questa skill della «mentalizzazione»?
«Succede quello che è successo a Manduria, o a quel gruppo di giovani della periferia romana che hanno preso a sassate un rider di colore che si pagava l’università consegnando la pizza. Succede che alla logica della società, che è inclusiva, si sostituisce quella del gruppo, o peggio del branco, che è esclusiva. Sempre più spesso anche il social network è un branco. In quella logica si è inclusi se si esclude il fragile, il goffo, il timido, il malato, il disabile, il nero, chiunque sia in una condizione di vulnerabilità. L’Unicef calcola al 37% la percentuale dei ragazzi che sono stati in un modo o nell’altro vittima di episodi di bullismo. Perché i deboli, a quella età, sono tanti. E la socializzazione malata, priva della educazione che avviene in famiglia, è spietata nel rifiutare la debolezza».

 

Se ho capito bene lei sta dicendo che gli adolescenti narcisisti di oggi sono la prima generazione di bambini cresciuti in famiglie narcisiste?
«Esattamente. Escludere l’altro per sentirsi incluso. Questo è il contrario della socializzazione, è la tribù. L’esperienza del rifiuto è poi drammatica per chi la subisce. Ha conseguenze serie sullo sviluppo del carattere e genera stati d’ansia e di depressione. Io osservo nella mia esperienza che questo meccanismo è ormai prassi nelle scuole superiori; anche, e forse perfino di più, nei migliori licei delle grandi città, dove i professori sembrano disarmati, e i genitori distratti. E guardi che ciò che succede nelle discoteche dei quartieri borghesi di Roma, dove di recente è stata violentata una ragazza etiope da tre giovanissimi, alcol, sostanze, pasticche, viene sempre più spesso iscritto alla categoria dello “sballo”, come se fosse una forma naturale, e solo un po’ più esuberante, di divertimento. Arancia meccanica di Kubrick era la storia di un gruppo di psicopatici. Ma quanto profetico è stato quel film nello svelare il sottile piacere della sopraffazione, della intimidazione e della violenza che dorme in ciascuno di noi, e che solo quella raffinatissima forma di educazione che è la cultura può dominare. Ciò che è successo a Manduria a quel povero sessantenne, morto al culmine di un calvario di cattiveria gratuita e di sevizie, è l’arancia meccanica dei giorni nostri».

Cosa ci può salvare? Cosa è rimasto di buono nella famiglia italiana? Cosa dovremmo fare, oltre che fare più figli, stare di più con loro, saper correre il rischio educativo?

«Ci può salvare l’impegno. L’etica della responsabilità. Un bene comune da perseguire. Ci sono milioni di volontari in Italia. Quella è la cura. Ci sono 150.000 scout, quella è la palestra. Ma l’impegno civile potrebbe vivere in mille altri modi. Le racconto un episodio che ho vissuto di persona, e non dimentico. Dopo il terremoto dell’Aquila, un gruppo di università italiane pensò di replicare ciò che l’ateneo di Harvard aveva fatto in Giappone, a Kobe, dopo il terribile sisma che l’aveva colpita. Proponemmo al ministero dell’Istruzione un progetto per coinvolgere i ragazzi delle scuole nella ricostruzione, dedicandovi due pomeriggi alla settimana in cambio di un piccolo salario. L’esperienza di Kobe aveva dimostrato che un impegno collettivo poteva aiutare a combattere quei fenomeni di spaesamento, depressione, isolamento sociale, che spesso si accompagnano alle catastrofi nel comportamento dei giovani. Ci risposero che erano troppo giovani per quel tipo di cose, che i ragazzi andavano piuttosto tirati su di morale, che nelle scuole avrebbero invece mandato i clown. Ecco che cosa intendo: non li prendiamo mai sul serio, non crediamo che possano diventare adulti, forse perché noi genitori rifiutiamo di esserlo, e ormai siamo già cinquantenni quando loro diventano adolescenti, e così si somma la nostra crisi di invecchiamento alla loro di crescita. Ci capita addirittura di entrare in competizione, quasi invidiandone la gioventù. Si formano così famiglie liquide, un magma dove le generazioni non si distinguono più, e nelle quali inevitabilmente l’autorità deperisce e svanisce, perché nessuno se la sente più di incarnarla».

Ma esercitare la propria autorità con i figli è diventato pericoloso. Chi prova a mettere regole in casa si trova di fronte alla contestazione classica: ma gli altri lo fanno. Se resisti sull’acquisto del telefonino ti mostrano i compagni che ce l’hanno. Abbiamo paura di essere odiati dai figli, di non essere buoni genitori...
«E invece i genitori questo devono fare, se sono adulti e non adultescenti. Un genitore buono è un genitore finito, che ha rinunciato al suo compito di educatore. Le regole non possono più essere certamente imposte come accadeva quando eravamo ragazzi noi. Non è più il tempo per padri padroni, ma questo non vuol dire che non ci sia bisogno di regole. Discusse, frutto di mediazioni, costruite per quanto possibile con il consenso, ma servono. Sono gli stessi ragazzi, inconsciamente, a chiederci una guida. Altrimenti, senza una leadership, neanche la ribellione è possibile, e invece è la cosa più sana che possa succedere a quella età».

 

Un tempo i ragazzi avevano fretta di crescere e di andarsene, proprio per emanciparsi dall’autorità paterna, fare di testa propria, costruirsi la libertà e l’intimità di cui un adulto ha bisogno. Oggi questa fretta non c’è anche perché i genitori non esercitano più tanta autorità, li trattano come fratelli e li proteggono come se ne fossero i sindacalisti?
«I genitori devono fare il possibile perché i figli conquistino la loro autonomia e vadano via di casa, a cominciare la loro vita. Attenzione ai falsi sentimentalismi. Troppo spesso li tratteniamo dicendo a noi stessi che sono loro a voler restare. Convivenze eccessivamente lunghe tra generazioni diverse sono innaturali. Io scolpirei sullo stipite di ogni porta, in ogni casa, una frase di Erik Erikson, lo psichiatra che negli anni 60 studiò il tema della identità: “Se i genitori non accettano la propria morte, i figli non potranno entrare nella vita”. Il più delle volte sbagliamo proprio per questa paura inconscia. Oscuramente avvertiamo che la loro crescita si accompagna alla nostra fine. E proviamo a impedire entrambe. Perché l’uomo del Duemila, nel suo delirio di onnipotenza, pretende di vivere come se fosse immortale».

Preadolescenza, che disastro! Come si manifesta e cosa possono fare i genitori

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Anna Rezzara

DATA:  23 agosto 2018

Preadolescenza, che disastro! Come si manifesta e cosa possono fare i genitori

I cambiamenti lasciano senza risposte non solo i genitori ma anche i ragazzini che oscillano tra l’infanzia e la rassicurazione e il desiderio di emanciparsi. Ecco come reagire e stare vicini, senza giudicare nè esagerare nel controllo

Sono madre di due figlie una di 22 e l’altra di 12 anni. Il mio problema è la minore: da qualche tempo ha un atteggiamento scontroso nei confronti di tutti i componenti della famiglia, si relaziona poco e niente e fa di tutto per chiudersi in camera con il suo telefono e la sua musica. Curiosando qualche giorno fa tra le sue cose, mi sono accorta che con il telefono fa ben altro che parlare: riceve messaggi dai suoi compagni con i compiti già svolti e soprattutto ho scoperto che ha un fidanzatino con il quale si è già baciata e si giurano eterno amore. Con una scusa le ho tolto il telefono, sperando che non si distraesse più tra compiti copiati e il fidanzato ma è riuscita ugualmente a trovare un vecchio ipod per recuperare tutti i suoi giri. Come devo fare? È piccola fisicamente (non ha avuto il primo ciclo, non si trucca, non è né carne né pesce insomma) ma le sue esperienze sia in ambito scolastico (con il passaggio nascosto di compiti) e sia in ambito affettivo (con questo ragazzo che sembra già più avanti di lei anche se l’età è la stessa e la classe pure) mi preoccupano perché le reputo troppo in anticipo rispetto all’età che ha.

