“La scuola – dice lui – non deve occuparsi di ciò che i giovani faranno, ma innanzitutto di ciò che essi saranno”. Stefano Picciano è docente di Lettere presso l’Istituto Comprensivo 1 di Riccione. Ha 44 anni, è anche musicologo e ricercatore in Storia della musica, autore di vari libri, scrive sul quotidiano Il Foglio. “È attraverso la pura dimensione estetica – prosegue il professore – che la scuola mette a fuoco il suo obiettivo principale: la maturazione della persona in quanto tale.”
Picciano è animato da una grande passione per l’educazione: “Il tema della scuola e dell’educazione – ammette – mi ha sempre appassionato”. E in particolare quello della parola, come ci aveva rivelato in una precedente intervista sull’importanza del lessico. In una successiva conversazione c’eravamo soffermati con lui sui temi del bello e dell’utile”. Uno studente “che maturi i fondamenti della percezione estetica, l’amore per la bellezza oppure il rispetto per i tesori della cultura difficilmente maltratterà le persone o le cose. Noi cerchiamo con dei progetti di insegnare delle competenze che in realtà sono già implicite nella nostra tradizione culturale. Difficilmente un ragazzino che suona, per esempio, il pianoforte maltratterà un compagno, poiché ha una percezione fondamentale della bellezza, che è una dimensione educativa essenziale della persona”.
L’educazione la scuola, la bellezza. Che cosa manca? Che cosa mancava. Mancava quella cosa inutile – per dirla con Montale – che è la poesia: “Nel 1966, all’atto di ricevere il Premio Nobel – rammenta Picciano – Eugenio Montale ironicamente osservò: ‘Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile’. Proprio nei giorni scorsi, il 21 marzo, è stata celebrata la giornata mondiale della poesia ideata dall’UNESCO nel 1999: un invito a riflettere – come abbiamo scritto su queste colonne – sul potere del linguaggio e sul pieno sviluppo delle capacità creative di ogni persona.
Professor Stefano Picciano, perché dare spazio alla poesia nella scuola, se Montale la definiva inutile?
“Montale sapeva bene che ciò che appare inutile è, a ben vedere, ciò che serve di più alla crescita della persona. Imparare a memoria le poesie – come dedicare tempo ad ogni forma d’arte – libera la mente dai vincoli troppo stretti dell’utilità e della necessità e pone finalmente al centro il soggetto. La didattica non deve dimenticare di porre in primo piano la dimensione estetica, l’arte, la bellezza, liberandosi dalla miopia di una concezione di scuola che fa prevalere la dimensione professionalizzante. Come ho detto in altre occasioni, la scuola non deve occuparsi di ciò che i giovani faranno, ma innanzitutto di ciò che essi saranno. È attraverso la pura dimensione estetica che la scuola mette a fuoco il suo obiettivo principale: la maturazione della persona in quanto tale. Ha scritto Hans-Georg Gadamer: ‘Nell’incontro con l’arte vediamo attuarsi un’esperienza che realmente modifica colui che la fa’”.
Si discute molto negli ultimi tempi dell’utilità di imparare a memoria le poesie. Lo stesso ministro Valditara ha rilanciato il tema di recente. Che cosa ne pensa?
“La consuetudine di imparare a memoria le poesie – il celebre linguista Luca Serianni ne parlava come di ‘un’abitudine che non si celebrerà mai abbastanza’ – appare opportuna, come ogni attenzione alla letteratura, alla musica, all’arte, proprio perché ciò che in termini generali la poesia mette a tema è l’uomo stesso: ‘L’argomento della mia poesia, e credo di ogni possibile poesia –notava ancora Montale– è la condizione umana in sé considerata’. La scuola ha bisogno di custodire la dimensione disinteressata del puro sguardo alla bellezza come fattore capace di formare la persona: è il tempo dell’otium – in greco scholé –, quello nel quale i ragazzi cercano sé stessi, le proprie inclinazioni, la propria identità. Un domani, certo, lo studente sceglierà una professione, ma questo passo sarà posto sul terreno di una formazione fondamentale che si colloca a un livello precedente. Il periodo della scuola non deve servire a nulla se non alla crescita umana del soggetto”.
La scuola come otium…
“La scuola è un tempo libero nel quale dare ai giovani ciò che pone per così dire le fondamenta della persona: è importante leggere e rileggere le grandi pagine della letteratura, le poesie, poi tornarvi e scoprire che esse svelano sempre qualcosa di nuovo, ascoltare le grandi opere musicali, dare tempo all’osservazione dell’arte e poi, naturalmente, dedicarsi alla riflessione, alla scrittura, all’argomentazione”.
