Cosa passa nella mente degli adolescenti?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Bidoli

DATA: 19 maggio 2024

Il loro cervello è una lente di ingrandimento sul mondo, particolarmente sensibile a cogliere gli stimoli dall’esterno e a vivere nuove esperienze, in un equilibrio precario tra potenzialità ancora inespresse e fragilità

È un periodo unico nella vita dell’individuo in cui si fanno scelte (e rinunce) che definiranno la persona che si sarà in età adulta. L’adolescenza descrive il passaggio dall’infanzia alla completa maturazione, che biologicamente avviene tra gli 11 e i 25 anni, caratterizzato dalla trasformazione corporea e dallo sviluppo dei sistemi neurobiologici (quelli che determinano l’elaborazione delle informazioni e orientano i comportamenti). Questi processi portano a una riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello che andrà a definire molte delle capacità, abilità e modalità che costituiranno il modo di agire e pensare «da grandi».

La nostra identità, come ragioniamo e ci rapportiamo con gli altri trova le sue basi in questa fase della vita ricca di potenzialità, ma anche delicatissima, in cui molto di ciò che viviamo e sperimentiamo, che è in costante rapporto «dialettico» con il nostro patrimonio genetico, ha effetti strutturali a lungo termine. L’esposizione a «fattori positivi», di tipo fisiologico (sonno, alimentazione, attività fisica), relazionale (legami affettivi ed educativi) ed esperienziale (scuola, viaggi, attività), così come quella a «fattori tossici» (utilizzo di sostanze stupefacenti, alcol, insonnia, psicopatologie non trattate) non solo orientano ma plasmano e scolpiscono il cervello. Gli stimoli ricevuti durante l’infanzia generano la formazione di reti neurali che consentono l’apprendimento delle abilità, ma è poi in adolescenza che avviene il fenomeno dell’use it or lose it in cui si sceglie che cosa rinforzare e che cosa «potare» (il fenomeno è detto pruning sinaptico), una selezione che andrà a determinare chi saremo in età adulta.

Se l’adolescenza è un passaggio fisiologico all’età adulta caratterizzato dalla trasformazione corporea e da una profonda riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello, che è particolarmente malleabile, plastico e portato all’apprendimento, quella di oggi, che riguarda la cosiddetta Generazione Z, è considerata particolarmente a rischio. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono tra il 10 e il 20% i bambini, ma soprattutto gli adolescenti, che soffrono dal punto di vista psichico, con il 75% delle patologie che esordisce prima dei 25 anni e la metà che presenta sintomi entro i 14 anni, in particolare depressione, ansia e disturbi comportamentali.

 

Perché la Generazione Z è così in crisi? Colpa della pandemia di Covid?

«Quello a cui assistiamo non dipende solo dall’esperienza vissuta durante la pandemia, che certo ha inciso negativamente sulla psiche dei ragazzi. Occorre innanzitutto riconoscere che la nostra epoca è caratterizzata da profonde trasformazioni di “tempo e spazio” a causa dello sviluppo iperbolico e rapidissimo della tecnologia, — spiega Giovanni Migliarese, psichiatra direttore SC Salute Mentale Lomellina Asst Pavia e segretario della sezione lombarda della Società Italiana di Psichiatria —. Negli ultimi anni c’è stato uno stravolgimento degli “assi cartesiani” su cui si basa la nostra esistenza e, come società, siamo ancora in piena trasformazione. Gli spazi sono diventati fluidi, non ci sono confini, il tempo è accelerato: la iper-connessione ci porta a non “staccare mai” e a essere sempre sotto stimolo. Ciò ha un impatto sulla salute psichica di tutti, ma soprattutto dei giovani. Basti pensare che il mondo in cui i ragazzi imparano, giocano e interagiscono è cambiato di più negli ultimi 15 anni che nei 500 precedenti e anche il ritmo di penetrazione dei dispositivi tecnologici è senza precedenti: 38 anni per la radio, 20 per il telefono e solo 2 anni per il tablet.

«Ciò incide particolarmente sui giovani perché le nuove tecnologie rispondono alle tipiche esigenze del periodo adolescenziale: desiderio di condivisione tra pari, volontà a essere sempre “connessi”, tendenza alla sperimentazione, ricerca delle novità. La specifica responsività adolescenziale del sistema del piacere viene costantemente stimolata da social network, giochi online, video e dagli altri prodotti digitali multisensoriali. Il rischio per il cervello è un’iperstimolazione sensoriale, mentre avrebbe bisogno di selezionare le informazioni e avere periodi di riposo (i cosidetti resting state) necessari per elaborare gli inputriorganizzare le reti neurali ed eliminare le scorie prodotte. Di solito questa attività avviene di notte, ma qui c’è un altro punto dolente: il sonno degli adolescenti, per colpa, anche dell’iper-connessione, è spesso disturbato con effetti che riguardano non solo l’aumento del livello di stress ma anche modificazioni sistemiche, tra cui alterazioni degli equilibri ormonali e immunitari», risponde lo psichiatra.

 

Di cosa ha bisogno un ragazzo in questa particolare fase della vita?

«L’adolescente deve poter sperimentare per imparare a conoscersi, per comprendere chi è, domanda centrale del suo compito evolutivo. Ma dovrebbe poter effettuare una sperimentazione reversibile, da cui possa tornare indietro. Un conto è sbagliare e poter rimediare, un conto è fare un errore con conseguenze irrimediabili. Compito dei genitori è, quindi, quello di favorire uno spazio di sperimentazione sufficientemente protetto».

«È inoltre importante che l’adolescente senta che gli si vuole bene. Va precisato che l’adolescenza non arriva all’improvviso, va “preparata prima”, creando un legame affettivo nell’infanzia che significa, molto semplicemente, avere il piacere di “fare cose” insieme e mantenere, negli anni, queste abitudini. Aver creato semplici routine che permettono la condivisione di spazi o momenti è un prezioso investimento nel tempo. Qualsiasi tradizione familiare, come per esempio vedere le partite o un film insieme, diventa un’ancora che, anche nei momenti più conflittuali, consente di “rimanere attaccati” ai figli. È un modo efficace per esserci reciprocamente, anche in quei momenti in cui è più difficile parlare perché si isolano o alzano un muro», dice Migliarese.

