La Sinistra ha creato gli studenti ignoranti

FONTE: La Nuova Bussola Quotidiana

AUTORE: Chiara Pajetta

DATA:  6 dicembre 2021

“Il danno scolastico”, libro-denuncia di Mastrocola-Ricolfi, che hanno elaborato i dati del disastro del nostro sistema di istruzione. «Se il figlio dell’idraulico non fa il liceo e non arriva a laurearsi è perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non l’ha preparato abbastanza».

“I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Questa la promessa della nostra Costituzione, nel suo articolo 34. Ma Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, nel documentato saggio edito da La nave di Teseo, descrivono cosa è invece accaduto negli ultimi sessant’anni, con i cambiamenti della scuola e dell’università. E dimostrano che “a pagare il conto più salato sono stati i ceti popolari”. Il paradosso più incredibile è che questa “strage degli innocenti” sia stata perpetrata in nome dell’uguaglianza e dei diritti dei più deboli, senza che nessuno abbia fatto nulla per fermarla. Così i due autori ci raccontano quello che definiscono “uno sbaglio enorme” avvenuto sotto i loro occhi negli ultimi decenni, da quando erano bambini fino a quando entrambi hanno insegnato al liceo e all’università.

 

“A scuola vanno bene solo i figli di papà. La scuola è classista, ben poco democratica, non fa da ascensore sociale”. Il figlio dell’idraulico fa l’idraulico, il figlio del notaio fa il notaio. Questa è l’accusa dei progressisti alla scuola tradizionale. Ma in realtà non è più così, il figlio dell’idraulico si diploma e va all’università, ma spesso non la finisce. Il motivo tuttavia non è tanto la situazione di partenza, bensì la mancanza di quello “scandaloso e immorale motore di avanzamento” che sono oggi le lezioni private, che aiutano a colmare le abissali lacune nella preparazione di base degli alunni svogliati che se le possono permettere, ma non sono invece accessibili ai meno fortunati. Perché il cuore della questione, che le analisi trascurano, è la preparazione realmente offerta dall’istituzione scolastica, il livello di studio, la qualità e la quantità di ciò che viene effettivamente insegnato e quindi imparato. “Se il figlio dell’idraulico non fa il liceo e non arriva a laurearsi è perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non l’ha preparato abbastanza”. Questa l’accusa spietata lanciata dalla Mastrocola. “Un ragazzo non potrà fare il liceo se noi per otto anni (cinque di elementari e tre di medie) non gli abbiamo insegnato quasi niente” o “se gli abbiamo insegnato qualcosa, ma poi non abbiamo anche deciso di esigere e di pretendere che lui le sapesse, quelle cose!”. È ovvio: se uno non sa scrivere non è in grado di fare un discorso compiuto;  se non sa cogliere i significati profondi di ciò che legge non potrà frequentare con successo né liceo né università. È la scuola che in effetti l’ha reso uno “svantaggiato”: la colpa è del percorso formativo con i suoi insegnanti. Ecco il danno scolastico, che causa la cosiddetta “dispersione scolastica”, cioè l’ abbandono della scuola, oppure la fuga verso  istituti “più facili” e degradati.

L’inadeguatezza cognitiva e culturale, prodotta dalla scuola stessa, impedisce agli studenti di superare gli esami universitari, per cui non arrivano alla laurea (in Italia la percentuale di laureati rispetto agli iscritti al primo anno è tra le più basse in Europa). I dati raccolti da Ricolfi su quella che definisce una “catastrofe cognitiva” sono lo specchio della sua esperienza di docente: in università agli esami il più delle volte lo studente non è semplicemente impreparato. Non capisce le domande. Il professore si è trovato di fronte a “un abisso che è innanzitutto di organizzazione mentale e di capacità di assimilazione”.

E perché accade questo disastro? si è chiesto. È il risultato di un cambiamento complessivo della società italiana, che ha accettato e gradito le scelte di una scuola facilitata e progressista con i suoi  slogan, come “la scuola dell’obbligo non può bocciare” e “il diritto al successo formativo”. Ma le basi per andare avanti le dovrebbe dare proprio la scuola dell’obbligo, che invece fa bellamente proseguire ragazzi disarmati e quindi votati al fallimento. Così inesorabilmente si è giunti all’abbassamento progressivo degli standard dell’istruzione nella scuola e nelle università. Riforma dopo riforma lo scempio è stato compiuto, con lo spezzettamento delle parti di programma su cui essere interrogati o l’introduzione massiccia degli strumenti di valutazione “a crocette”. Mastrocola e Ricolfi sono coscienti dell’impossibilità di tornare tout court alla scuola del passato, che ci raccontano con nostalgia, ma che ora sarebbe improponibile, perché il mondo è davvero cambiato. Ma alcune indicazioni le offrono, ripescando il metodo sperimentato nella loro infanzia-adolescenza.

