Il ruolo motivazionale del docente

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 16 febbraio 2023

LINK: ... era sul giornale cartaceo

Sotto l'immagine c'è il testo, per una lettura più agevole

Caro Direttore,

ho riscontrato, parlando con le mie colleghe, che la maggior parte di loro non ha mai fatto una riflessione sulle motivazioni che dovrebbero portare uno studente ad impegnarsi nello studio. E le motivazioni sono un elemento fondamentale per il successo di una qualsiasi persona, sia a scuola che nella vita.

Pur avendo io conoscenze relative alla scuola elementare, penso che le motivazioni che dovrebbero spingere un ragazzo allo studio, opportunamente adattate, siano le stesse anche per un ragazzo delle medie e del liceo. Esse dovrebbero essere condivise con i genitori nel primo incontro di inizio anno scolastico.

Un bambino di cinque anni che passa dalla scuola materna alla primaria deve accettare un cambiamento notevole della sua vita, che gli richiederà sicuramente un impegno che non gli era stato mai chiesto. Pur se, si spera, con gradualità ed in allegria; ed anche con la cura degli insegnanti a non trascurare mai la possibilità che l'apprendimento avvenga soprattutto con attività ludiche.

Perché il bambino dovrebbe accettare questo cambiamento?

Sono rari, secondo la mia esperienza, ormai decennale, i bambini di età compresa fra i sei e i dieci anni che studiano per il piacere di studiare.

Il piacere di apprendere, di migliorare, è invece determinato da alcuni fattori che ora vado ad analizzare.

 

La famiglia.

Il bambino, se sereno, felice, ha il piacere di corrispondere alle conosciute attese dei genitori relativamente al suo impegno scolastico. Naturalmente queste conosciute attese non devono essere eccessive, altrimenti potrebbero creargli ansia. Ed è importante che il bambino sappia, grazie alle parole dei genitori, di poter sbagliare, che l'impegno è l'aspetto più importante del suo lavoro, e che i risultati positivi verranno sicuramente (atteggiamento ottimistico). Inoltre accresce l'impegno del bambino anche la volontà di "diventare grande".

Qualcuno potrebbe obiettare: dipende dalla famiglia del bambino. Certo, il contributo non sarà sempre ottimale, ma sempre determinante. E queste non sono parole.

Ho insegnato anche a Tor Bella Monaca, un quartiere della periferia romana che non gode di buona nomea; anzi. Ebbene, quasi tutti i genitori dei miei alunni hanno collaborato attivamente. È bastato rivolgersi a tutti, in assemblea all’inizio dell’anno scolastico, evidenziando quanto fosse importante la nostra collaborazione per il bene del figlio; e poi trattarli con il dovuto rispetto durante i colloqui individuali.

Oltretutto così facendo si aiuta la famiglia a migliorare la propria capacità di interazione con il figlio, compito al quale nessuno l’ha preparata.

 

Rapporto con i docenti.

Se il bambino instaura un buon rapporto con i docenti, un po' studia anche per non deludere le loro aspettative.

 

Il gruppo.

Se il bambino si trova bene a scuola, con i compagni, ha il piacere di stare con loro, di identificarsi nel gruppo; e se il gruppo studia, anche lui non vuol essere da meno. È quindi importante che i docenti favoriscano buoni rapporti interpersonali fra gli studenti. Questo aiuta molto a prevenire fenomeni di violenza, bullismo e discriminazione.

 

Analogia con il lavoro dei grandi.

Al bambino piace l'idea che lui con la sua attività scolastica "lavori come la mamma o il papà". Anche questo fattore è opportuno che gli sia evidenziato con continuità.

 

Vantaggi pratici.

Il bambino si rende facilmente conto dei vantaggi concreti che gli offre lo studio: capacità di esprimersi meglio in lingua; abilità di calcolo utilissime; regali vari in occasione di voti o giudizi particolarmente positivi (lo so, quest'ultimi possono essere considerati "mezzucci"; ma sono fra quelli più efficaci, anche quando si può iniziare a proporre il fattore del quale ora parlerò).

 

Visione etica dello studio.