 

Se si isolano come si può comunicare con loro?

«Gli adolescenti sono emotivamente molto sensibili e possono avere reazioni spropositate di fronte a situazioni neutre. Quando sono all’interno di una “tempesta emotiva”, che è fisiologica, è inutile cercare di essere razionali e farli ragionare. Occorre reagire senza amplificare la crisi, lasciando che le questioni siano affrontate quando è tornata la calma. Così li si allena al contenimento emotivo, che aiuta a gestire frustrazioni ed emozioni», consiglia l'esperto.

Perché è importante prendersi cura della salute mentale degli adolescenti?

«In adolescenza l’influsso di fattori biologici, psicologici e sociali scolpisce il cervello, potenziando alcune competenze (fisiche, cognitive, relazionali, affettive ed emotive): quello che costruiamo in questi anni varrà poi per tutta la vita, per questo va considerato come un periodo su cui investire e su cui porre particolare attenzione perché è una fase di vulnerabilità neuro-psicologica. «È nel periodo adolescenziale, infatti, che esordiscono la maggior parte delle patologie psichiche che, se non riconosciute e curate, possono influenzare il percorso di vita. L’adolescenza è come la primavera: se si investe bene i fiori si rinforzeranno e durante l’estate (l’età adulta) si potranno cogliere i risultati della semina», spiega Migliarese.

 

I segnali da monitorare

Come capire se certi comportamenti in età adolescenziale sono fisiologici o rientrano in un campo patologico? «Se diventano di una certa intensità e frequenza o se impattano sulla qualità della vita meglio approfondire. Un altro elemento da monitorare è quello delle “reazioni immodificabili”. Si tratta di una sorta di “loop comportamentali” che non consentono al ragazzo di trovare vie di uscita. A tutti capita di affrontare delle difficoltà ma il nostro obiettivo, con il tempo e l’esperienza, è maturare quelle capacità che ci permettono di superarle. Nel corso del nostro sviluppo, e in generale per tutta la vita, perfezioniamo il nostro modo di adattarci e trovare soluzioni alternative. Ci sono alcune difese che funzionano bene fino a un certo momento e poi non funzionano più e occorre diversificare. Se questo non avviene e i problemi si estendono a tutti ambiti è bene parlarne con uno specialista», commenta lo psichiatra.

 

A chi rivolgersi in caso di dubbi o problemi?

«In prima battuta al proprio medico di famiglia, che di solito ha una sufficiente esperienza sulle problematiche di salute mentale e ha un approccio che parte dalla valutazione dei sintomi. In generale, poi, è meglio che il percorso terapeutico abbia un approccio integrato, che possa prevedere la presenza di diverse figure (neuropsichiatra infantile, psichiatra, psicologo...), che ci sia continuità nelle cure durante la crescita e che coinvolga i genitori. Un adolescente in difficoltà riversa sull’ambiente le proprie problematiche e ha bisogno di un supporto ampio che va oltre il momento della “terapia”. E poi che ci siano degli step: avere dei tempi per valutare dove si sta andando permette ai ragazzi di sentirsi “in controllo” nel percorso di cura e ai curanti di valutare gli esiti, evitando pericolose perdite di tempo», conclude Migliarese.

Paolo Crepet sulla strage di Paderno Dugnano: «Famiglia perfetta? C’erano per forza segnali, che nessuno ha visto. Questo deve spaventare»

FONTE: Corriere della Sera e Messaggero

AUTORE: Tommaso Moretto

DATA: settembre 2024

Genitori e fratello minore uccisi a 17 anni da Riccardo nel Milanese, lo psichiatra: «Perchè lo ha fatto? Va chiesto all'Onnipotente ma parlare di ragazzo per bene è la controfirma di una società ormai sfaldata. Non ci parliamo più, non conosciamo l'altro: il vicino ma neppure chi vive con noi»  

 

Un ragazzo di 17 anni a Paderno Dugnano, Comune della città metropolitana di Milano, ha ucciso con un coltello da carne il fratello di 12 anni e i genitori nella notte tra sabato e domenica. Ha confessato tutto davanti agli inquirenti, dicendo «non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi, mi sentivo oppresso». Paolo Crepet, 72 anni, psichiatra, sociologo e saggista, in passato pro-rettore dell’Università di Padova, invita a riflettere sulla nostra «comunità sfaldata».

Cos’è passato per la testa di questo ragazzo, si è dato una spiegazione?
«Va chiesta all’Onnipotente. Criminologi e psicologi che rispondono ad una domanda del genere sono dei fanfaroni. Quello che mi spaventa invece è come mai non se n’è accorto nessuno».

Secondo lei c’erano per forza dei segnali?
«È ovvio, un ragazzino di 17 anni prende in mano un coltello e fa una strage e non ci sono segnali? Stiamo scherzando?».

Il vicino di casa ha detto che era una famiglia tranquilla, che non aveva notato nulla di strano.
«Questo è bestiale, è la controfirma di una civiltà morta. Chi dice che era una persona meravigliosa uno che ha fatto una strage perché lo dice? Ci è andato a bere un caffè alle otto? E cosa pensava gli dicesse, tra dieci minuti ammazzo tutti?»

È una società dove non ci si conosce più?
«Non ci parliamo più, io non conosco nessuno dei miei condomini. È una comunità sfaldata, una volta tra vicini ci si aiutava».

La famiglia massacrata viveva in una zona di villette.
«Perché Turetta dove abitava? Nel Bronx? Smettiamo di parlare di “famiglie per bene”, aboliamo questa dicitura».