Come organizzerebbe, lei, l’ora di poesia?
“Innanzitutto, semplicemente, leggendo il testo più volte. Gli studenti non possono affezionarsi ad un testo se ad essere messa in primo piano è la sua analisi: questa deve essere fatta, certo, ma solo come strada verso la familiarizzazione con l’opera in sé. La poesia è qualcosa che accade, che vive nella voce di chi la legge. Si tratta di permettere a quelle parole di accendersi nuovamente e, rivestite del tono di una espressione sempre nuova, mostrarsi a noi nel loro inesauribile significato. Ben venga, dunque, l’imparare a memoria, se è per ricordare, cioè – letteralmente – tenere nel cuore qualcosa di bello: significa custodire dentro di sé un piccolo tesoro”.
E come descriverebbe questo tesoro?
“Nella quotidianità ad un tratto un verso emerge dalla memoria e si mostra capace di illuminare ciò che viviamo. Imparare le grandi poesie a memoria permette che il segreto racchiuso in quei versi ci sorprenda, in seguito, magari nei frangenti più inaspettati, mostrandoci d’improvviso la profondità di un frammento di vita, rendendo più intenso il nostro rapporto con le cose, suggerendoci un approfondimento dello sguardo, insegnandoci a cogliere la densità di un istante, svelandoci uno stralcio di verità”.
Faccia un esempio.
“A volte gli studenti mi hanno raccontato l’esperienza di un’insoddisfazione, nei loro particolari, anche piccoli desideri, a partire da versi come quello in cui Ungaretti scrive ‘In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare’, oppure quello di Cardarelli: ‘Non so dove i gabbiani abbiano il nido / ove trovino pace. / Io son come loro / in perpetuo volo’. L’importante è fare esperienza del fatto che quei versi parlano di noi. Leggendo una poesia scopro che l’autore descrive non appena la sua vita, bensì la mia”.
La poesia che porta il lettore verso se stesso…
“Certamente. La poesia è amica del silenzio. Quel silenzio in cui l’uomo entra in rapporto con sé stesso, con la propria interiorità. Per questo essa non di rado mette a tema quella particolare nostalgia che caratterizza l’uomo. Lo stesso Montale accennò ad una strutturale mancanza che contraddistingue l’essere umano, notando l’abitudine delle persone a riempire il tempo di ‘occupazioni che colmino quel vuoto’. E aggiungeva: ‘Pochi sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto’. È impressionante, a questo proposito, il frammento concepito da Mario Luzi: ‘Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne / sei pieno? / Di che?’. Ed è significativo il fatto che questo passo sia stato scritto alla vigilia del nuovo millennio, quasi a sottolineare il fatto che l’uomo contemporaneo, apparentemente appagato dalla società dei consumi in tante esigenze superficiali, eleva ancora questo ‘tacito grido’ che scaturisce dal fondo del suo animo”.
La memorizzazione non rischia di essere solo un esercizio meccanico?
“Non bisogna cercare una fredda memorizzazione come esercizio di bravura, benché sia importante mostrare agli studenti che in genere utilizziamo pochissimo le potenzialità della memoria. Ciò che importa è una familiarizzazione con l’opera che sia carica di senso, quindi anche di ammirazione per quel verso, per quella parola che ha la capacità di avvicinarci ad una verità su noi stessi o sulle cose attorno a noi. Scrisse suggestivamente Italo Calvino: ‘E’ verso la verità che ci muoviamo, la penna ed io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo di una pagina bianca’”. È l’affascinante immagine per cui la parola è sempre una ‘ricerca’: come scrisse Eugenio Montale, la parola è ‘qualche cosa che si approssima ma non tocca’. Come possiamo interpretare queste parole? ‘Si è sempre scontenti’ – dichiarò in proposito Ungaretti – perché ‘la parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi… solo lo avvicina’. La poesia è un ambito sui generis, nel quale si potrebbe dire che le parole più vere non sono quelle scritte sulla carta ma, per usare la suggestiva espressione di John Keats, ‘quelle non dette, quelle che naufragano nei silenzi’. Qui risiede il mistero dello spazio bianco che circonda i versi: quel ‘biancore’ non è un vuoto ma, come un giorno sorprendentemente mi disse una studentessa, è ‘lo spazio in cui avviene il significato’. Fermai la lezione, che da lì in avanti non fu che un tentare di comprendere questa intuizione. È la nota esperienza di non poter fissare per iscritto ciò che si vorrebbe dire. C’è una meravigliosa espressione di Clarice Lispector che spiega questo: ‘Ciò che ti dico non è mai ciò che ti dico, bensì qualcos’altro’. La poesia è un’approssimazione ad una verità che non può essere racchiusa nelle parole che vengono scritte: il poeta Davide Rondoni ha notato che ‘la poesia appartiene a quell’esperienza della lingua in cui si prova a dire ciò che non si comprende appieno’, aggiungendo: ‘Si cercano le parole (…) per provare a mettere a fuoco quel che ci colpisce, perché il mondo chiede di essere svelato al di là delle prime apparenze’”.