Un tempo “si studiava scrivendo”: chi ha una certa età ricorda i quaderni di appunti e le paginate di analisi logica e di parafrasi. O i temi, naturalmente. E l’impegno a ripetere ciò che si era studiato e sintetizzato. Era un modo di far “durare “ le nozioni che si leggevano, per “inciderle nella testa”. Pensiamo invece a come studiano i ragazzi oggi: leggono un capitolo e richiudono il libro. E non ricordano. Per non parlare dell’eliminazione o riduzione della letteratura (Manzoni no, è noioso, Dante troppo difficile).

Al contrario la Mastrocola sottolinea con vigore che “la letteratura ci educa alla distanza, ci rende familiare anche la lontananza spaziale e temporale”. Tanto più importante in un mondo dove vogliamo educare i giovani al rispetto delle differenze. Pensiamo all’obbrobrio della cancel culture, che provoca errori madornali di prospettiva. Succede quando non si ha dimestichezza col passato e non si è in grado di interpretare, cogliere il valore simbolico anche della storia. Giustamente i due autori rimpiangono la figura del vero maestro, tristemente trasformato in valutatore o distributore di apprendimenti o ridotto a formatore di abilità. Ma vorrebbero anche genitori che non si schierino sempre contro gli insegnanti, ma costruiscano con loro un clima di rispetto e fiducia. Non possiamo arrenderci al fatto che i nostri studenti falliscono perché “non hanno le basi”: se lo studio poggia sul niente si  perde persino la voglia di studiare. E così appare evidente il danno inferto al nostro Paese con l’abbassamento degli standard dell’istruzione che ha aumentato, non ridotto le disuguaglianze sociali. È molto amara la conclusione di Ricolfi, che si rivolge ai progressisti: “Ricevere un’ottima istruzione era l’ultima carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti, a cui molti di voi appartengono. Gliela avete tolta”. Con l’aggravante di farlo “a loro nome”.

L’invito è a battersi per la qualità della scuola e la Mastrocola lo chiede con un accorato appello ai genitori. Perché “la scuola rispecchia ciò che noi siamo, ciò che noi vogliamo”. Perciò “per fondare una scuola nuova bisognerà prima di tutto fondare una vita nuova”. È la stessa preoccupazione del noto psichiatra Paolo Crepet, che in una recente intervista definisce quella dei tredicenni, tra cui dilaga l’alcolismo e che compiono con indifferenza atti criminali, una generazione fallita.  Senza mezzi termini accusa i genitori di questi ragazzini mal-educati di non impegnarsi con i loro figli perché è troppo faticoso dire dei no. Più facile difenderli sempre e comunque, anche quando sono portati in commissariato per le loro malefatte, che per mamma e papà sono solo “ragazzate”. È questa la vera emergenza educativa: che i genitori vogliano davvero il bene dei loro figli. Che vuol dire non pretendere che siano promossi se non studiano né sottrarli alla responsabilità delle loro scelte. Ma perché i figli imparino la serietà della vita occorre che innanzitutto gli adulti siano veri e seri con la loro. Insomma, dei testimoni credibili.

Cara scuola progressista, quanti danni hai fatto

FONTE: Repubblica.it

AUTORE: Paolo Di Paolo

DATA: 13 ottobre 2021

La macchina dell'istruzione come amplificatore delle disuguaglianze: il saggio di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi

Una risposta inattesa che arriva mezzo secolo dopo: a quella lettera sovversiva spedita dalla Scuola di Barbiana un anno prima del 1968, per diventare simbolo di un'intera stagione di cambiamenti. La "professoressa" replica a don Milani, però nel 2021. Con una fermezza che farà discutere, in una delle pagine di Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La nave di Teseo), la battaglia del priore di Barbiana viene definita "anacronistica"; e non solo a giudicarla ora, ma già due decenni fa, quando entrava in vigore la riforma Berlinguer, l'altro grande bersaglio polemico del libro.