Questo fattore, che si comincia a proporre ai ragazzi in terza, quarta elementare, è sicuramente il più importante. Altrimenti è inutile fare lezioni di educazione civica.

Purtroppo è anche il più difficile da far germogliare nella mente e nel cuore dei ragazzi; alcuni vanno in prima media senza ancora possederlo.

Ecco allora che l'azione fondamentale del docente non può essere solo quella di insegnare all'alunno cosa e come studiare, ma soprattutto quella di persuaderlo, in stretto accordo con la famiglia, a voler studiare, avendo come fine ultimo l'acquisizione da parte dell'alunno della motivazione principale, quella etica, che lo deve spingere a studiare per poter rispondere un domani alla sua vocazione, quale essa sia, per dare il suo contributo alla società; forse all’umanità.

E per portare avanti un'azione del genere, durante la quale l'insegnante opera come un catalizzatore, che favorisce le varie "reazioni chimiche" nella mente del bambino, possibilmente senza intervenire direttamente in esse, intervenendo sui fattori positivi per lo studio, affinché l'alunno ne acquisisca consapevolezza, e rimuovendo  progressivamente quelli negativi, è a mio avviso indispensabile che  il docente e il discente non siano solo tali, ma che tra essi si stabilisca una relazione significativa tale che l'alunno sappia che è accettato, amato e rispettato prima di tutto come persona, a prescindere da ogni risultato scolastico.

Se si realizza questa relazione (se si lavora nel "cuore dell'uomo") si ha un ragazzo fortemente motivato; e se l'insegnante ha competenze professionali adeguate i risultati sono sicuri e stabili nel tempo.

E non c'è paragone con quanto si può pensare di ottenere solo instillando nell'alunno nozioni dall'esterno, come si fa nell'ammaestrare gli animali, perseguendo tante piccole mete; oppure imponendo una disciplina ferrea con atteggiamenti duri; oppure concedendo tutte le libertà, per acquisire la loro benevolenza.

Come ho già detto, la motivazione etica si comincia a proporre generalmente dalla terza elementare.

Naturalmente affinché si stabilisca questa relazione significativa è molto importante che il ragazzo stimi gli insegnanti e sappia che essi godono della totale fiducia della famiglia. Senza che quest’ultima si precluda la possibilità di valutare, anche negativamente, il lavoro degli insegnanti.

È opportuno però che la famiglia parli di eventuali problemi con l'insegnante, mai con il bambino o davanti a lui.

È questa una "conditio sine qua non" per realizzare la relazione significativa fra gli insegnanti e l'alunno, indispensabile per ottenere risultati positivi. Un altro elemento molto importante per buone relazioni in classe è l’allegria. L’angolo della barzelletta, previsto tutti i giorni verso la fine della giornata scolastica, vi ha sempre contribuito molto.

In centomila chiusi nelle loro stanze. Neet, ragazzi che si ritirano dalla società

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Dario Di Vico

DATA: 6 novembre 2016

Sono i più fragili tra chi non studia né lavora: più esposti i maschi, educati alla regola del successo. Li chiamano Neet, si barricano nella loro cameretta, il computer sempre acceso, musica e libri, i pasti consumati lì.

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Ritiro sociale è un’espressione ancora poco nota. La utilizzano psicologi e operatori delle Onlus per definire i comportamenti del segmento più fragile dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Per avere un’immagine immediata di cosa significhi il ritiro sociale si può pensare a un ragazzo barricato nella sua cameretta con le tapparelle abbassate, il computer sempre acceso, musica e libri, il cibo consumato lì in una segregazione auto-imposta. Il fenomeno è molto conosciuto in Giappone — li chiamano hikikomori — ed è iniziato negli anni 80. Riguarda per lo più maschi primogeniti e il primo sintomo è la rinuncia a frequentare la scuola. Motivo: la pressione della società che chiede una competizione alla quale il giovane risponde negandosi. Le stime nipponiche variano da 400 mila a 2 milioni di coinvolti, il trend però è in crescita. Anche da noi la prima manifestazione del ritiro sociale è l’auto-esclusione dalla scuola, annunciata ai genitori una mattina a sorpresa senza segnali premonitori. Le stime italiane sono di 100 mila ragazzi — un altro primato europeo di cui non essere fieri — ma ovviamente non è facile elaborare dati così delicati. A monitorare il fenomeno sono realtà come la cooperativa Minotauro, che ha pubblicato di recente un testo dedicato ai ritirati e dal titolo eloquente: «Il corpo in una stanza». Anche in Italia a essere colpiti sono molto più i maschi perché a loro è stata trasmessa un’identità fortemente condizionata dal ruolo sociale e dal successo lavorativo.