Questo ragazzo non pensava che sarebbe stato scoperto e quindi che sarebbe finito in carcere?
«Non gliene frega niente. Un’altra cosa che ci è sfuggita da Novi Ligure ad oggi, e son passati più di vent’anni, è la questione social. All’epoca di Novi Ligure sono stato preso per i fondelli dicevano che banalizzo soltanto perché chiedevo se in quelle famiglie - e all’epoca non c’erano i social - alla sera, a cena, ci si chiede anche come va. Figuriamoci oggi con i social».

I social network peggiorano la situazione?
«Di un milione di volte. Chi dice di no è in malafede. Un ragazzino di 17 anni che si mette la “vision pro” sugli occhi è più o meno isolato? Ci vuol Marconi per capirlo?».

Comunque, dall’isolamento ai triplici omicidi resta un passaggio difficile da capire.
«Mica tanto, quella è la punta di un iceberg. Lui l’ha fatto, mille altri ci hanno pensato. E poi comunque questi casi non sono così rari».

Perché scatta il meccanismo della violenza?
«Perché siamo tutti violenti, questa è una società violentissima. A Torino hanno massacrato un signore che faceva le bolle di sapone alla stazione, non è follia, è odio. È odio anche andare a 200 chilometri l’ora in auto con la propria fidanzata e finire contro un albero, se ami la tua ragazza vai a 65 orari e le accarezzi la mano. Ai 200 all’ora si è indifferenti alla vita dell’altro, è ovvio».

È possibile un parallelo con quanto appena successo a Sharon Verzeni?
«Anche lì, odio. Ogni evento ha un suo perché e una sua declinazione, non possiamo metterli nello stesso posto. Ma in comune ci sono l’odio e l’indifferenza per la vita altrui».

La prospettiva del carcere non è un deterrente?
«Non gliene frega niente, zero. Siamo bombardati da mesi con quaranta morti al giorno in televisione per le guerre, è un continuo richiamo alla morte. E poi l’ergastolo non lo faranno. Questo ragazzo di 17 anni si farà 15 anni, ci sono già i periti al lavoro, poi è minorenne».

Il suo recupero psicologico è possibile?
«Lo sarebbe se si volesse ma andrebbe cambiato il carcere minorile. Bisognerebbe ci fossero persone con capacità di intervento, non neolaureati».

Non ci sono?
«Ma per carità. Noi evitiamo questi argomenti perché ci riguardano, ora per distrarci parleremo dell’Ultradestra in Germania».

E perché li evitiamo?
«Perché ci riguardano. Le famiglie non funzionano, la scuola è abbandonata a sé stessa. Negli Stati Uniti ogni mese esce un libro sull’impatto della tecnologia digitale sui nostri figli ma non facciamo niente perché ci sono le Lobby che portano a cena un senatore e sono a posto».

DOMANDE SULLO STESSO ARGOMENTO SUL MESSAGGERO

Cosa intende per disfacimento della famiglia? E perché è avvenuto tutto questo?
«Semplicemente non c'è più un regola. Ed è avvenuto perché non parliamo più. Abbiamo scambiato i soldi con le parole. Una volta si parlava e non c'erano i soldi. Oggi ci sono i soldi ma non si parla più. Un padre non sa dove è suo figlio di 14 anni. Sabato sera c'era mezza Italia che non sapeva dove si trovasse il proprio figlio. Ne aveva una idea molto, molto vaga. Un padre non sa cosa fa il proprio figlio di 14 anni, non sa quanti shot stia bevendo, non sa se consuma cocaina, non sa se fa sesso con una tredicenne. Semplicemente non lo sa. Sa di cosa sanno i genitori?»

Di cosa?
«Di padel, della partita, del prossimo viaggio quando magari si parte sposati e si torna separati. Poi mi dicono "lei è pessimista". No, sono gli ottimisti che sono male informati».

Questa descrizione va contro quello che era il luogo comune dei genitori italiani eccessivamente protettivi. Uno stereotipo che sembrava inattaccabile.
«Sì, ma i genitori italiani sono troppo protettivi nel momento in cui non dovrebbero esserlo. Sono protettivi per la scuola. Vai a discutere se tuo figlio ha preso un brutto voto, se ha preso 5? Ma cosa ti interessa se tuo figlio ha preso 5? Saranno cavoli suoi. Lascialo di fronte alle sue responsabilità. I genitori italiani non sono protettivi quando dovrebbero esserlo, vale a dire a partire dalle 9 di sera. Sono protettivi in modo sbagliato, ecco che non ci sono più i voti a scuola. Guardi, è stato fatto tutto il contrario di ciò che sarebbe intelligente fare. Forse non siamo un popolo così intelligente».

Come si migliora la situazione?
«Mettendo un punto. Possiamo cambiare la scuola, prima di tutto. In maniera rivoluzionaria. Non funziona nulla. Prima di tutto bisogna cominciare a 5 anni e non a 6, finire a 18 e non a 19. Bisogna rimettere i voti come si è sempre fatto. Bisogna avere la scuola a tempo pieno e dare più soldi agli insegnanti. Ma lei pensa che ci sia un politico che pensa a queste cose? Però ho ragione io, me lo faccia dire».

Il caso Don Milani. La visione della scuola distorta dall’ideologia

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: Luca Ricolfi

DATA: 26 maggio 2023

Il caso Don Milani. La visione della scuola distorta dall’ideologia

Don Milani detestava il gioco, il pallone, il biliardo, il divertimento, la televisione, persino la ricreazione scolastica. Considerava egoistico persino avere una ragazza, farsi una famiglia, studiare all’università, aspirare a una professione come chirurgo o ingegnere. Le uniche professioni che considerava degne di stima erano, nell’ordine: prete, maestro, sindacalista, politico. La sua scuola era durissima, senza pause, e non disdegnava il ricorso alle maniere forti.