Alle soglie del 2000 - osserva la scrittrice Paola Mastrocola, autrice del saggio a quattro mani con il sociologo Luca Ricolfi - "il mondo era ulteriormente cambiato: nelle classi dove insegnavo io, c'erano ragazzi che non sapevano più né parlare né scrivere, ed erano i figli svogliati e viziati di una media borghesia, non più i figli di contadini e operai: a loro più che mai avremmo dovuto dare l'Iliade del Monti. Che senso aveva protrarre l'ideologia di don Milani? Eppure era ancora quello il modello proposto e celebrato nella scuola, un modello che poteva valere negli anni Cinquanta, e in un piccolo borgo sperduto tra le colline toscane".

Mastrocola e Ricolfi, mettendo in gioco ciascuno la propria esperienza di insegnamento (la prima nella scuola superiore, il secondo nell'università), e correndo consapevolmente il rischio di apparire "passatisti e nostalgici", accusano la scuola "facilitata, progressista e democratica" di essere la responsabile di un enorme buco di conoscenza e cultura nel nostro Paese.

La tesi dei due autori è che la macchina dell'istruzione italiana sia diventata "un formidabile amplificatore delle disuguaglianze", dietro un apparente egualitarismo didattico; e quel "non ho le basi", che anche nel corso di un esame universitario uno studente può offrire come attenuante della propria impreparazione, andrebbe - sostengono - preso alla lettera. Perché si tratta, nei fatti, di scarsa padronanza del linguaggio, di insufficiente capacità di comprensione delle domande e conseguente difficoltà nel produrre risposte in autonomia.

La liberalizzazione degli accessi nel post-'68, il diritto al successo formativo, il 3+2 voluto da Berlinguer sono secondo Mastrocola e Ricolfi le cause del disastro nella formazione accademica (sono molto severi anche con una classe docente universitaria impegnata in una demenziale corsa alle pubblicazioni su rivista, schiavi spesso compiaciuti di un sistema di reclutamento e di valutazione infernale; e qui è difficile contraddirli).

Ma all'università si arriva, quando si arriva, dopo un esame di maturità "farsa" e una scuola che negli ultimi cinquant'anni ha, ai loro occhi, abbassato progressivamente gli standard formativi insieme all'asticella della promozione. Fattore che avrebbe danneggiato i ceti popolari più di quanto abbia danneggiato i ceti alti: incrociando i dati Istat con i risultati delle prove Invalsi, Ricolfi intende dimostrare come sul destino sociale di un giovane abbia un'incidenza cruciale la qualità dell'istruzione ricevuta, in positivo, e il grado di indulgenza nella valutazione, in negativo. Più di quanto si possa pensare, e più dell'origine sociale e del contesto economico: "La scuola senza qualità amplia il vantaggio dei ceti alti, quella di qualità attenua lo svantaggio dei ceti popolari. Nella gara della vita, sono i ceti deboli le vere vittime di un abbassamento della qualità della scuola". Per modificare alla radice il "parametro di iniquità" occorre un'istruzione di qualità elevata, che possa letteralmente catapultare uno studente da un mondo sociale a un altro.

Mastrocola richiama il proprio stesso percorso, a riprova, per "incrinare un altro pilastro della tesi progressista": studiano solo i ragazzi le cui case sono piene di libri. "Non è vero. Non è detto. Qui azzarderei addirittura il contrario. La mia casa era vuota di libri. Neanche l'ombra. I miei non leggevano". È dipeso tutto dalla scuola, lei dice: una scuola lontana dalle odierne tendenze burocratico-aziendaliste, che non misurava "competenze", non temeva il sapere astratto e faceva vivere gli studenti in un clima di allerta permanente. Troppo? Forse sì. Ma Mastrocola, in altri libri piuttosto discussi, aveva già elogiato severità, lingue classiche, necessità dell'esercizio della parafrasi, sapendo di apparire "attaccata a una visione elitaria e nostalgica".

Nell'avvertenza a questo volume, d'altra parte, gli autori chiariscono di non voler tornare a una scuola del passato. Sullo strumento della bocciatura, sulla riforma della scuola media del '62, sul presunto specifico del liceo classico c'è da discutere parecchio, e magari da dissentire. Non sull'epigrafe, che è l'articolo 34 della Costituzione. E su un punto inconfutabile: chi parte avvantaggiato a livello socio-economico se la cava lo stesso. Gli altri hanno bisogno della scuola.

Perché l’ascensore sociale è bloccato

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Quirino Camerlengo

DATA: 16 maggio 2018

La ricerca condotta dagli analisti di Bankitalia sull’ascensore sociale è l’occasione per ritornare alle riflessioni già svolte alcuni mesi fa. Qual è la conclusione cui perviene questo documento? Le condizioni di partenza sono determinanti per la posizione sociale degli individui, alla luce di fattori ambientali quali il quartiere di provenienza, le scuole frequentate, vincoli familiari e legami di amicizia. Ancora una volta, dunque, si denuncia il brusco rallentamento, o meglio, il consolidato blocco dell’ascensore sociale.