Risponde la dottoressa Anna Rezzara, professore ordinario di Pedagogia alla Facoltà di Scienze della Formazione all’Università Bicocca di Milano.

I comportamenti che osserva in sua figlia (scontrosità in famiglia, cercare l’isolamento nella sua stanza, immergersi nella musica, mutato atteggiamento verso la scuola, prime esperienze amorose) sono segnali chiari di preadolescenza.

Un periodo difficile per loro

È un periodo di transizione in cui avvengono graduali mutamenti fisici, mentali e psicologici con ritmi personali e differenziati, in cui si risvegliano emozioni e pulsioni nuove, in cui cambia progressivamente il significato dei rapporti con famiglia, scuola e amici, in cui si è come sospesi, incerti, tra l’identità infantile, ormai da lasciarsi alle spalle, e un’identità futura, attraente e temibile allo stesso tempo, ma comunque ancora indefinita e difficile non solo da realizzare ma anche solo da immaginare. Vuol dire essere, come lei dice “né carne né pesce” e questa è una condizione impegnativa proprio per le incertezze, le insicurezze, le ansie che produce. I preadolescenti si interrogano ogni giorno su chi sono, chi diventeranno, sulla propria immagine, sui cambiamenti fisici e psicologici che avvertono in sé senza riuscire ad avere, per lungo tempo, un’immagine chiara e stabile di se stessi e della propria identità nuova.

Non trattenere, non anticipare

Hanno nostalgia dell’infanzia e ancora bisogno di sicurezza e protezione ma provano forte un desiderio nuovo di emancipazione, libertà, ridefinizione dei rapporti familiari e non, esplorazione di nuovi modi di essere. Possiamo osservare in loro atteggiamenti regressivi, di illusorio rifugio in un’infanzia da cui stanno uscendo, alternati con comportamenti che invece esplorano e sperimentano nuove e più evolute modalità di essere e di relazionarsi, alla ricerca di una nuova identità che per lungo tempo resterà incerta e confusa prima di stabilizzarsi. Inizia per sua figlia un periodo impegnativo e fragile, che richiede tutta l’attenzione e soprattutto tutto il rispetto della sua particolarità. Voglio dire che sono da evitare sia il rifiuto di queste sue nuove spinte evolutive, il trattenerla cioè nell’infanzia, sia all’opposto ogni anticipazione e accelerazione di quello che maturerà progressivamente, la sua nuova identità di adolescente.

Domande ai figli: ma loro non sanno rispondere

Non è difficile e laborioso solo per i ragazzi questo passaggio, ma anche per i genitori: i ragazzi faticano a comprendere chi sono tanto quanto i genitori faticano a comprenderli; i genitori si pongono domande sui loro comportamenti a cui neppure i figli saprebbero rispondere; i genitori non li riconoscono più proprio come per loro è un lavoro quotidiano riconoscersi nei cambiamenti continui, fisici, psicologici, mentali, di gusti e di umori; si è disorientati, incerti, ansiosi entrambi, genitori e figli; come i figli faticano ad uscire dall’infanzia, così non è semplice per i genitori sostituire l’immagine del loro bambino con quella di una persona nuova, in evoluzione continua. E spesso non aiuta i genitori neppure il ricordare la propria adolescenza e preadolescenza, perché quella dei figli è diversa, perché i tempi sono diversi è mutano quindi le espressioni dei ragazzi, il modo di attraversare l’adolescenza, la sua stessa collocazione nel tempo che è tendenzialmente anticipata rispetto all’adolescenza dei genitori.

Stare vicini senza invadere

Che cosa può fare allora un genitore? Innanzitutto essere convinto che i figli in questo periodo hanno molto bisogno, a dispetto delle apparenze, che i genitori continuino a fare i genitori. Poi aprirsi alla possibilità e alla capacità di essere genitori diversi, di svolgere diversamente il ruolo, perché il figlio cambia, ha caratteristiche ed esigenze educative diverse. Rispettare questo periodo particolare, comprendere che è una necessaria fase di passaggio che ha però delle sue particolari e specifiche caratteristiche, a cui bisogna rispondere nel modo giusto: non è “una malattia da aspettare che passi”, è un periodo che ci chiede nuovi modi di essere genitori. Occorre comunicare, più con gesti concreti che a parole, che ci accorgiamo dei cambiamenti, che li accogliamo, magari a fatica, ma ne comprendiamo il senso. Occorre comunicare fiducia in loro, in ciò che stanno preparandosi a essere. È importante esserci, essere sempre disponibili al colloquio, osservarli e ascoltarli; vigilare anche le loro esperienze, nel senso però di essere attenti a come vivono, a come stanno, ma senza invadere i loro spazi, senza pensare di controllare tutto ciò che fanno, senza sostituirsi a loro nelle scelte, lasciandogli insomma la possibilità di fare esperienza, di provare, di sperimentarsi, anche di sbagliare, perché i piccoli errori, le piccole trasgressioni, gli insuccessi fanno parte del crescere. Pure è necessario mostrare interesse per ciò che fanno e disponibilità a parlarne senza richieste pressanti, stimolarli all’essere attivi, a sperimentarsi in vari campi, sostenendoli, riconoscendo i loro successi, aiutandoli ad accettare anche gli insuccessi.

È un tempo lungo

I cambiamenti, e le difficoltà, del crescere dureranno un tempo lungo: è importante che i genitori si predispongano a un percorso, a una evoluzione, sappiano aspettare con fiducia, non si aspettino soluzioni rapide, cambiamenti definitivi, assetti stabili, e che trasmettano ai figli la capacità di aspettare e di avere fiducia. Esserci, dialogare quando possibile, essere pronti ad ascoltare, continuare a presidiare regole di comportamento, limiti e criteri di scelta, sostenerli nella sperimentazione di sé, riscontrare e commentare le nuove capacità e potenzialità mi sembrano le indicazioni essenziali. Nel suo specifico, non mi preoccuperei della precocità della relazione di sua figlia: sono i primi passi di un’educazione sentimentale, che lei potrà accompagnare quanto più si mostrerà interlocutrice disponibile e comprensiva, senza giudizi e censure non giustificati dai fatti. E non mi preoccuperei neppure troppo dei compiti copiati: sono piccoli espedienti che servono sia a risolvere una temporanea difficoltà di assolvere il lavoro scolastico, perché magari troppo presi da altre vicende che occupano la mente, sia anche, forse, a sentirsi parte di un gruppo che scopre la complicità e sperimenta piccole trasgressioni.

Figlio, alunno distratto? Ecco come potenziare l’attenzione in poche mosse

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Orsola Riva

DATA: febbraio 2018

I consigli del neurobiologo Alberto Oliverio: «Un bambino di 6-7 anni ha una soglia di attenzione massima di un quarto d’ora. Gli adolescenti poco più del doppio». Come aumentare la concentrazione? Provate con mezzora di corsa

Una società distratta

Perennemente distratti. A casa, a scuola, sul lavoro. Basta un messaggino, una notifica di WhatsApp, un’email e la nostra mente migra altrove. E se capita a noi grandi figuriamoci ai più piccoli. Lo sanno bene gli insegnanti dei nostri figli che, a ogni giro di boa, fanno sempre più fatica a tener desta l’attenzione in classe. Ma siamo sicuri che sia tutta colpa del bombardamento digitale? Non è che tenerli inchiodati al banco per ore sia semplicemente una pretesa sbagliata? E’ quanto sostiene il neurobiologo Alberto Oliverio, professore emerito alla Sapienza, autore di oltre 400 pubblicazione scientifiche, saggi e libri di divulgazione.