L’annuncio a sorpresa

I corpi in una stanza non hanno «voce» e l’unica strada per capirne di più è riannodare il filo partendo dai racconti dei genitori. Così abbiamo fatto, organizzando un focus group nella sede del Corriere a Milano. Rompe il ghiaccio Carmen: «Una sera che non dimenticherò mai, Sandro si è seduto sul mobile della cucina e mi ha detto: da domani a scuola non ci vado più, e così è stato. Era in quarta liceo. Per tre anni è vissuto nella sua camera, ha piantato il calcio, è diventato vegano e ha smesso anche di mangiare a tavola con la famiglia». Racconta Giulia, un’altra mamma: «Marco ha finito il liceo regolarmente, i guai sono arrivati dopo. Ha lavorato come venditore per un’azienda, ma dopo diversi mesi non gli hanno voluto riconoscere un contratto e non l’hanno pagato. E da lì ha spento la luce, si è rifiutato di continuare gli studi e ha introiettato un senso di vergogna e inadeguatezza. Voleva fare il deejay e adesso l’unica compagnia che ha scelto è la musica». Si inserisce Nicoletta: «Francesco un giorno mi ha confessato che andare a scuola era diventato un incubo quotidiano. Si è ritirato in camera e si è costruito una rete di amici virtuali in diverse città, ha perfezionato l’inglese ubriacandosi di serie tv e non ne ha voluto più sapere dell’istituto turistico. L’ultima delusione è stata l’impossibilità di essere assunto in un hotel, che pure lo avrebbe preso, perché ancora minorenne». Le storie raccolte si assomigliano molto e evidenziano il fallimento del rapporto con la scuola, l’assenza dei padri, la vergogna nei confronti dei compagni di classe, la creazione di circuiti di socializzazione a distanza.

Genitori e insegnanti

«La scuola non raccoglie il dolore» sostiene Carmen. I giovani che per qualche motivo incontrano la sofferenza negli anni della crescita — un incidente, una malattia, la separazione conflittuale dei genitori — rimangono segnati e il sistema scuola non riesce a reincluderli, aumentando le loro probabilità di diventare Neet. Nel focus group il giudizio sulla scuola è stato materia incandescente: i genitori raccontano episodi di insensibilità degli insegnanti, di demotivazione professionale, di trasmissione di un senso di inadeguatezza e la conseguenza è l’aumento del tasso di dispersione. L’abbandono scolastico è la prima fabbrica di Neet e infatti cresce (è al 15%) in corrispondenza con l’aumento del tasso di disoccupazione. Secondo la ricerca della onlus WeWorld denominata «Ghost», proprio perché dedicata ai ragazzi-fantasma, un quarto di loro ha alle spalle iter scolastici accidentati. Se i conflitti con la scuola potevamo prevederli il focus group ha evidenziato un’altra costante: la totale assenza dei padri. Il genitore maschio di fronte al ritiro sociale del figlio si scopre impotente e cede spesso alla tentazione di squalificarlo. Lo considera un fannullone, un incapace, un «disfunzionale». In uno dei casi il padre ha addirittura diseredato il figlio e persino sul sostegno economico i papà si eclissano. La gestione del ritiro pesa tutta sulle madri, che delle volte trovano maggiore aiuto nei nuovi compagni di vita, più disponibili dei veri padri. Ci sono anche casi in cui le donne maturano un senso di auto-colpevolizzazione, come Nicoletta che si chiede «se non ho sbagliato, è come se l’avessi tenuto nella pancia anche dopo la nascita impedendogli così di crescere». «Economicamente è stato un disastro — riepiloga Giulia — ho dovuto vendere una casa che avevamo ereditato e tentare di costruire un percorso formativo. Un curriculum di speranza che lo aiutasse un giorno a reinserirsi». Se è vero che i padri latitano, una funzione di supplenza la ricoprono le Onlus del terzo settore, che partono dal sostegno psicologico e poi si incaricano di stimolare il ragazzo per fargli recuperare interesse per il mondo reale fuori dalle quattro mura. In questo modo sperano di farlo transitare negli altri segmenti di Neet, i ragazzi che fanno volontariato oppure che si aggrappano alla pratica sportiva per socializzare . «Attacchiamoli alla vita» è il leitmotiv degli operatori.