Dunque la poesia nasce dalla meraviglia.
“Si impara a non dare per scontato ciò che si vede, come accennava Charles Peguy in riferimento a Victor Hugo: ‘Egli non vedeva il mondo con uno sguardo abituato (…). È lo stupore che conta (…). Il vecchio Hugo, amico mio, vedeva il mondo come se fosse stato appena fatto (…), come se finalmente fosse appena venuto al mondo. Egli vedeva il mondo come se esso uscisse dalle mani del fabbricante’. Anche Paul Valéry, nei suoi Cahiers, scrive un’annotazione significativa in proposito: ‘È proprio della mia natura trovarmi di colpo davanti alle cose come se fossero del tutto sconosciute’. La poesia – un po’ come la fotografia – svela il valore assoluto di ogni istante e conduce l’uomo – per usare ancora le parole di Montale – nei ‘silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto’”.
E in che cosa potrebbe consistere questo segreto?
“Innanzitutto l’essere stesso delle cose è un mistero. È suggestivo, in proposito, quanto scrive il filosofo Max Picard sull’esperienza della pura osservazione: ‘Guardo l’oggetto attentamente e quasi un po’ spaventato, poiché in fondo non l’ho mai visto, il fatto di vederlo è veramente un avvenimento e mi sembra anzi di essere un uomo che lo veda per la prima volta’. Il punto focale della poesia è forse la sua capacità di recuperare uno sguardo originale sulle cose, coglierle in una visuale che si spinge oltre l’apparenza, oltrepassare la cortina di apparenza che rende le giornate tutte uguali, superare l’illusione ‘di chi crede / che la realtà sia quella che si vede’”.
C’è anche una valorizzazione del singolo istante…
“Certamente. La poesia ci pone in una condizione – per usare un termine di Peter Handke – di intensa vigilanza, quella che permette di ‘aprirsi ogni giorno un varco verso gli spigoli luccicanti della vita’. La poesia ci accompagna insomma ad uno sguardo più profondo verso le cose, facendoci cogliere quella che Mario Luzi chiamava l’immensità dell’attimo”.
Ha già deciso quali saranno i poeti da proporre ai suoi studenti? Quali le preferenze?
“Se volessimo selezionarne tre, direi innanzitutto Giovanni Pascoli, in cui c’è una valorizzazione estrema per il dettaglio, il particolare: la campana, la culla, la neve, il ruscello, la finestra, il grano, la strada, l’aratro. Le piccole cose diventano il luogo di una vibrazione sconosciuta dell’essere, che viene innalzato ad una dimensione assoluta: come scrive la sapienza orientale, ‘in verità tutte le cose piccole sono belle’. In secondo luogo naturalmente dedicherei del tempo a Leopardi, per il modo in cui descrive agli uomini le capacità dell’animo proprio, insegnandoci che cosa sia il desiderio. Infine sceglierei Ungaretti, per il ‘peso’ inedito che dà alla parola, mettendo in luce il valore originale di ogni vocabolo, la ricerca instancabile nel mondo del lessico: ‘Io ho da dire questo, diceva; come posso dirlo con il numero minore di parole, anzi con quell’unica parola che lo dica nel modo più completo possibile?’”. Tutto sta nel portare questo tesoro letterario agli studenti in un modo che possa essere per loro affascinante. È fondamentale fare in modo che l’ora di lezione sia bella, qualcosa che il giorno dopo sia desiderabile tornare a cercare. Soprattutto nelle discipline di ambito estetico si tratta di ‘innescare’ la loro libertà, perché l’ammirazione per la bellezza è qualcosa che non si può imporre, ma solo proporre. Freud definiva l’insegnamento un’attività impossibile, perché in certa misura è sempre dipendente dalla libertà di adesione dell’allievo. Per questo l’attenzione deve essere incentrata sull’esperienza: deve essere chiaro che leggiamo quei versi perché parlano di noi. Se gli studenti capiscono di essere protagonisti, possiamo insegnare loro a custodire la ricchezza del patrimonio che il passato ci consegna”.