Il cronometro dell’attenzione

«Trascurare il modo in cui funziona il cervello dei bambini e degli adolescenti porta a commettere errori clamorosi sul piano pedagogico - spiega Oliverio -. L’attenzione è un processo naturale che si realizza a livello della corteccia cerebrale bloccando le attività marginali che altrimenti ci distrarrebbero». Un conto è stringere i pugni, un altro è imparare a chiudere pollice e indice, perché richiede appunto di inibire gli altri riflessi di prensione. Proprio perché è un’attività complessa, l’attenzione ha una durata limitata nel tempo. «Sa quanto regge un bambino? A 6-7 anni non più di un quarto d’ora. Poi pian piano aumenta fino a mezzora, massimo tre quarti d’ora negli adolescenti». Così poco? «Certo. Anche un adulto riesce a stare concentrato per non più di un’ora. Poi l’attenzione inizia a calare».

Viva l’apprendimento spezzettato

«Il modo migliore per stimolare l’attenzione - dice Oliverio - è spezzettare l’apprendimento», dice Oliverio. L’alfabeto si impara prima se lo si studia una lettera alla volta. Vale per i bimbi delle elementari ma anche alle medie dove sarebbe buona norma usare l’ultimo quarto d’ora della lezione per ricapitolare quanto fatto per punti.

Il cervello? Cammina

«Il cervello di un bambino è fatto per agire, per muoversi», dice Oliverio. Lo aveva capito benissimo già Maria Montessori cent’anni prima che le sue intuizioni trovassero conferma nelle neuroscienze. La grande pedagogista italiana aveva elaborato un sistema basato su una serie di azioni, i cosiddetti comandi («vai», «fai», «prendi»), che servivano letteralmente a mettere in moto le conoscenze. Perciò se vostro figlio vi preoccupa perché, mentre ripete i sette re di Roma, va su e giù dal divano come se fossero i sette colli, tranquilli: ha ragione lui.

La ginnastica dei neuroni

Niente aiuta la concentrazione quanto il movimento. «Molti studi dimostrano che basta mezzora di attività fisica aerobica per ossigenare il cervello e stimolare i cosiddetti fattori trofici o NGF, quelli scoperti negli anni 50 da Rita Levi Montalcini», spiega Oliverio. Per questo - dice - l’ora di ginnastica andrebbe messa all’inizio e non alla fine della giornata scolastica. E’ incredibile quanto ancora oggi nelle scuole italiane l’attività fisica sia negletta. Mancano strutture adeguate (le palestre, quando ci sono, spesso non sono nemmeno a norma) ma prima ancora manca una cultura condivisa che riconosca il giusto peso all’attività motoria: quante volte i nostri figli sono costretti a fare la ricreazione ingolfando i corridoi invece che andare a sfogarsi in cortile?

Suoni e luci

Più in generale, un modo per sollecitare l’attenzione è associare alle parole anche immagini, suoni, movimenti. Usare un approccio multimediale. Oliverio fa l’esempio dei libri illustrati per ragazzi: «Guardare le figure, passarci sopra il dito, è un’esperienza motoria che facilita la lettura». Vale anche per gli adulti: uno dei segreti del cosiddetto «speed reading», la lettura veloce, sta proprio nel percorrere il testo con un dito.

L’apprendimento recitato

Anche la recitazione può essere di grande aiuto. «Nelle scuole francesi - dice Oliverio - è molto in voga il cosiddetto apprendimento recitato delle lingue». Si mette in scena una situazione pratica, per esempio l’organizzazione di un viaggio in treno: i ragazzi recitano la parte del passeggero che va allo sportello per comprare il biglietto e così via. «In questo modo - spiega ancora Oliverio - si associano memorie procedurali a memorie semantiche».

Tempesta ormonale

E il cervello degli adolescenti? «Quello - dice Oliverio - è dominato dagli ormoni, da pensieri e fantasie erotiche». In questa fase di sviluppo le emozioni tendono a prendere il sopravvento. Anziché negarle si può cercare di farle entrare, garbatamente, in gioco. Durante la lezione di storia dell’arte per esempio può essere utile chiedere ai ragazzi e alle ragazze quali emozioni un quadro o una scultura suscitino in loro. E’ un modo per agganciare apprendimenti freddi e caldi, spiega Oliverio.

Una stanza tutta per sé

A casa poi andrebbero eliminate le distrazioni. Bambini e ragazzi dovrebbero avere una stanza tutta loro, possibilmente senza televisione ma anche senza musica perché sono tutte cose che li distraggono, spiega Oliverio. E il telefonino? Idem con patate. Magari si può fare un patto, negoziare con i ragazzi che prima studiano e poi riprendono in mano il telefono per chattare con gli amici. Sempre però con la consapevolezza che non si può pretendere di tenerli per ore chini sui libri.

Il padre-peluche: genitore morbido, compiacente. Non sa stare nel suo ruolo, si trova a disagio e concede tutto

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Antonella De Gregorio

DATA: 6 ottobre 2012

«Un incontro per genitori: un papà mi chiede se può usare la paghetta come punizione: toglierne un po’ alla figlia (5 anni) disubbidiente… Per me, due orrori in uno», commenta l’educatore Daniele Novara. «Una mamma mi racconta del figlio, 4 anni, che fa sempre quel che gli pare. Poi, per dimostrarmi quanto sia “avanti”, mi dice: pensi che quest’estate ha scelto lui dove andare in vacanza, voleva vedere la Cina», racconta Anna Oliviero Ferraris, docente e psicoterapeuta dell’età evolutiva.

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Esempi, tra i tanti che gli esperti di famiglia e infanzia collezionano quotidianamente. Che dicono quanto la situazione ci stia sfuggendo di mano. Quanto nella nostra generazione i bambini siano sempre più chiamati a decidere al posto dei grandi, costretti a prendere posizione.

Bambini «adultizzati», che scelgono i corsi da frequentare, la scuola, cosa si fa nel weekend. In quale casa restare quando mamma e papà non vanno più d’accordo…

Quelli che Irene Bernardini psicoterapeuta con grande esperienza di conflitti, genitori e figli descrive nel suo libro «Bambini e basta» (Mondadori). Bambini che avete presente di sicuro, che non andrebbero a letto mai, interpellati su tutto («che cosa vuoi mangiare amore?»), super protetti dalla fatica di imparare a vivere, ma costretti a dare corpo a un’immagine da vincenti.

E che, loro malgrado, si trovano anche a farci un po’ da mamme e da papà. Bambini, in fondo, soli. Perché lasciati soli a decidere, quando siamo noi a dover decidere per loro. Mentre noi, gli adulti, dice la psicologa, siamo, all’opposto, «infantilizzati»: sempre più insicuri e fragili. Incapaci di governare le nostre vicende personali, scarichiamo responsabilità e compiti sui figli.

Quanti ne vediamo di bambini così? «Tanti — assicura Daniele Novara, arrabbiato con un Paese orfano di pedagogia —. Sono più di vent’anni che assistiamo a questo ribaltamento dei ruoli. Siamo passati dal padre-padrone al padre-peluche, una figura di genitore morbida, compiacente, gratificante. Che non ama stare nel suo ruolo, si trova a disagio. Dal disordine esce un “figlio tirannico”». Oppure quello che Susanna Mantovani (docente di Pedagogia, prorettore all’Università Bicocca di Milano) chiama: «figlio disorientato». È l’altra faccia del rispetto, dice. Dal «decido tutto io» si è passati al «non decido niente».

L’eccesso di scelta manda i piccoli in confusione. Invitare il bambino a dire «voglio» crea uno squilibrio, mentre l’educazione è questione di equilibrio. Un equilibrio che cambia a seconda dei tempi e delle circostanze.