L’aiuto della Rete

È poi singolare come di fronte alle sconfitte dei soggetti «caldi» — la famiglia e la scuola — il «freddo» Internet, l’elettronica impersonale e mangia-privacy, diventi una ciambella di salvataggio, un assistente sociale h24. La virtualità attenua la vergogna sociale, ne riduce l’impatto fisico, il filtro del computer rassicura e lascia sempre aperta la via di fuga. Smaterializza le amicizie e riduce il rischio delle delusioni. Sono nate così pagine Facebook e chat di Skype per gli hikikomori italiani con più di mille iscritti. «Francesco ha sempre subito le dinamiche di gruppo perché maturo di testa e piccolo nel fisico, sulla Rete invece ha trovato amici a Firenze, Bari e Roma. Più grandi di lui con i quali gestisce ore e ore di chiacchiere al computer» racconta Nicoletta. La spiegazione degli psicologi è che nella dimensione virtuale i giovani ottengono le gratificazioni che la vita reale ha negato loro. Come l’offesa di non ricevere nemmeno una risposta formale agli Sos che inviano a pioggia sotto forma di curriculum e lettere di presentazione ad aziende, centri per l’impiego e possibili datori di lavoro. Gli stessi studiosi motivano il carattere prevalentemente maschile del ritiro sociale — le ragazze in Giappone sono solo il 10% — con la trasmissione al femminile di un’idea di realizzazione del sé più larga e sfaccettata e non riconducibile agli stereotipi del successo/identità lavorativa. È un lascito di genere — e non un’esperienza maturata sul campo — che però funziona da anticorpo, evita di aggiungere esclusione a esclusione.

Ragazze e maternità

Non vuol dire che l’intero universo Neet — oltre i ritirati — non sia colorato di rosa, ma le traiettorie sono differenti: incide molto la maternità attorno ai 20 anni, la scelta di restare a casa con i figli e non presentarsi sul mercato del lavoro. Se i genitori dei ritirati sociali di fronte al compito che si para loro davanti lottano per non disperarsi, anche gli altri padri e madri dell’universo Neet finiscono per essere spaesati. Come sintetizza Lucia Tagliabue di Jointly, una rete di orientamento professionale: «Non sanno che consigli dare ai loro ragazzi perché il mondo del lavoro viaggia a una velocità diversa e temono di risultare iperprotettivi o eccessivamente rigidi nelle imposizioni ai ragazzi».

P.S. Dal ritiro sociale fortunatamente si può uscire. Oggi Sandro ha 29 anni e fa l’insegnante di Tai chi.

I segreti del successo a scuola

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Redazione scuola

DATA: 25 ottobre 2016

Che cosa fanno i ragazzi che vanno bene a scuola: 8 regole per diventare bravi.Studiare, dormire, annoiarsi e fuggire dalle mamme tigre. Ecco i risultati degli ultimi studi sul successo scolastico degli adolescenti nel mondo.

I segreti del successo a scuola

Come usano il loro tempo gli studenti che vanno bene a scuola? E come dovrebbero usarlo? A queste due domande che preoccupano spesso i genitori degli adolescenti hanno provato a rispondere alcuni studi pubblicati negli ultimi mesi nelle riviste che si occupano di educazione e anche testate autorevoli come il Time.

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10.000 ore di studio

Secondo il sociologo canadese Malcolm Gladwell per imparare bene una qualsiasi disciplina è necessario un decennio di studio e pratica: in totale 10.000 ore.