RAPPORTO SULLA SITUAZIONE DEL PAESE

Istat: il Pil migliora ma l’ascensore sociale è bloccato. Il ruolo della famiglia

L’immobilità sociale svuota di significato quel principio di eguaglianza sostanziale, consacrato nel secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, che richiede un impegno delle istituzioni repubblicane per un pieno (non incompiuto o parziale) sviluppo della personalità e una effettiva (non simbolica o passiva) partecipazione di tutti alla vita comunitaria. L’immobilità sociale è anche fonte di antagonismi sociali, di rancore verso chi possiede ricchezza e opportunità grazie a una buona sorte. L’immobilità sociale, infine, fomenta il populismo, che intercetta il malessere dei soggetti deboli traducendoli in provvedimenti dettati dalla demagogia e della strumentalizzazione del popolo stesso.

Destra e sinistra hanno condiviso lo stesso errore: ignorare le tante richieste di promozione sociale provenienti dagli strati più deboli della popolazione. Gli schieramenti che hanno governato sino a pochi mesi fa hanno privilegiato, in modo miope, la strada della liberazione dal bisogno economico, con misure di sostegno che si sono rivelate il più delle volte forme eleganti di elemosina e di carità. Questi strati, invece, hanno sempre invocato opportunità di crescita e di riscatto sociale, percependo l’aiuto dello Stato come precondizione e non come risultato di tale impegno.

L’indifferenza degli attori politici ha vanificato l’anelito progressista sotteso ai princìpi costituzionali di eguaglianza sostanziale e di giustizia sociale. Non sono mai neppure state immaginate politiche di lungo periodo o riforme strutturali idonee a stimolare la mobilità sociale. Ma la colpa non è soltanto delle istituzioni pubbliche.

IL COMMENTO

La mobilità sociale è di destra o di sinistra?

Sin dagli studi di Mosca, Pareto, Michels, teorici delle élites, si riscontrava una diffusa tendenza all’autoreclutamento delle élites stesse: azioni di cooptazione, come bene ha chiarito Antonio de Lillo, volte a garantire la trasmissione ereditaria del potere agli stessi appartenenti ai ceti dominanti. Quanto di più nocivo vi può essere per la mobilità sociale se non questo meccanismo autoreferenziale di selezione della classe dirigente? Più alte sono le barriere erette all’ingresso nei centri di poteri, tanto minore e fluida sarà la mobilità sociale.

Quanto di più nocivo vi può essere per la mobilità sociale se non questo meccanismo autoreferenziale di selezione della classe dirigente?”

Non è, quindi, azzardato imputare a questa forma di selezione una incidenza diretta nel blocco dell’ascensore sociale. Occorre così uno sforzo, serio e responsabile, da parte della stessa classe dirigente italiana per rimuovere quelle barriere che impediscono una reale, corretta, equa concorrenza. Ne trarrebbe giovamento la democrazia, con una più fluida circolazione del potere tra ceti e gruppi sociali. Ne trarrebbe giovamento la società, in quanto il ricambio così promosso potrebbe rivelarsi fonte di progresso. Ne trarrebbero giovamento gli individui, messi davvero nelle condizioni di credere nel merito quale motore di promozione e di riscatto sociale. Il merito, appunto.

L’ANALISI

Il più potente ascensore sociale

Contro la meritocrazia è il titolo di un saggio di Kwame Anthony Appiah, che ha denunciato l’uso distorto del merito quale matrice di nuove élites di privilegiati. A suo tempo, Michael Young (The Rise of the Meritocracy, 1958), stigmatizzò il merito basato su di una selezione dell’élite in base al quoziente intellettivo. Ebbene, questi esempi di critica al merito, quale criterio di selezione, non fanno che enfatizzare i rischi di una degenerazione di un modello che, se applicato virtuosamente, potrebbe contribuire a rendere meno intollerabili le diseguaglianze.

IL RAPPORTO CENSIS

Rapporto Censis: un paese deluso che non vede il cambiamento

Se i ceti dominanti rinunciassero a definire essi stessi i parametri per misurare il merito delle persone, se nel contempo le persone stesse accettassero di essere giudicate per l’impegno profuso, i sacrifici sopportati, il talento coltivato nel tempo, se si creasse un sistema sociale informato davvero alla pari dignità sociale di tutti, con interventi di solidarietà per chi non riesce nella «gara della vita» (Bobbio), il merito potrebbe funzionare senza destare queste obiezioni e paure. Del resto, non è forse vero che la nostra Costituzione, quando si occupa di diritto allo studio, presta una particolare attenzione verso i capaci e meritevoli che, anche se privi di mezzi, aspirano a raggiungere i gradi più alti dell’istruzione?