 La tendenza a non scegliere ciò che è giusto per il figlio, la pigrizia emotiva, caratterizzano questo tempo. «Io preferisco un genitore che si impone un po’, magari anche sbagliando, a un educatore fragile, che rende i bambini insopportabili e confusi». Rinunciando al compito di far loro conoscere il mondo, aspettando che si comportino da adulti, certi genitori si sfiniscono, si arrabbiano, sprofondano nell’impotenza e cedono sempre di più.

«Credono di farlo per amore, invece lo fanno per sé, perché non sanno che un bambino è soprattutto piccolo. Che ci vuole un gran lavoro dei grandi per aiutare un bambino ad affrancarsi, poco alla volta, dai suoi desideri assoluti», sostiene Bernardini.

Se i nostri bambini crescono troppo in fretta, è anche colpa della società del consumo, dice Anna Oliverio Ferraris, che qualche anno fa ha dedicato un libro — «La sindrome Lolita», Rizzoli — a questi adulti in miniatura:

«Siccome devono diventare anche loro degli acquirenti, si spingono il più presto possibile verso l’adolescenza convincendoli che sono molto più maturi di quanto non siano e che possono scegliere autonomamente».

Gli studi degli psicologi ci dicono che i bambini oggi sono più svegli, più intelligenti. «Ma si fa confusione tra intelligenza e maturità, che è fatta di anche di crescita emotiva, di esperienza — avverte la psicoterapeuta —.I nostri bambini possono capire più di quello che emotivamente sono in grado di reggere».
Invertire la rotta è possibile? Sì, secondo Novara. Cominciando a dire qualche no, senza sprofondare nei sensi di colpa. Poi? «Sospendere le discussioni. Si chiede ai genitori di parlare tanto con i figli, ma l’educazione viene prima. Il discussionismo provoca nei figli un senso di solitudine». Infine, dice — e lo spiega anche in un manualetto appena uscito, «L’essenziale per crescere» (Mimesis) — bisogna evitare ogni forma di «servizievolezza»: e cioè fare «le cose che san fare i bambini, solo perché i bambini non le vogliono fare». Esempio? Ti taglio la pizza a sei anni o ti raccolgo la forchetta perché tu non hai voglia di farlo. Novara è speranzoso: «Questa è una generazione di genitori molto ingaggiati, che vogliono fare il meglio possibile». Mantovani vede la strada in salita: «A volte bisogna avere il coraggio di farsi aiutare da un esperto».

E Bernardini: i bambini non sono più «i bastoni della nostra vecchiaia», come li chiamavano i nonni. E non possono essere le nostre bussole.

Hanno bisogno che noi siamo grandi. Che assecondiamo non i loro desideri ma i loro bisogni. E noi abbiamo bisogno che loro siano piccoli. Bambini. E basta.

Cosa fare se sospettate che vostro figlio è un bullo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: decalogo pubblicato sul profilo Facebook della Polizia di Stato

DATA: 27 gennaio 2017

Ecco dieci consigli utili

Il decalogo pubblicato sulla pagina Facebook «Una vita da social» della Polizia di Stato

Cosa deve fare un genitore quando scopre, o ha solo il dubbio, che il figlio possa essere un bullo o un cyberbullo? La psicoterapeuta Maura Manca, presidente dell’Osservatorio nazionale adolescenza, ha messo a punto un decalogo pubblicato sul profilo Facebook della Polizia di Stato Una vita da social.

PER LEGGERE I 10 CONSIGLI UTILI BASTA USARE IL LINK

Il violino di Einstein, ovvero come crescere figli creativi (e geniali)

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Orsola Riva

DATA: 20 ottobre 2016

I consigli ai genitori del professor Adam Grant, autore del best-seller «Originals»: più valori che regole, puntate sul carattere e fate leggere i vostri figli. Con una postilla della psicologa Carol Dweck: non ditegli che sono intelligenti, così rischiate di bloccarli per la paura di sbagliare.

 

Sogni il Nobel per la fisica? Studia il violino

Sognate che vostro figlio/figlia un giorno vinca il Nobel per le fisica? Allora fategli suonare il violino, come faceva mamma Einstein con il piccolo Albert. All’inizio detestava andare a lezione, poi si appassionò veramente. Tanto che una volta disse che se non fosse stato capace di pensare in musica non avrebbe mai potuto elaborare la teoria della relatività.

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I bambini creativi sono i grandi visionari di domani. Non i primi della classe, i piccoli geni della matematica o del computer di cui noi genitori andiamo così fieri, ma quelli che studiano per passione più che per zelo, che non cercano di compiacerci con i bei voti e il dieci in condotta ma che sanno pensare con la propria testa. Solo belle parole? Niente affatto, sostiene il professor Adam Grant, docente alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, autore del bestseller Originals: How Non-Conformists Move the World. Che genio e creatività vadano a braccetto, dice Grant in un video pubblicato da The Atlantic, lo dimostra il fatto che se si fa un censimento degli scienziati che hanno vinto il Nobel, molti di loro sapevano anche suonare uno strumento musicale, scrivevano poesie, erano discreti pittori dilettanti, ottimi ballerini, amavano recitare o fare giochi di prestigio... Ecco allora alcuni consigli ai genitori per incoraggiare la creatività dei propri figli.

 

Valori più che regole

In primo luogo il professor Grant consiglia di non puntare tutto sulle regole. I bambini che le seguono pedissequamente finiscono per diventare compiacenti, mentre quelli che vi si ribellano rischiano di non imparare ad affrontare i problemi ma solo a schivarli.

Anche se - va detto - in letteratura le pagine più belle sulla creatività dei bambini le hanno scritte proprio i disobbedienti. Vale su tutte la lezione, immortale, di Tom Sawyer che, dopo l’ennesima marachella, viene messo per punizione dalla zia a dipingere la staccionata di casa. Cosa si inventa Tom per spuntarla ancora una volta? Non solo riesce a convincere un gruppo di amichetti a imbiancare la staccionata al suo posto ma si fa pure pagare per il lavoro.

staccionata

 

Conta il carattere, più del comportamento

Se troppe regole fanno male, anche l’eccesso opposto rischia di essere dannoso, sostiene il professor Grant. Inutile continuare a dire: «Non seguire il gregge, non fare il pecorone».

 

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Vietato dire ai figli che sono intelligenti (IO, PIETRO B., NON SONO D’ACCORDO, IN BASE ALL’ESPERIENZA. BiSOGNA AGGIUNGERE CHE SENZA LA VOLONTà NON SI VA DA NESSUNA PARTE)

A proposito dell’importanza del carattere, vale la lezione della psicologa americana Carol Dweck, che da anni sostiene come non ci sia niente di più sbagliato che continuare a lodare i propri figli dicendo loro in continuazione che sono tanto intelligenti e dotati. Così si rischia soltanto di bloccarli per la paura di sbagliare. Mentre il solo modo per aiutarli è puntare non sulle loro presunte capacità innate ma sul carattere inteso come impegno continuo e resilienza: se cadi, rialzati; se sbagli, riprovaci.

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E’ il processo che conta (con buona pace del totem americano dell’IQ, il quoziente d’intelligenza). Ecco la ricetta migliore per crescere dei figli davvero intelligenti (e creativi): non dirgli che lo sono!

 

La lezione che viene dai libri

Una delle cose che plasma maggiormente l’immaginazione di un’intera generazione sono i libri per ragazzi. I nostri nonni, i nostri padri e pure noi ci dividevamo in due squadre: Verne contro Sandokan. Da un lato l’avventura con la A maiuscola, quella dei viaggi al centro della terra, sulla luna o in fondo agli abissi, dei capitani Nemo e delle isole misteriose; dall’altro, l’esotismo della giungla, fra pericolosi sikh armati di kriss (i pugnali malesi con la lama a biscia) e perle di Labuan...