Inevitabilmente, in questi giorni in cui ricorre il centenario della nascita di don Milani, si moltiplicheranno le celebrazioni del suo pensiero, della sua opera, della sua perdurante attualità. Non so se sia il modo giusto di ricordarlo, se sia questo il modo migliore per onorare i grandi del passato. Provo sempre un po’ di disagio, quando un autore classico viene usato per fargli dire quel che piace a noi, che viviamo in un’epoca completamente diversa. Dante era di destra? Manzoni ci invita a non parlare di etnie? Don Milani ci dice come dovrebbe essere la scuola oggi? Proprio per questo, ho accolto con sollievo l’uscita, giusto in questi giorni, di un libriccino di Adolfo Scotto di Luzio, che parla del Priore e della sua opera in un modo diverso, non agiografico né strumentale, e che definirei semplicemente rispettoso (L’equivoco don Milani, Einaudi). Rispettoso perché filologico, perché si sforza – attraverso gli scritti – di farci entrare nella testa del Priore, con le sue ansie, i suoi sogni, il suo modo di vedere le cose.

Il risultato dell’operazione è spiazzante, perché non ci fornisce affatto – come spesso si presume – una soluzione ai problemi della scuola di oggi. Ma semmai ci rivela la radicale inattualità del pensiero di don Milani, una inattualità che, fin da subito, fu pienamente intuita da Pasolini, e da pochissimi altri. Lettera a una professoressa, spiega Scotto di Luzio, “è un pressante invito ad abbandonare ambizioni e illusioni del moderno”. Don Milani detestava il gioco, il pallone, il biliardo, il divertimento, la televisione, persino la ricreazione scolastica. Considerava egoistico persino avere una ragazza, farsi una famiglia, studiare all’università, aspirare a una professione come chirurgo o ingegnere. Le uniche professioni che considerava degne di stima erano, nell’ordine: prete, maestro, sindacalista, politico. La sua scuola era durissima, senza pause, e non disdegnava il ricorso alle maniere forti. Se avesse potuto vedere la scuola (e la gioventù) di oggi, don Milani ne avrebbe avuto orrore. Consumismo e volontà di autorealizzazione, cardini del nostro tempo, erano per lui debolezze piccolo-borghesi: solo la dedizione totale agli altri rendeva una vita degna di essere vissuta.
Ma qual era l’idea di scuola pubblica del Priore? Fondamentalmente, poggiava su tre cardini. Primo, la cultura popolare, e contadina in particolare, fatta di esperienza e saperi pratici, ha pari dignità rispetto alla cultura alta, formale, borghese, insegnata nelle scuole. Secondo, la scuola dell’obbligo dovrebbe riconoscere il pieno valore della cultura popolare, e rinunciare a trasmettere conoscenze prive di utilità pratica (matematica, letteratura, filosofia, ecc.), puntando tutte le carte sull’attualità (leggere i giornali) e sul controllo della lingua (non solo italiana). Terzo, l’orario scolastico dovrebbe essere molto più lungo, perché è nelle ore di non-scuola che i figli dei ricchi acquisiscono un vantaggio rispetto a quelli dei poveri, costretti a lavorare quando non sono a scuola.
Da questo complesso di idee derivava una conseguenza fondamentale. Diversamente da Gramsci, da Concetto Marchesi, e dallo stesso Togliatti, don Milani non vedeva l’accesso alla cultura alta come strumento di elevazione ed emancipazione degli strati popolari. Per lui, come per Pierre Bourdieu pochi anni dopo, la cultura alta era uno strumento di dominio, che imponeva saperi arbitrari, fatti apposta per consentire ai ricchi di umiliare ed escludere i poveri. Come tale, andava lasciata ai ceti alti e a quanti, fra i poveri, preferivano tradire la loro classe di origine, sottomettendosi alla scuola borghese e frequentando quelle che don Milani spregiativamente considerava “Scuole di Servizio dell’Io”, università e licei in particolare.

In questa sua visione dei compiti dell’istruzione, don Milani si situa agli antipodi del pensiero dei Padri Costituenti, in particolare di Piero Calamandrei. Per loro la scuola doveva rompere il monopolio borghese della cultura, facendo sì che la nuova classe dirigente dell’Italia repubblicana potesse attingere alle forze migliori di ogni ceto sociale. Era a questo alto compito che guardava l’articolo 34 della Costituzione, che al comma 2 recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”.
Piero Calamandrei considerava quell’articolo il più importante della Costituzione. Don Milani, invece, detestava l’articolo 34. Per lui, diventando chirurgo o ingegnere, il povero perdeva la sua purezza, il suo legame con i compagni, l’appartenenza al magico universo della cultura popolare. Premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi” non era la strada giusta. E infatti non fu seguita. Le borse di studio che l’articolo 34 prometteva sono rimaste in gran parte sulla carta: don Milani ha vinto, Piero Calamandrei ha perso. Fu un bene? Fu un male? Su questo, fra una celebrazione e l’altra, forse varrebbe la pena riflettere.

 

Paolo Crepet: “La scuola è fallita. Il 99% degli alunni viene promosso e per i genitori è un diplomificio dove parcheggiare i figli”

FONTE: La Tecnica della Scuola

AUTORE: Redazione

DATA: 31 marzo 2023

In questi giorni si parla molto di disagio giovanile, di problemi psicologici dei ragazzi, di stress della Generazione Z. A dire la sua, facendo un commento molto pungente e, per certi versi, controcorrente, è stato lo psichiatra Paolo Crepet oggi, 31 marzo, intervistato da Radio Cusano Campus all’interno del programma “L’Italia s’è Desta”, come riporta AgenPress.

Fallimento psicologico a causa dei genitori?

“Un dato disarmante quello che riguarda l’onda vasta di malcontento e disagi psicologici tra gli studenti. Personalmente ho sempre avuto un certo timore all’idea che si aprissero questi sportelli di aiuto psicologico negli istituti scolastici. Non so se siano in grado, io penso facciano peggio. Sono scettico sul fatto di considerare tutte le figure coinvolte in grado di evidenziare le reali problematiche che quotidianamente emergono”.