Dormire

Secondo lo studio americano pubblicato sul giornale americano «Gifted Child Quarterly», gli studenti che hanno migliori risultati dichiarano di dormire più di otto ore per notte.

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Stare da soli

Secondo il Time, coloro che diventeranno dei leader durante l’adolescenza passano molto tempo da soli. Questo permetterebbe loro di esplorare, imparare, immaginare e anche di sognare.

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Leggere, leggere e ancora leggere

Che cosa può rendere «elastica» la vostra immaginazione? Nient’altro che la lettura, e più varia è la scelta di libri che leggete, maggiori sono le possibilità che diventiate un adulto di successo. Sempre secondo il Time, si può leggere dalla Bibbia, ai fumetti, dalla mitologia classica ai saggi di politica cercando autori anche fuori da quelli «istituzionali» suggeriti di solito dalle scuole. Anche l’enciclopedia può essere un utile esercizio, forse un po’ datato.

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Annoiarsi

Stare da soli, non fare nulla. Uscire dalla pressione della scuola e della competizione sociale che spesso durante gli anni delle superiori diventa più forte. Non usare tutto il tempo libero per fare sposrt o attività organizzate insieme agli altri. Recuperare «l’ozio» di tradizione latina, insomma annoiarsi per trovare la forza interiore per essere creativi.

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Creatività versus consumismo

Leggere, guardare un film, studiare, ascoltare musica. Sono tutte attività per divertirsi e passare il tempo, ma sono tutte «passive». Sempre secondo l’indagine del Time, gli «adulti di successo» quando erano ragazzini hanno passato una gran parte del loro tempo a costruire, creare, fare. E disfare.

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Compiti

Studiare a casa fa bene al proprio curriculum scolastico, anche se è faticoso. Lo conferma l’ultimo studio pubblicato sul blog del World Economic Forum. Avendo paragonato i migliori studenti di seconda media americani e indiani, i ricercatori hanno trovato che i ragazzini americani passano in media sette ore in più a settimana dei loro coetanei indiani giocando con videogiochi o facendo altre attività ludiche. Al contrario in India studiano un’ora in più al giorno.

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Fuggire dalle mamme tigre

Per essere degli studenti di successo però bisogna fuggire dalle mamme tigre. E’ uno degli elementi su cui concordano gli studi sui comportamenti degli adolescenti. Sia il confronto tra ragazzi americani e indiani dimostra che questi ultimi godono nei momenti di liberà di molta maggiore autonomia dei loro «colleghi» americani. Gli studenti americani che hanno voti alti di solito sono molto seguiti dai genitori (le mamme soprattutto) ma questo non rende le loro performance migliori di quelle dei ragazzi del Paese asiatico.

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Il successo parte da piccoli. Ecco i nuovi asili

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Valentina Santarpia

DATA: 26 febbraio 2016

Un convegno nel weekend porta alla Bicocca migliaia di esperti nazionali e internazionali, chiamati a disegnare le linee guida delle nuove scuole per i piccoli: laboratori e problem solving più importanti di nozioni e apprendimenti

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A 11 anni sono migliori dei propri coetanei in matematica e inglese, riescono ad avere un comportamento scolastico più controllato, meno iperattivo e più socievole. E nell’arco della vita guadagnano in media il 4,3% in più. Ecco come una buona educazione nei primi anni di vita, nella cosiddetta pre-school, fa progredire i ragazzini inglesi, secondo una ricerca che verrà presentata dalla professoressa Kathy Sylva, dell’università di Oxford, venerdì all’università di Milano Bicocca. Lei è solo una dei tanti esperti chiamati ad approfondire, nel corso di una tre giorni internazionale, il tema delicatissimo e affascinante dello 0-6: capire cioè in che direzione stanno andando i nostri bambini da 0 a sei anni e come ridefinire le nuove regole per l’educazione e la cura dei bambini più piccoli.