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I nostri figli sono cresciuti invece alla scuola di Hogwarts, ma in fondo fa lo stesso. Secondo il professor Grant uno dei modi migliori per stimolare la creatività dei bambini è chiedergli di mettersi nei panni dei loro eroi di carta: cosa farebbero Harry Potter o Ermione in una determinata situazione? Aiuta a guardare le cose con gli occhi degli altri, a pensare in modo creativo. Anche se, certo, con la bacchetta magica è tutto molto più facile...

Giovanni Bollea: un umanista della neuropsichiatria

FONTE: varie

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: novembre 2016

 

 

QUELLO CHE SEGUE è UN TESTO LUNGO, PER PERSONE CHE "SANNO ED AMANO LEGGERE"

La nostra è una scuola che è cambiata, ma che deve ancora cambiare molto,

deve diventare europea, deve formare i giovani, deve abituarli

ad entrare nel mondo del lavoro (Giovanni Bollea).

 

 

Giovanni Bollea (Cigliano, 5 dicembre 1913 – Roma, 6 febbraio 2011), è considerato il padre della neuropsichiatria infantile italiana del secondo dopoguerra.

Ripercorreremo rapidamente la sua opera, con uno sguardo particolare all’educazione.

In effetti Bollea attribuiva una grandissima importanza all’azione educativa degli adulti (insegnanti e genitori); considerava la società e il mondo degli adulti come responsabili nel prevenire il disagio, la sofferenza e anche le psicopatologie nello sviluppo dei bambini e degli adolescenti. Giovanni Bollea aveva una concezione aperta e globale del suo stesso lavoro clinico e credeva molto in un approccio integrato tra neuropsichiatria, educazione e azione sociale. Senza trascurare una analisi dei fattori neurobiologici per comprendere il comportamento dei bambini, attribuiva tuttavia una attenzione particolare agli aspetti psico-affettivi e socio-relazionali del suo sviluppo. Dimostrò sempre un vivo interesse per l’educazione e la relazione aulti/bambini/adolescenti. Pensava che insegnanti e genitori possono fare molto per prevenire il disagio e le psicopatologie. Non a caso i suoi due libri Le madri non sbagliano mai I genitori grandi maestri di felicità sono diventati due bestseller; affrontano la questione dell’educazione dei bambini e degli adolescenti con l’ottica di prevenire il disagio e i percorsi destrutturanti della personalità. Questi testi sono scritti anche in modo accessibile al grande pubblico senza tuttavia cadere nella banalità e la superficialità.

Giovanni Bollea a più riprese cita l’opera di grandi educatori come Maria Montessori, il medico educatore belga Ovide Decroly (fondatore del metodo globale di apprendimento) ma anche l’educatore sovietico Anton Makarenko; a proposito di quest’ultimo scriverà: «Mi ha sempre colpito l’affermazione del grande pedagogista Anton Makarenko, secondo cui lo scopo dell’educazione è “la gioia di vivere insieme”; ciò è molto di più del semplice educare, del guidare verso uno sviluppo armonico della personalità o l’acquisizione di una buona cultura». Non dimentichiamo che Makarenko oltre che rappresentare un punto di riferimento per tanti educatori del dopoguerra aveva, con la sua esperienza delle «colonie pedagogiche» e il suo famoso Poema Pedagogico, dimostrato l’importanza dell’ambiente sociale nel prevenire il disagio e nel favorire lo sviluppo potenziale di bambini in difficoltà; inoltre sapeva anche rivolgersi in modo semplice e comprensibile ai genitori che cercavano indicazioni pratiche per l’educazione dei propri figli (vedi il Libro dei genitori). L’approccio di Bollea ricorda anche quello che sviluppò Anna Freud (alla quale si riferiva) nelle sue Conferenze ai genitori e agli insegnanti; fare riflettere gli adulti in modo comprensibile e stimolante sul loro ruolo psico-educativo e le loro responsabilità nel favorire lo sviluppo, il benessere soggettivo e la crescita dei bambini, degli adolescenti che saranno gli adulti di domani.

 

L’opera di Giovani Bollea

Laureato in medicina nel 1938 e specializzatosi in malattie mentali, fa un periodo di formazione a Losanna dove impara il suo futuro mestiere di neuropsichiatra infantile. A Losanna segue con grande interesse le lezioni di Jean Piaget; ne condivide la concezione costruttivistica; impara a dare una importanza centrale alla dimensione educativa nel processo di costruzione della personalità; impara anche a collegare ricerca empirica e impianto interpretativo. È in quel periodo che legge i lavori di Anna Freud sul «normale e il patologico» nel bambino provocando una vera rivoluzione culturale nella neuropsichiatria infantile italiana degli anni ’50 con la psicoterapia di gruppo e l’idea di «rete terapeutica», facendo interagire in una ottica di lavoro di equipe multiprofessionale, genitori, insegnanti, psicologi, terapeuti, educatori e assistenti sociali. Ma nelle sue scelte professionali vi sono anche elementi esistenziali. Bollea descrive in questo modo, in un articolo apparso su La Stampa il 10 dicembre 2003, la sua scelta di vita:

Nel 1947 , subito dopo la guerra, ho incontrato una grande quantità di piccoli che soffriva, costantemente, preda dell’angoscia per il conflitto che era stata costretta a vivere. Per questo ho incominciato. Per loro. L’anno prima ero stato scelto tra sei italiani per frequentare un corso di psichiatria infantile a Losanna. Tornato dalla Svizzera ho iniziato a lottare per mettere in atto i miei progetti.

Giovanni Bollea si forma con il neuropsichiatra Lucien Bovet; è fortemente influenzato dalle sue letture di Eugen Bleuler e Ludwig Binswanger (ne condivide l’approccio antropologico e fenomenologico); a contatto con l’antropologia, la fenomenologia e l’epistemologia genetica di Piaget nonché la psicanalisi adotta un approccio pluridimensionale e raccomanda molta cautela nel fare diagnosi di psicopatia in eta evolutiva; lotterà tutta la sua vita per un approccio terapeutico non farmacologico e non violento per i bambini con problemi di sofferenza psichica; dava una grande importanza alla relazione nello sviluppo cognitivo e affettivo, sia in ambito educativo che terapeutico. Scriveva a proposito dell’approccio diagnostico e della cura del bambino:

Il momento cruciale è quando si comincia ad intravedere la via sui cui condurre il paziente (…), io non so mai qual è la prima domanda che gli farò. Lo guardo, lo saluto, magari gli faccio fare un momento di ginnastica e poi mi viene in mente la prima domanda, scendo cosi al suo livello di comunicazione, con umiltà.

  1. Bollea stacca la neuropsichiatria infantile dalla medicina pediatrica mostrando che la sofferenza del bambino non è mai del tutto riconducibile ad una base organica. Secondo lui sono le relazioni umane a curare e ad avere bisogno di essere curate; e questo anche quando la malattia ha un’origine organica e genetica. Attribuiva una grandissima importanza alle relazioni sociali e affettive in qualsiasi progetto psicoterapeutico. Raccontava di aver sentito la sua vocazione all’età di sette anni visitando il Cottolengo a Torino, quando una suora gli disse : «Questi bambini disgraziati saranno i primi ad entrare in paradiso. E lui rispose con la voce dell’innocenza: perché invece non provate a curarli?».

Bollea vive nel quartiere popolare di Porta Palazzo dove c’è miseria e disagio sociale; va al liceo e lavora anche nel pastificio ereditato dalla bisnonna. Vive direttamente la condizione drammatica della comunità ebraica durante il fascismo attraverso il suo matrimonio con Rena Jesi; viene spedito sul fronte russo come medico dove deve operare senza anestesia; non dimenticherà mai quella esperienza umana a contatto con il dolore; mostrerà costantemente quanto sia importante la relazione umana affettiva.