Di fronte all‘alto numero di ragazzi con problemi psicologici Crepet, che mette in evidenza gli sbagli che a suo avviso commettono i genitori in primis, si mostra molto scettico: “Considero questi numeri in percentuale dei ‘falsi positivi’, al primo momento di stanchezza il ragazzo cerca lo psicologo che gli certifichi di essere molto stressato. Il problema degli adolescenti e dei bambini oggi è che hanno dei genitori più giovani, più adolescenti, più paturniati dei propri figli. E per questo motivo siamo di fronte a un vero e proprio ‘marketing della depressione’ che si sviluppa a forza di compatirci”.

Crepet si è poi scagliato contro la Dad, affermando che il disagio dei più giovani è anche conseguenza di come è stata gestita la pandemia: “Io sono stato tra i primi che quando è stata nominata la parola Dad l’ho definita la più grande schifezza che potevamo fare. Bisogna chiudere tutto ma tenere aperte le scuole, almeno parzialmente. Abbiamo detto che andava benissimo fare tutto da casa. Evidentemente è stato un danno, non c’è nulla di peggio di isolare i bambini. E lo abbiamo fatto cocciutamente, due ministri di seguito. Nessuno ha pensato che c’è stato un danno”.

Smettiamola di tutelare i figli nei modi peggiori”

“È necessario considerare una categoria molto vasta, i ragazzi e le ragazze che non hanno voglia di studiare. L’ipotesi che io mi farei da genitore è chiedermi perché mio figlio non studia, prima di decretarne il fallimento psicologico. Io stesso ho ceduto tante volte durante la scuola, ho preso tantissime insufficienze e per fortuna non c’erano gli psicologi. Avevo solo dei genitori che invece che compatirmi mi hanno spronato. Smettiamola di tutelarli nei modi peggiori e di pensare che andare a scuola sia un modo per parcheggiare i figli in un diplomificio”, ha continuato, tirando in ballo la scuola.

“A valle di tutto questo c’è un dato terrificante di cui nessuno si preoccupa, una percentuale altissima, il 99% dei ragazzi che oggi si trovano inseriti in un percorso studi, viene promosso. Basta che si respira si viene promossi. La scuola è fallita. Avete mai visto genitori o ragazzi in sciopero generale contro questo dato evidentemente catastrofico? No perché va bene che quel diploma non conti nulla, perché va bene che metta sullo stesso piano tutti, chi si è sforzato di fare, con chi non ha fatto nulla. Non credo che in questi anni le difficoltà siano aumentate da parte dei professori”.

“Certo che sei più fragile se stai tutto il giorno solo davanti al cellulare. Come si frequentano i ragazzi? Con un emoticon?”, ha aggiunto lo psichiatra.

“Il registro elettronico? Terrificante. I ragazzini non possono più trasgredire. A scuola si trasgredisce: cosa vuol dire, spaccare tutto? No, tentare di prendere sei anche se non hai studiato, è un diritto provarci. Il registro controlla ogni minima mossa. Poi di notte i genitori non sanno dove sono i loro figli”, queste le parole sarcastiche dello psichiatra.

Fuga dal liceo Berchet, ansia e stress negli studenti

Emblematico il caso del liceo classico Berchet di Milano di cui abbiamo parlato: ben 56 studenti hanno lasciato la scuola per trasferirsi altrove. La Repubblica ha condotto un’indagine per capire cosa ci fosse dietro queste decisioni e quale sia il clima che regna nell’istituto.

Dal sondaggio – che chiedeva agli allievi di dare punteggi da uno a cinque su diverse questioni – emerge che oltre la metà di chi ha partecipato (303 allievi) soffre di stress e ansia a causa della scuola, che il 53 per cento sente una forte pressione da parte degli insegnanti e che il 57 per cento non affronta con serenità le prove orali e scritte.

“Ci sono delle difficoltà, per la maggior parte provocate dagli anni di Covid, dal periodo trascorso a casa e dalla didattica a distanza – sottolinea il preside Domenico Guglielmo –. Stiamo cercando di affrontarle con un supporto maggiore di tipo didattico: abbiamo attivato già dall’inizio dell’anno corsi integrativi di italiano e matematica, per rafforzare le basi degli allievi, prevediamo la possibilità di tutoraggio tra pari, quindi con studenti più grandi che affiancano i più piccoli, e, da quest’anno, lo studio assistito con la presenza di un docente”. L’idea è di intervenire sulle competenze dei ragazzi per “cercare di rafforzare la loro fiducia in se stessi”, mettendo poi a disposizione il supporto “di una psicologa presente da tempo a scuola e di un’altra disponibile grazie alle risorse arrivate per far pronte alle conseguenze della pandemia e confermate”.

“Molte criticità erano già presenti prima del Covid, ora stanno venendo alla luce con più forza e non riguardano solo i ragazzi più piccoli – spiega Biancamaria Strano, rappresentante d’istituto e tra i promotori del sondaggio –. C’è un problema, noi lo riconosciamo e vogliamo cercare di cambiare una concezione di scuola sbagliata. A partire dal rapporto tra insegnanti e studenti: chiediamo maggiore sensibilità e attenzione per gli allievi, che non devono sentirsi aggrediti e vedere quindi aumentare i livelli di stress. È importante iniziare un percorso per aprire un dialogo con tutti gli insegnanti. L’obiettivo non è denigrare la scuola, ma far emergere ciò che non funziona e far sì che le cose cambino”.

Mi permetto un commento.

Nell’articolo non vengono individuati alcuni fattori che possono cambiare di molto, a mio avviso, la situazione. Eccoli.

Migliorare di molto la collaborazione scuola-famiglia, che produce effetti sinergici incredibili sulla crescita del ragazzo.

Impegno dei docenti a realizzare una relazione significativa con l’alunno, fatta non solo di insegnamenti ed informazioni, ma di comprensione ed accoglienza, nel dialogo individuale. Non una generica “maggiore sensibilità e attenzione per gli allievi”, come dice la rappresentante d’istituto

Sforzo dei genitori per trovare il tempo di parlare con i figli, tutti i giorni possibilmente. Per conoscerli, quindi capire i loro problemi appena insorgono ed aiutarli.