PIETRO: QUASI NESSUNO HA IL CORAGGIO DI DIRE CHE LA SCUOLA PUBBLICA, NELLA QUALE OPERO DA UNDICI ANNI, GENERALMENTE Dà UN CONTRIBUTO DETERMINANTE A TUTTE LE NEGATIVITà SOPRA DETTE; NON PENSO CASUALMENTE, NONOSTANTE LE MIGLIORI INTENZIONI DI ALCUNI DOCENTI.

Stop a voti e bocciature? Appello a Renzi: «Danno a ragazzi e docenti»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORI: Valerio Vagnoli, Dirigente scolastico Alberghiero Saffi Sergio Casprini, Insegnante di Storia dell’Arte Andrea Ragazzii

DATA: 20 ottobre 2016

Pubblichiamo l’appello di alcuni docenti fiorentini al presidente del Consiglio sulle misure previste, secondo le anticipazioni, nel decreto legislativo sulla valutazione scolastica.

 

Gentile presidente Renzi,
come insegnanti e come cittadini sentiamo la responsabilità e l’urgenza di scriverle su un’importante questione riguardante la scuola, il cui buon funzionamento, come lei ha spesso sottolineato, è decisivo per il futuro del Paese. Di recente sono stati anticipati i punti più importanti del decreto legislativo sulla valutazione.
Dobbiamo purtroppo constatare che anche questo provvedimento è ispirato al principio base della pedagogia ministeriale degli ultimi decenni: facilitare sempre di più il percorso scolastico, minimizzare o ridurre a un pro forma i momenti di verifica. 

In sintesi si prevede: 
-l’abolizione delle bocciature nella scuola primaria, oggi rarissime (forse il 2 per mille) e sicuramente ben ponderate nell’interesse del bambino, anche perché consentite solo con l’unanimità del Consiglio di classe. Nella scuola media saranno possibili solo in casi eccezionali. Ma eccezionali già lo sono; e certo non decise a cuor leggero.
-la riduzione del numero di prove scritte nei due esami di Stato: da cinque a due in terza media, da tre a due nell’esame di «Maturità», per il quale si ipotizza anche il ritorno alle commissioni tutte interne;
-l’abolizione del voto numerico in tutto il primo ciclo e il ritorno alle mai rimpiante lettere, per «evitare di limitare l’azione valutativa alla mera registrazione del successo o dell’insuccesso di ogni giovane allievo». Dove si fa passare l’idea che gli insegnanti si siano comportati finora come notai, non interessati a incoraggiare e a valorizzare gli allievi.

Nell’ultima puntata di Politics, su Raitre, Lei ha giustamente affermato che si è perso il rispetto sociale per la figura degli insegnanti. Di conseguenza si è indebolita agli occhi degli studenti la loro autorevolezza, essenziale per la relazione didattica e educativa. Questa svalutazione è testimoniata dalla sempre più aggressiva interferenza di molti genitori nelle questioni di competenza dei docenti, così come da molte sentenze della magistratura, che spesso appare pregiudizialmente dalla parte degli studenti e delle loro famiglie, a sostegno di rivendicazioni di ogni tipo, anche prive di fondamento. È una deriva che si deve anche a documenti ministeriali e dichiarazioni di pedagogisti che in modo ideologico e semplicistico addebitano agli insegnanti la responsabilità di qualunque insuccesso scolastico. Manca sempre, e il testo di questo decreto non fa eccezione, un qualsiasi richiamo al contributo di responsabilità e di impegno degli allievi, senza di cui non c’è possibilità di vero «successo formativo». In altre parole manca la consapevolezza che se la scuola vuole essere un «ascensore sociale» per i ragazzi economicamente e culturalmente svantaggiati, è indispensabile che sia seria e rigorosa sia sul piano didattico che su quello educativo.
Negli ultimi anni abbiamo spesso letto e commentato con i nostri allievi lo splendido discorso che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama rivolse agli studenti americani nel settembre del 2009, in occasione del primo giorno di scuola, e il cui senso può essere riassunto dalla frase riportata qui accanto. Ci piacerebbe molto che gli studenti italiani potessero finalmente ascoltare parole come queste.

Grazie, presidente, per la sua attenzione.