Dopo la guerra crea a Roma l’Istituto di neuropsichiatria infantile. Spende tutta una vita ad occuparsi di bambini con anomalie e difficoltà nello sviluppo e le loro famiglie, insegna neuropsichiatria infantile all’Università, è un professore appassionato, le sue lezioni saranno pubblicate e diventeranno un testo di riferimento sia per gli studenti che per gli operatori dei servizi territoriali. Giovani Bollea era un irriducibile idealista nonostante il suo realismo di scienziato; credeva nelle potenzialità dell’essere umano e nelle sue capacita di esprimere il meglio di se stesso. Negli ultimi anni della sua vita era preoccupato per le voci di chiusura dell’Istituto fondato da lui con il rischio di vedere la neuropsichiatria infantile riassorbita dalla medicina pediatrica e organica.

Aveva letto il lavoro del grande educatore francese Edouard Séguin (che era stato in parte tradotto per la prima volta in italiano da Maria Montessori) Cura morale, igiene ed educazione degli idioti e ne scrive anche una introduzione per la versione completa in italiano. Il maestro degli idioti, cosi veniva chiamato Séguin, aveva fatto uscire dal manicomio i piccoli disabili intellettuali e mentali e aveva fondato, nel 1838, nel cuore di Parigi, la prima scuola per questo tipo di bambini; credeva nella loro educabilità e nella possibilità di una loro inclusione sociale. Bollea saprà utilizzare la lezione di Séguin rispetto all’importanza dell’educazione dei sensi, della volontà e delle autonomie , considerava che l’ambiente sociale fosse fondamentale nella costruzione della personalità e nello sviluppo psico-affettivo del bambino. Come il medico ed educatore belga Ovide Decroly (morto nel 1932), fondatore del metodo globale di apprendimento e di una concezione ecologica dello sviluppo e come Maria Montessori con il suo ambiente a misura di bambino, Bollea credeva molto nel ruolo educativo e anche terapeutico del contesto di vita.

Bollea è anche un innovatore quando osserva che il bambino, contrariamente alle teorie diffuse negli anni 50, percepisce l’influenza e la presenza del padre già nell’ottavo mese della sua vita, periodo che corrisponde più o meno con quello dello svezzamento. Riconosce alla figura paterna una grossa valenza formativa nel sistema di relazione familiare, sottolinea il carattere decisivo del dialogo e dell’ascolto nonché il sentimento d’amore che deve intercorrere tra genitori e figli. Riprende anche i lavori di Susan Isaacs, la quale affermava che non basta l’affetto e che il mestiere di genitore è faticoso, difficile e complesso. Giovanni Bollea amava molto il contatto con la natura; per questa ragione fonda l’Associazione ALVI, Alberi per la vita, una associazione di lotta per il rimboscamento della penisola. Raccontava a dei bambini qualche mese prima di morire: «Ho incontrato un albero grande e grosso. Ci siamo guardati e lui mi ha detto “siamo entrambi alla fine”». Qualche giorno prima della sua morte dichiara: «per favore , niente retorica sulla mia persona».

Tutto Giovanni Bollea era in queste frasi: semplicità, profondità e senso della vita. Per conoscere l’opera e il pensiero di Giovanni Bollea occorre ricordare anche il suo Compendio di psichiatria dell’età evolutiva, pubblicato nel 1980 da Bulzoni, che comprende le sue lezioni all’Università. Condivideva l’approccio osservativo di Seguin e Decroly, cioè una osservazione per comprendere e non per definire e catalogare. Tradusse il lavoro di Carl Jung Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, che venne pubblicato nel 1977. Scrisse negli anni molteplici introduzioni a diversi lavori di psicologia, psicopatologia e di pedagogia; basta pensare alla sua presentazione dei testi di Philips Asha I no che aiutano a crescere, di Roberta Infrasca Accadimenti dell’infanzia e psicopatologia dell’adulto, di Israel Orbach Bambini che non vogliono vivere: come capire e prevenire le situazioni estreme, di Andrea Rett Trisomia 21: aspetti biologici, educazionali e sociali del soggetto Down. Negli ultimi anni della sua vita Giovanni Bollea si occupava molto della prevenzione nel lavoro psico-educativo con gli alunni, con il suo allievo Marco Lombardo Radice (scomparso giovane nel 1989) si preoccupava della condizione adolescenziale e della latitanza educativa del mondo degli adulti. Era anche molto preoccupato di fenomeni nuovi come l’eccessiva esposizione dei ragazzi alla violenza sugli schermi televisivi, l’onnipotenza alienante dei videogiochi, l’oscillare dei genitori e degli insegnanti tra lassismo e costrizione. Vedeva con lucidità gli elementi di crisi che attraversano oggi il nesso famiglia, scuola e società.

 

Giovanni Bollea e l’importanza dell’educarsi alla relazione

Negli ultimi tempi della sua vita Giovanni Bollea vedeva con preoccupazione sgretolarsi il ruolo educativo degli adulti, il disagio diffuso, la povertà comunicativa e l’assenza di relazioni affettive; ne vedeva l’effetto devastante sulla crescita psicologica dei bambini e degli adolescenti. Bollea era convinto della necessità di partire da una lucida diagnosi socio-relazionale e psico-educativa sia della famiglia che della scuola per capire la natura dei cambiamenti intervenuti ma anche per pensare alle strategie d’intervento sia sul piano educativo che terapeutico per prevenire sofferenza, conflitti distruttivi e disgregazione delle forme di solidarietà umana sia sul piano intersoggettivo che su quello sociale e generazionale. In una intervista del 2003 proponeva una serie di riflessioni sui cambiamenti intervenuti sia nella famiglia che nella scuola:

  1. a) Come è cambiata la famiglia?

Giovanni Bollea confessa che si tratta di una domanda difficile che richiede una risposta complessa: «Ci sono ormai tante famiglie, ci sono famiglie in cui i bambini, dai tre ai dieci anni, hanno già fatto tutto, sport diversi, hanno imparato una o due lingue, hanno viaggiato per il mondo. Poi invece ci sono famiglie, e sono le più numerose, che devono fare i conti con lo stipendio».

  1. Bollea notava anche l’avanzamento dei diritti delle donne, ma il loro ingresso massiccio nel mercato nel lavoro aveva modificato i rapporti familiari senza l’accompagnamento di strutture di supporto adeguate per realizzare la conciliazione lavoro e famiglia; non smetteva d’insistere sull’importanza di «tenere unita la famiglia», di sviluppare una cultura dell’aiuto reciproco e del rispetto delle differenze nella stessa famiglia per «garantire una vita dignitosa a tutti i suoi membri». Per lui la dichiarazione dei principi di eguaglianza delle opportunità per le donne non era stata accompagnata da una vera riorganizzazione dei rapporti di lavoro per favorire la conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare: la situazione è spesso di grande sofferenza psicosociale con ricadute preoccupanti sulla crescita e l’educazione dei figli.

 

  1. b) Come è cambiata la scuola?

La scuola forse non ha saputo, secondo Bollea, accompagnare i cambiamenti intervenuti nella società. Gli insegnanti, insieme ai genitori, sono i veri educatori, sono loro che aiutano bambini e adolescenti a crescere e a diventare cittadini. «Ma per questo bisogna dare dei punti di riferimento ai ragazzi; ecco la rivoluzione che ci vuole». Qui Bollea descrive la condizione adolescenziale con grande lucidità.

Oggi l’adolescente che finisce le scuole superiori non si sente ancora un cittadino, perché non ha gli strumenti e nessun orientamento per cercare un varco nel mondo del lavoro. Ma chi è ormai che parla dei nostri adolescenti? Lo Stato non ne parla. Non i giornali, se non quando accade qualche fatto eclatante, quei giornali che i ragazzi molto raramente leggono. Ma, si badi bene, gli adolescenti hanno un loro modo per essere informati, hanno un loro giornale che è Internet. E il danno psicologico che può causare l’uso indiscriminato e incontrollato della rete, non è stato ancora calcolato.