Cara scuola progressista, quanti danni hai fatto

FONTE: Repubblica.it

AUTORE: Paolo Di Paolo

DATA: 13 ottobre 2021

La macchina dell'istruzione come amplificatore delle disuguaglianze: il saggio di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi

Una risposta inattesa che arriva mezzo secolo dopo: a quella lettera sovversiva spedita dalla Scuola di Barbiana un anno prima del 1968, per diventare simbolo di un'intera stagione di cambiamenti. La "professoressa" replica a don Milani, però nel 2021. Con una fermezza che farà discutere, in una delle pagine di Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La nave di Teseo), la battaglia del priore di Barbiana viene definita "anacronistica"; e non solo a giudicarla ora, ma già due decenni fa, quando entrava in vigore la riforma Berlinguer, l'altro grande bersaglio polemico del libro.

Alle soglie del 2000 - osserva la scrittrice Paola Mastrocola, autrice del saggio a quattro mani con il sociologo Luca Ricolfi - "il mondo era ulteriormente cambiato: nelle classi dove insegnavo io, c'erano ragazzi che non sapevano più né parlare né scrivere, ed erano i figli svogliati e viziati di una media borghesia, non più i figli di contadini e operai: a loro più che mai avremmo dovuto dare l'Iliade del Monti. Che senso aveva protrarre l'ideologia di don Milani? Eppure era ancora quello il modello proposto e celebrato nella scuola, un modello che poteva valere negli anni Cinquanta, e in un piccolo borgo sperduto tra le colline toscane".

Mastrocola e Ricolfi, mettendo in gioco ciascuno la propria esperienza di insegnamento (la prima nella scuola superiore, il secondo nell'università), e correndo consapevolmente il rischio di apparire "passatisti e nostalgici", accusano la scuola "facilitata, progressista e democratica" di essere la responsabile di un enorme buco di conoscenza e cultura nel nostro Paese.

La tesi dei due autori è che la macchina dell'istruzione italiana sia diventata "un formidabile amplificatore delle disuguaglianze", dietro un apparente egualitarismo didattico; e quel "non ho le basi", che anche nel corso di un esame universitario uno studente può offrire come attenuante della propria impreparazione, andrebbe - sostengono - preso alla lettera. Perché si tratta, nei fatti, di scarsa padronanza del linguaggio, di insufficiente capacità di comprensione delle domande e conseguente difficoltà nel produrre risposte in autonomia.

La liberalizzazione degli accessi nel post-'68, il diritto al successo formativo, il 3+2 voluto da Berlinguer sono secondo Mastrocola e Ricolfi le cause del disastro nella formazione accademica (sono molto severi anche con una classe docente universitaria impegnata in una demenziale corsa alle pubblicazioni su rivista, schiavi spesso compiaciuti di un sistema di reclutamento e di valutazione infernale; e qui è difficile contraddirli).

Ma all'università si arriva, quando si arriva, dopo un esame di maturità "farsa" e una scuola che negli ultimi cinquant'anni ha, ai loro occhi, abbassato progressivamente gli standard formativi insieme all'asticella della promozione. Fattore che avrebbe danneggiato i ceti popolari più di quanto abbia danneggiato i ceti alti: incrociando i dati Istat con i risultati delle prove Invalsi, Ricolfi intende dimostrare come sul destino sociale di un giovane abbia un'incidenza cruciale la qualità dell'istruzione ricevuta, in positivo, e il grado di indulgenza nella valutazione, in negativo. Più di quanto si possa pensare, e più dell'origine sociale e del contesto economico: "La scuola senza qualità amplia il vantaggio dei ceti alti, quella di qualità attenua lo svantaggio dei ceti popolari. Nella gara della vita, sono i ceti deboli le vere vittime di un abbassamento della qualità della scuola". Per modificare alla radice il "parametro di iniquità" occorre un'istruzione di qualità elevata, che possa letteralmente catapultare uno studente da un mondo sociale a un altro.

Mastrocola richiama il proprio stesso percorso, a riprova, per "incrinare un altro pilastro della tesi progressista": studiano solo i ragazzi le cui case sono piene di libri. "Non è vero. Non è detto. Qui azzarderei addirittura il contrario. La mia casa era vuota di libri. Neanche l'ombra. I miei non leggevano". È dipeso tutto dalla scuola, lei dice: una scuola lontana dalle odierne tendenze burocratico-aziendaliste, che non misurava "competenze", non temeva il sapere astratto e faceva vivere gli studenti in un clima di allerta permanente. Troppo? Forse sì. Ma Mastrocola, in altri libri piuttosto discussi, aveva già elogiato severità, lingue classiche, necessità dell'esercizio della parafrasi, sapendo di apparire "attaccata a una visione elitaria e nostalgica".

Nell'avvertenza a questo volume, d'altra parte, gli autori chiariscono di non voler tornare a una scuola del passato. Sullo strumento della bocciatura, sulla riforma della scuola media del '62, sul presunto specifico del liceo classico c'è da discutere parecchio, e magari da dissentire. Non sull'epigrafe, che è l'articolo 34 della Costituzione. E su un punto inconfutabile: chi parte avvantaggiato a livello socio-economico se la cava lo stesso. Gli altri hanno bisogno della scuola.

«Ho lasciato la chat dei genitori E sono tornato un uomo felice»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Lorenzo Salvia

DATA: 28 gennaio 2017

Essere connessi in tempo reale con gli altri papà e le altre mamme trasforma ogni piccolo episodio in un caso. E scatena un’ansia da prestazione che ci fa sentire tutti inadeguati. Uscite dal gruppo: la vostra vita migliorerà. Per le cose serie basta la mail

Non è per le faccine di risposta a ogni messaggio. Non è per quelli che la usano per chiacchierare con una persona sola: «Per la mamma di Valeria, allora ti aspetto all’uscita :-)», «Ok, grz :-):-)». Non è nemmeno per quelli che chiedono i compiti, poi l’aiutino per i compiti, poi ancora il confronto dei compiti, alla fine la soluzione dei compiti. Ho lasciato la chat su WhatsApp dei genitori della scuola di mio figlio. E sono tornato un uomo felice. Ma non l’ho fatto per gli effetti collaterali, che pure sono fastidiosi. L’ho fatto perché la chat, in sé, è gravemente dannosa per la salute. Peggio delle sigarette.