 

Anche i neonati apprendono

Proprio nei giorni in cui, come prescritto dalla legge 107, il governo sta mettendo a punto la legge delega per ridisegnare il panorama degli asili italiani, questo diventa un appuntamento prezioso per docenti, pedagogisti, funzionari ministeriali, educatori, economisti. Previsti i contributi dei massimi conoscitori del sistema, da Michel Vandenbroeck, dell’Università di Gent, a Sylva, di Oxford, da Christa Preissing, dell’Ista di Berlino, a Claudia Giudici, presidente Scuole e Nidi d’infanzia di Reggio Emilia. Con un punto fermo da cui partire: in quegli anni il piccolo essere umano introietta tutti gli stimoli possibili per realizzarsi nella vita. «Crediamo che l’educazione precoce dia le migliori chance ai bambini per iniziare nella vita - spiega Sylva- Questo vale soprattutto per i bambini che vengono da famiglie povere o di immigrati. Ed è fondamentale che la fascia 0-3 sia gestita dallo stessa fascia 3-6: anche i neonati imparano!». Gli studi in materia sono unanimi: da James Heckman, premio Nobel per l’economia nel 2000, alle ultime ricerche del Tfiey, il forum transatlantico dedicato alle politiche per lo sviluppo dei servizi per la prima infanzia, le conclusioni sono identiche: soprattutto per le fasce sociali svantaggiate, la frequenza di scuole con caratteristiche «dignitose» porta a maggiore inclusione sociale e a migliori successi scolastici. Da dove cominciare allora per disegnare gli asili del futuro? Dal «curricolo, che è responsabilità», come recita il titolo del convegno.

 

Cabana, l’asilo milanese diventa magico e tattile

«Attenzione, non stiamo parlando di curricolo perché vogliamo mettere la pagella anche ai bambini piccolissimi», ride la rettrice della Bicocca, Susanna Mantovani. «Anzi, presenteremo gli esiti di 2471 questionari completati da maestri e genitori di bambini da 0 a sei anni, che ci rivela proprio quanto le competenze scolastiche siano considerate irrilevanti rispetto ad altri aspetti». L’indagine, realizzata nell’ambito del progetto Care (Curriculum and quality Analysis and impact review of European Early Childhood education and care), ha avuto un discreto riscontro in Italia, dove sono stati restituiti quasi 2500 questionari completi rispetto ai 200 olandesi e ai 700 tedeschi. E fornisce delle indicazioni molto precise sulle esigenze che gravitano intorni ai bambini più piccoli: le conoscenze non sono mai ai primi posti. Da 0 a 3 anni, genitori e insegnanti convergono nel ritenere l’atteggiamento nei confronti dell’apprendimento la cosa più importante, e da 3 a 6 la competenza interpersonale ed emotiva, mentre le abilità e conoscenze pre-scolastiche finiscono agli ultimi posti. «È interessante: significa che concordano nel ritenere che i bambini non debbano imparare a contare precocemente o a scrivere, ma ad affrontare i problemi, a sviluppare competenze. È un approccio molto diffuso in Norvegia, Finlandia, Svezia, e sempre più anche in Italia: valutiamo meno i risultati, misuriamo meno, ma sviluppiamo più capacità. E infatti i bambini che hanno frequentato asili dignitosi nella fascia 0-6 sono anche quelli che vanno meglio nelle prove Invalsi». Un esempio su tutti? Lasciar discutere i bambini di 4 o 5 anni di come si può pedalare senza rotelle, come sia possibile evitare di cadere - esperimento veramente realizzato, filmando i bambini per mezz’ora - può dare dei risultati sorprendenti, con risposte e idee che si avvicinano alla fisica pur senza averne alcuna cognizione. Un progetto educativo sperimentale da poco avviato dal Comune di Milano presso tre scuole dell’infanzia segue proprio questi principi: la Cabana, una struttura ludico-didattica alta, aperta, luminosa, sonora, magica, tattile. Una struttura polifunzionale in legno che nelle sue varie forme basiche lascia spazio a educatori e bambini per trasformarle nei modi più diversi.