Tuttavia Internet è diventato ormai il loro mondo; e si formano sulla rete, vengono educati, per modo di dire, alla relazione «impersonale» e alla sessualità fuori da ogni affettività e rapporto reale. Giovanni Bollea si chiede: «D’altronde , chi parla loro di una cosa così importante come il sesso? Non la scuola, non i genitori, e allora loro hanno scoperto internet, e l’uso distorto che del sesso internet fa». Il vero problema è che gli adolescenti sono oggi senza punti di riferimento valoriali e senza guide significative. Inoltre «i genitori fanno fatica e non conoscono affatto chi essi frequentano o cosa pensano, e come vivono. Noi avevamo i circoli, i centri culturali, c’erano i partiti e ogni partito aveva la sua scuola di formazione: oggi dove sono i centri di raccolta dei giovani? Ecco perché i ragazzi sono allo sbando». Giovanni Bollea consiglia ai genitori di parlare con i ragazzi e di ascoltarli, raccomanda anche ai genitori di fare il racconto della loro vita, di creare davvero una relazione basata sul dialogo. In un testo del 1998 rivolgendosi agli insegnanti parla del «trauma della bocciatura» scrivendo:

I professori, anzitutto, devono analizzare per tempo il decorso annuale del profitto e delle assenze di ogni ragazzo a rischio di bocciatura, discutendone insieme per capirlo e trovarsi un possibile rimedio, soprattutto se si è convinti che possa farcela in qualche modo, e poi chiamare i genitori per discutere del problema. Se il ragazzo non è in grado di raggiungere un buon risultato, il professore lo confessi al genitore, pregandolo però, di non dirlo al figlio: sarà lui stesso, infatti, a farlo. E qui comincia l’opera delicata degli insegnanti: delicata perché ormai la scuola è vista solo come uno strumento per ottenere un pezzo di carta finalizzato al lavoro, senza un autentico interesse per la cultura. Proprio in occasioni come queste i professori dovranno invece correggere il decadimento dei valori della scuola, affermare il significato fondamentale della cultura e il suo bisogno come base per lo sviluppo della creatività e della riuscita professionale. Non è importante perdere un anno, mentre lo è raggiungere una completezza e una maturità culturali. Ogni bocciatura va comunque giustificata e spiegata nell’ambito della formazione della personalità del ragazzo, che dovrebbe quasi giungere ad accettarla grazie alle parole positive del professore: occorre che sia vista , infatti, come un mezzo per raggiungere il successo, e non la conquista del famoso pezzo di carta (…). Ricordiamoci che la bocciatura è sempre un grave trauma trauma, una grave caduta di autostima, una grave impossibilità a sopportare la vista dei compagni promossi, dei parenti, dei genitori.

I genitori devono essere un sostegno e da parte dell’insegnante vi deve essere la capacità di trasformare quello che potrebbe essere vissuto come un trauma in un messaggio di relazione di aiuto. Quindi bisogna evitare di «trasformare» questa situazione in un crollo dell’autostima e un vortice di «cupa, irrazionale disperazione».

 

Ultime considerazioni sull’infanzia e la società

L’ultimo scritto di Giovanni Bollea viene pubblicato dal quotidiano La Repubblica il 19.02.2011 ed è intitolato Come nasce il sorriso? In questo suggestivo articolo si parte da una domanda : «È vero che il sorriso è una capacità innata dei bambini?». Qui Bollea parte da un mezzo tipico della comunicazione umana, il sorriso e il riso; quest’ultimo era già stato studiato dal filosofo Henri Bergson nei primi del 900′; ma fu anche il pedagogista Raffaele Laporta a scrivere negli anni ’50 un libricino sulla comicità del bambino. Bollea descrive il sorriso del bambino come legato a quello della madre che lo guarda; fa notare che «il sorriso che nasce, non dalla vista del volto della madre, ma dal suo profumo, rimarrà nella memoria per sempre». È così che «il sorriso dei primi anni si prolunga anche durante le esperienze iniziali all’interno delle difficoltà scolastiche, che si manifestano già nell’asilo nido, dove i primi collegamenti con l’altro da sé sono ritmati dagli episodi di pianto, che è il loro modo di colloquiare». Giovanni Bollea scriveva: «la più grande mia gioia nella vita è di ridare il sorriso ai bambini e ai ragazzi che l’avevano perduto».

Aveva una visione molto critica nei confronti della società; sottolineava come fosse necessario cambiare paradigma passando da quello quantitativo-tecnologico a quello ecologico qualitativo con al centro la dignità e i bisogni della persona umana; partendo proprio dalla persona del bambino. Notava come il consumismo non avesse solo delle conseguenze funeste poiché «il suo valore intrinseco è di per sé basso, e porta l’uomo a un oggettivo impoverimento». Era convinto che sia «impossibile mantenere l’attuale dinamica dei consumi senza precipitare nell’abisso». E aggiungeva in modo perentorio. «Si è tragicamente constato, per meglio dire, che l’universalizzazione del tenore di vita occidentale, cioè il suo allargamento a tutto il Terzo Mondo, non è attuabile senza il totale collasso ecologico della Terra, da cui deriva il carattere moralmente inaccettabile ed ecologicamente insostenibile del nostro tipico stile di vita occidentale» (Le madri, p. 123).

Per questa ragione confidava molto in un nuovo impegno per una nuova pedagogia da parte degli adulti (genitori e insegnanti in primis) per favorire il passaggio: 1) dalla passività alla scoperta autonoma 2) dalla accettazione servile al giudizio critico 3) dall’apprendimento dell’esistente alla progettazione del nuovo 4) dall’isolamento narcisistico all’apertura all’altro. Una nuova pedagogia in grado di promuovere un nuovo stile educativo: «un nuovo stile educativo porterà l’educatore a non pretendere la “risposta giusta” (cioè già nota in precedenza e conforme a un sapere comunemente accettato), ma a fare domande la cui risposta non si conosce ancora. L’educatore, insomma, dovrà sviluppare l’osservazione diretta, spregiudicata e l’immaginazione dell’allievo» (ivi, p. 122).

«Il docente, dal canto suo, diventa il discente insieme agli alunni, senza una netta frattura tra scuola e mondo esterno, tra scuola e mondo esterno, tra scuola e vita: questo divario, che è sempre esistito e che nel mondo moderno si è fatto quasi patologico, deve scomparire».

Giovanni Bollea riprende il decalogo della pedopsichiatra Susan Isaacs e suggerisce alle madri: 1) non dire semplicemente non devi fare questo ma aggiungere «fai quest’altro» 2) non chiamare «capricci» le cose che ti disturbano 3) non interrompere il bambino impegnato a giocare 4) non «portare» a passeggio il bambino ma andare a passeggio con lui 5) non esitare di fare delle eccezioni alla regola 6) non prendere in giro il bambino: ridi con lui e non di lui 7) non fare del bambino un giocattolo da mostrare agli altri 8) non credere che il bambino capisca ciò che gli dici 9) mantieni le tue promesse e non farle quando sai di non poterle mantenere 10) non mentire e non sfuggire alle domande.

«I bambini hanno bisogno non soltanto del nostro affetto e della nostra simpatia, ma anche della nostra intelligenza e dei nostri seri e pazienti sforzi per capire la via del loro sviluppo mentale: ecco ancora sottolineata la necessità dell’Ascolto».

 

Bibliografia:

Bollea,Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano 2003.

Id., Genitori grandi maestri di felicità , Feltrinelli, Milano 2005.

Id., Compendio di psichiatria dell’età evolutiva, Bulzoni, Roma 1980.

 

Gli effetti dei traumi sui piccoli (terremoto,…)

FONTE: Almanacco della Scienza del CNR

AUTORE: Angelo Gemignani e Francesca Mastorci

DATA: novembre 2016

I bambini e gli adolescenti esposti a eventi stressanti possono riportare conseguenze gravi sia nel breve che nel lungo termine. E questo è vero anche per calamità naturali come i terremoti che negli ultimi mesi stanno colpendo l'Italia centrale.