 

Nuoce alla salute (anche con i genitori migliori)

Tutto dipende da come viene usata, dicono. Falso, la chat fa male a prescindere. Essere connessi H 24 e in tempo reale con gli altri genitori genera un incubatore di ansia da prestazione che rovinerebbe la mamma o il papà più zen del mondo. Anche se tutti i genitori sono, come nel caso della scuola elementare di mio figlio, persone per bene, intelligenti e pure simpatiche. La chat nuoce gravemente alla salute per due motivi.

 

Amplifica le piccole cose

Il primo è che trasforma ogni refolo di vento in una tempesta. Un esempio? A scuola fa freddo dopo le festa di Natale. Uno solleva il caso, un altro minimizza. Un altro ancora attacca la maestra, poi c’è quello che la difende, quello che se la prende con la preside. Dopo un po’ arriva quello che ricorda i tempi della nonna, quello che tira in ballo il sindaco, quella che difende il sindaco. Alla fine non si risolve nulla. Anche senza la chat non si risolve nulla. Ma almeno non c’è quella sfilza di squilli e vibrazioni che ti fa dimenticare l’unica cosa davvero importante da fare: chiedere a tuo figlio (non alla chat) se a scuola fa freddo. E in caso mettergli una maglia più pesante.

 

L’ansia da prestazione del genitore perfetto

Il secondo motivo per cui la chat fa male è quella che gli esperti chiamano vetrinizzazione della identità. Cosa vuol dire? Spesso chi interviene non lo fa per dare il suo contributo alla soluzione di un problema, ma per essere sicuro di dare l’immagine giusta di sé. Una gara senza vincitori dove tutti siamo perdenti: ognuno vuole sembrare presente e premuroso, quando parla della merenda bio, della festa della domenica o del pomeriggio con gli amichetti. Alla fine, davanti a tanta premura, tutti finiamo per sentirci inadeguati. A parte la super mamma perfetta che c’è in ogni classe ma che, tranquilli, di solito fa solo finta.

 

Meglio la mail, che usiamo con più attenzione

Il risultato finale è che sulla chat passa quello che non serve. E non passa quello che serve. L’altro giorno, quando c’è stato il terremoto e la scuola è stata evacuata, noi genitori siamo stati avvertiti via mail. Nessuna risposta tanto per rispondere, solo la comunicazione di quella santa donna della nostra efficientissima rappresentante di classe. Alla fine, sulla mail, l’ansia da prestazione scatta più difficilmente. E le piccole cose tendono a rimanere quello che sono, piccole cose. Io sono fuori dal tunnel, di nuovo felice. Urge un intervento che salvi gli altri genitori: un divieto generale per decreto con tanti saluti a quel che resta dello Stato liberale.

P.s. Cari colleghi genitori. Ci si vede domani al bar per il caffè post campanella. Ci facciamo una bella chiacchierata. Ripeto: chiacchierata, non chat.

Warren Buffett: parlare ai figli dei soldi

FONTE: Wall Street Italia

DATA: 31 luglio 2019

Warren Buffett: questo l’errore più grande dei genitori quando parlano di soldi ai propri figli

Un investitore nato Warren Buffett, il CEO di Berkshire Hathaway già a sei anni mostrò di avere la stoffa da imprenditore acquistando una confezione da sei bottiglie di Coke per 25 centesimi e rivendendo ogni lattina per un nichelino. “Mio padre è stata la mia più grande ispirazione”, ha detto Buffett in un’intervista alla CNBC nel 2013.

Da lui ho imparato fin da piccolo quanto sia importante tenere buone abitudini. Il risparmio è stata una lezione importante che mi ha insegnato”.

Ma quale secondo Buffett è il più grande errore che i genitori fanno quando insegnano ai loro figli a gestire i soldi? Aspettare troppo assicura l’oracolo di Ohama.

A volte i genitori aspettano che i loro figli siano adolescenti prima di iniziare a parlare loro di gestione del denaro, quando potrebbero iniziare a farlo quando i loro figli sono in età prescolare”.

Il tempo è un fattore chiave secondo Buffett e si dovrebbe iniziare a parlare ai propri figli di soldi fin già dalla scuola materna. A sostenere la tesi di Buffett uno studio dell’Università di Cambridge secondo cui i bambini sono già in grado di comprendere i concetti monetari di base tra i 3 e i 4 anni. E dall’età di 7 anni, i concetti di base relativi ai comportamenti finanziari futuri in genere si sono sviluppati. Un altro studio del 2018 di T. Rowe Price ha fatto emergere che solo il 4% dei genitori ha detto di aver iniziato a discutere di argomenti finanziari con i propri figli prima dei 5 anni. Il 30% ha iniziato a istruire i propri figli sui soldi all’età di 15 anni o più, mentre il 14% ha detto di non averlo mai fatto.

I consigli di Buffett per educare i propri figli al risparmio

Nel 2011, Buffett ha contribuito al lancio di una serie animata per bambini chiamata “Secret Millionaire’s Club”. Ventisei episodi ognuno dei quali affronta una lezione finanziaria, da come funziona una carta di credito al perché è importante tenere traccia di dove si mettono i soldi. Ecco alcune lezioni della serie e alcuni consigli di Buffett sull’educazione finanziaria da insegnare e ai vostri figli:

  1. Essere un pensatore flessibile: incoraggiate i vostri figli a non arrendersi solo perché qualcosa non funziona la prima volta. La capacità di pensare in modo creativo e fuori dagli schemi sarà utile quando si imbatteranno in future sfide finanziarie. Un’idea può essere sfidare i vostri figli a trovare nuovi usi per i vecchi oggetti della casa (ad esempio, i tappi delle bottiglie possono fungere da pezzi a scacchiera, una scatola di cereali vuota può essere trasformata in porta riviste). Questo aiuterà a insegnare loro a pensare in modo critico, a risparmiare denaro e ad aiutare l’ambiente allo stesso tempo.