 

No alla valutazione delle scuole dell’infanzia

D’altra parte, che la strada giusta sia questa - meno valutazione, più problem solving- lo dimostra anche il fatto che il gruppo di lavoro chiamato da ministero dell’Istruzione e Invalsi a definire il nuovo strumento di autovalutazione delle scuole dell’infanzia abbia stabilito nelle sue conclusioni che i bambini da tre a sei anni non debbano essere sottoposti a prove standardizzate, sul modello dei test Invalsi per capirci. «Abbiamo escluso questa possibilità- anticipa la dottoressa Anna Bondioli al Corriere- per evitare rischi di stigmatizzazione precoce, e che il passaggio di queste informazioni dalla materna alla primaria possa incentivare pregiudizi». Evitato questo rischio, l’autovalutazione verterà piuttosto su domande che riguardano il processo, sul curricolo specifico per l’infanzia, sull’iter complessivo del bambino. Proprio nell’ottica di considerare la fascia di età 0 - 6 un tutt’uno, una sorta di arco temporale unico, proprio come disegna la legge 107, che dovrà essere declinata dai decreti attuativi entro la fine dell’anno.

 

Poli educativi ed educatori laureati

Un tutt’uno non significa che esiterà una sola scuola dalla nascita fino alla soglia delle elementari, spiega Bondioli, che quando per la prima volta la senatrice Francesca Puglisi ha presentato il progetto di legge 1260 ha scritto, insieme a più di 100 docenti di pedagogia, una serie di linee guida sull’ipotesi di legge. I servizi rimarranno così come sono, divisi in asili nido e scuole dell’infanzia, che avranno gestione regionale/comunale/statale, ma quello che cambierà sarà il coordinamento. «La gestione delle liste di attesa, l’organizzazione degli aspetti pratici come i passaggi di informazioni da un grado all’altro, la formazione continua in servizio degli educatori e degli insegnanti-che la legge prescrive- dovrebbero essere affidate a dei poli educativi», spiega Bondioli. Il personale dovrebbe avere come riferimento dei facilitatori educativi, che non dovrebbero seguire delle linee guida uguali per tutti, ma calarsi nella realtà territoriale e declinare le indicazioni per i gruppi di lavoro in base ai contesti. Al di là delle specificità della cura riservata ai più piccoli, il comun denominatore dei bambini da 0 a sei anni dovrebbe essere «l’apprendere l’apprendere», ovvero «più che i contenuti, imparare l’approccio per relazionarsi ai problemi», ribadisce anche Bondioli: più laboratori ed esperimenti che canzoncine da imparare a memoria. E poi, un aspetto fondamentale è puntare sulla uniformità degli standard: spazi, orari, numero di insegnanti per bambini, oggi sono diversi in base alle scelte regionali o comunali, mentre i decreti punteranno a specificare con chiarezza i parametri validi per tutti. «Da 0 a sei anni, vanno bene 7 bambini ad educatore, tra i 2 e i 3 1 ogni 8, ma tra i 3 e i 6 bisogna scendere assolutamente: inaccettabile che un solo insegnante tenga 25 bambini e per di più senza compresenza». Il personale dovrebbe diventare tutto con carriera universitaria, ma «un compromesso potrebbe essere permettere alle educatrici del nido di avere la laurea triennale, quelle dell’infanzia la specialistica».

 

Un posto per tutti

Al di là delle questione tecniche, resta comunque uno l’obiettivo di fondo: «Dobbiamo generalizzare l’offerta, non possiamo permettere che continui ad esistere un Paese a macchia di leopardo», sottolinea Nice Terzi, presidente del gruppo nidi-infanzia italiani. «Fino ad ora gli investimenti sono stati utilizzati in maniera molto diversa da Nord e Sud, così negli anni abbiamo sviluppato delle realtà efficienti, che ci studiano anche all’estero, come a Reggio Emilia, e delle zone assolutamente prive di servizi per l’infanzia. Basta: ora è il momento di mettere i fondi e di stabilire il principio che tutti i bambini hanno diritto ad avere un posto all’asilo nido. Cominciamo col raggiungere l’obiettivo del 33% stabilito dall’Europa, e poi andiamo avanti. Anche la scuola dell’infanzia, deve passare dal 95% al 100%. E per cominciare a sperimentare, bisogna lanciare progetti pilota su tutto il territorio: poi, entro qualche anno, finalmente vedremo i frutti».