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I bambini, come gli adulti, possono vivere l'esperienza traumatica in qualità di vittima, spettatore, persecutore o soccorritore, sebbene abbiano difficoltà a comprendere le conseguenze derivanti dal rivestire una posizione o un'altra. Nella maggior parte dei casi, la mente di un bambino non è in grado di registrare in modo chiaro gli eventi stressanti, soprattutto quando si ripetono nel tempo. Durante le normali esperienze di vita il sistema nervoso centrale acquisisce i fatti avvenuti e le relative esperienze emotive, ma questo meccanismo viene alterato nelle esperienze fortemente traumatiche. Ad aggravare la situazione c'è poi l'incapacità dei bambini a verbalizzare le loro emozioni, che esprimono invece con agitazione, irrequietezza, paura del buio, problemi del sonno, incubi e scoppi di rabbia.

Più il bambino è piccolo, più è probabile che le modalità percettive prevalenti siano differenti da quelle dell'adulto e, quindi, non sempre comprensibili. Il vero indicatore delle emozioni infantili rimane l'adulto di riferimento, rispetto al quale il piccolo manifesta comportamenti d'attaccamento: sarà proprio la sua capacità interpretativa la chiave di lettura che consentirà di dare il giusto supporto.

I bambini, come gli adulti, hanno bisogno che qualcuno li aiuti a parlare di quanto è accaduto, poiché il silenzio è un danno che si aggiunge a quello dell'esperienza traumatica in sé. È necessario spiegare ai bimbi quello che stanno vivendo utilizzando il loro linguaggio, ricorrendo ad esempio al cartone animato o a storie lette da personale esperto.

I bambini, poi, difficilmente sanno associare i loro sintomi di malessere all'esperienza subita e, a fronte di un evento traumatico, sono in genere il corpo e il comportamento a parlare al loro posto con un'ampia gamma di reazioni emotive. Si possono identificare tre principali categorie: quelli che si mostrano tristi e depressi, quelli che diventano più aggressivi e ostili, quelli che tendono a isolarsi. Prima dei sette anni, di solito, i bambini rispondono senza un'apparente reazione emotiva, non esteriorizzando i loro sentimenti. Campanello d'allarme è però la tendenza alla regressione, che si manifesta con comportamenti infantili che il bambino aveva superato: piangere, succhiarsi il pollice, chiedere che gli venga dato da mangiare o il mancato controllo degli sfinteri. Inoltre, possono comparire ridotta concentrazione in classe e calo nel rendimento scolastico.

Queste reazioni, non riconducibili a un comune Disturbo dell'adattamento, si manifestano generalmente entro un mese dall'evento e possono protrarsi anche per mesi o anni dopo il trauma, sfociando nel Disturbo post-traumatico da stress, caratterizzato da ricordi ricorrenti dell'esperienza traumatica vissuta, sogni in cui si ripete l'evento, insonnia, irritabilità, fino alla cosiddetta 'anestesia emozionale', ossia appiattimento della sensibilità del bambino, ritiro sociale e riduzione delle capacità di interazione ludica. I bambini possono quindi mostrare un minore interesse per le attività usuali e apparire distanti e distaccati dalla famiglia e dagli amici.

In conclusione, è necessario predisporre contesti sicuri, in cui i bambini possano trasformare la realtà emotiva di cui sono stati partecipi passivamente attraverso strumenti quali il disegno, la drammatizzazione e la narrazione. In riferimento al terremoto del Centro Italia, ciò conduce alla necessità di definire percorsi che riducano la sintomatologia e diventino programmi di prevenzione per gli esiti patologici in età adulta.

Con Abcd i bimbi autistici apprendono giocando

FONTE: Marina Buzzi , Istituto di informatica e telematica, Pisa, tel. 050/3152631, email marina.buzzi@iit.cnr.it

AUTORE: Anna Maria Carchidi

DATA: novembre 2016

Negli ultimi anni si è registrato un aumento di diagnosi di sindromi dello spettro autistico in tutto il mondo, fondamentale è un intervento tempestivo e attuato con strumenti mirati. "I bambini autistici hanno bisogno di metodologie di insegnamento diverse in quanto bisogna rendere comprensibili i compiti che vengono loro assegnati per facilitarne l'esecuzione", spiega Marina Buzzi dell'Istituto di informatica e telematica (Iit) del Cnr. "Gli studi dimostrano come un aiuto sin dai primi anni di vita porti a un risultato migliore rispetto a un intervento tardivo e non strutturato, probabilmente a causa della duttilità delle strutture cerebrali".

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Dai dati dell'Istituto superiore di sanità relativi al 2010-2011 sul Piemonte e l'Emilia Romagna, emerge una prevalenza della sindrome nella popolazione dai 6 ai 10 anni. Inoltre, l'incidenza maschile è di circa quattro volte superiore rispetto a quella femminile. "Quando si ha un caso di autismo a basso funzionamento, cioè quando è presente un deficit di attenzione e/o di comunicazione risulta efficace una terapia intensiva uno a uno personalizzata e monitorata nel tempo”, continua la ricercatrice. “Questo approccio prende il nome di Aba (Applied Behaviour Analysis), è effettuata da personale specializzato, con insegnamenti a 360 gradi (competenze scolastiche, comportamenti adeguati al contesto, linguaggio, interazione sociale, etc.) e prevede il coinvolgimento attivo di genitori e insegnanti. Da questa premessa nasce il software Abcd (Autistic Behavior & Ccomputer-based Didactic), un'applicazione che permette di utilizzare l'intervento Aba su strumenti elettronici, come portatili, tablet e cellulari. È necessaria una connessione internet in quanto le immagini degli esercizi e i dati di registrazione sono depositati in un server centrale; inoltre, l'interfaccia del bambino e quella del tutor sono tenute separate: è il tutor che avvia l'esercizio dal suo dispositivo, facendo sì che attraverso la rete si sincronizzi con il dispositivo utilizzato dal bambino".

È stata già fatta una sperimentazione nelle scuole di Lucca e Capannori dove, per un intero anno scolastico, sette bambini hanno ricevuto un intervento Aba, utilizzando la app nel secondo quadrimestre. “I bambini hanno lavorato da un iPad, dimostrando un miglioramento nelle aree della comunicazione e socializzazione”, precisa Buzzi. “Si parte con una prima fase di apprendimento nella quale, poiché non deve commettere errori, il bambino riceve un aiuto completo che viene progressivamente sfumato, finché non arriva a effettuare una prova indipendente e con successo: a quel punto riceve un premio, per esempio può utilizzare un gioco a lui particolarmente gradito”.

Ma non tutti i casi di autismo sono uguali, quindi la app può essere tarata. "Abcd si adatta alle abilità del bambino tramite una configurazione che prevede età, recettività e capacità espressive. I livelli aumentano a poco a poco e il bambino impara attraverso semplici prove ripetute e distinte”, conclude la studiosa. “L'applicazione è stata progettata per bambini piccoli, ma anche i più grandi possono usarla con buoni risultati. Grazie alla registrazione automatica dei dati da parte di Abcd e l'inserimento dei dati soggettivi da parte del tutor Aba, come per esempio il livello di aiuto fornito, si possono valutare i progressi o riscontrare i problemi in atto, permettendo al personale specializzato di mettere a punto un intervento ad hoc".

Il progetto Abcd nasce da una partnership tra Iit e Istituto di scienza e tecnologie dell'informazione 'A. Faedo' del Cnr e Università di Pisa, in collaborazione con l'Istituto di fisiologia clinica del Cnr per l'analisi dei dati ed è stato finanziato dalla Regione Toscana, con un contributo di Registro.it.