  2. Iniziare a risparmiare denaro: per aiutare i vostri figli ad imparare a gestire i loro soldi, è importante per loro capire la differenza tra desideri e bisogni. Un’idea di attività può essere quella di dare a ciascuno dei vostri figli due barattoli di denaro: uno per risparmiare e uno per spendere. Ogni volta che ricevono dei soldi (ad esempio, come regalo o come ricompensa per aver portato a spasso il cane del vicino di casa), parlategli di come vogliono dividere il denaro tra risparmio e spesa.
    Chiedete ai vostri figli di fare una lista o creare un collage da foto di riviste di cinque o dieci cose che vorrebbero acquistare. Poi, guardate ogni elemento con loro e segnate con lui se si tratta di un desiderio o un bisogno (ad esempio, un nuovo giocattolo è un bisogno, mentre un nuovo zaino è un bisogno).

  3. Come distinguere tra prezzo e valore: l’idea alla base di questa lezione è di aiutare i bambini a capire i diversi modi in cui gli inserzionisti ci portano ad acquistare i loro servizi o prodotti. Un’idea di attività in questo caso è fare una lista degli articoli di cui hai bisogno al supermercato, e poi controllare volantini, giornali e siti web.

  4. Come prendere le giuste decisioni: la chiave per prendere decisioni intelligenti è pensare a come le diverse scelte possono influire sui risultati futuri. L’idea di attività in tal senso è parlare con i vostri figli delle vostre decisioni man mano che le prendete, così come di qualsiasi effetto domino che potrebbero avere.
    Per esempio: “Vogliamo comprare un nuovo televisore, ma il nostro condizionatore è rotto e dobbiamo risparmiare per poterlo riparare. Se non lo facciamo, farà troppo caldo in casa quando arriva l’estate. Quando ripareremo il condizionatore, allora possiamo pensare di comprare la TV”.

Senza intelligenza emotiva non si può insegnare

AUTORE: Umberto Galimberti

DATA: agosto 2019

Galimberti: “I Docenti Dovrebbero Essere Assunti in Base all’Intelligenza Emotiva, Senza di Essa Non si Può Insegnare”

Dall’incontro “Educazione emozionale a scuola: il metodo RULER”, che si è tenuto alla fiera Didacta a Firenze è emerso che la scuola italiana si occupa poco dell’intelligenza emotiva, nonostante questa sia ormai universalmente riconosciuta come componente fondamentale nello sviluppo della psiche umana. A parlare di questo argomento sono intervenuti la dottoressa Laura Artusio e il professor Umberto Galimberti.

La dottoressa Artusio ha presentato il metodo RULER di educazione socio-emozionale (SEL). Questo metodo sviluppato presso la Yale University è stato adattato al diverso contesto italiano. Si rivolge a tutto il corpo docenti e mira a sviluppare modalità didattiche alternative che abbiano lo scopo di stimolare l’intelligenza emotiva degli studenti. Cinque sono le abilità chiave dell’intelligenza emotiva : il riconoscimento, la comprensione, il vocabolario emozionale, l’espressione e le strategie di gestione delle proprie emozioni.

Il professor Galimberti ha sottolineato quanto i genitori, oberati dal lavoro o da altre occupazioni, spesso trascurano questo tipo di apprendimento: “Oggi troppo spesso l’apporto genitoriale è fallimentare, i genitori non hanno più tempo di rispondere alle domande filosofiche dei bambini, ai loro mille perché, e spesso le parole mancate vengono sostituite da montagne di giocattoli”.

Questa mancanza, spiega il professore, produce due effetti negativi importanti: un analfabetismo affettivo diffuso e “il rapido appagamento offerto dal giocattolo che impedisce ai bambini di annoiarsi. Quando invece dovrebbero trovarsi in situazioni noiose per elaborare poi, in modo creativo, degli stratagemmi per divertirsi”.

Galimberti ha poi spiegato la differenza tra istruzione, come mera trasmissione di saperi, ed educazione, che permette invece ai bambini di sviluppare la propria personalità: “L’educazione emotiva è ciò che più scarseggia nel sistema scolastico italiano, quando un ragazzo rimane impantanato nello stadio pulsionale il rischio è che sviluppi forme di violenza e bullismo. La pulsione non si esprime in parole, ma solo in gesti e azioni”. Il professore spiega poi come migliorare questa situazione: “Innanzitutto limitando il numero di alunni per classe, fino a un massimo di quindici studenti; ma soprattutto ci vorrebbe una formazione specifica per i professori, che dovrebbero essere scelti anche in base a criteri emotivi e non solo conoscitivi. Se una persona non è empatica e coinvolgente non può fare il professore. È qualcosa che non si può imparare”.

Non manca poi il dissenso totale di Galimberti per l’uso spropositato di strumentazioni tecnologiche e lavagne elettroniche nella scuola italiana: “Dovrebbe essere strapiena di letteratura, soprattutto di romanzi, che permettono di definire le proprie emozioni immedesimandosi nella vita degli altri. Il razzismo nasce proprio dall’incapacità di riconoscersi nell’altro, e su questo dobbiamo intervenire oggi più che mai”.

Fine delle medie: 4 su 10 insuff. in matematica

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Lorella Carimali

DATA: 17 maggio 2019

Come insegnare la matematica alle maestre? La proposta della super prof Lorella Carimali, docente di matematica e fisica al liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano, è stata candidata al Global Teacher Prize, il premio Nobel per l’insegnamento

 

Quattro studenti italiani su 10 che frequentano il terzo anno della scuola media non raggiungono un livello sufficiente di competenza numerica, con una prevalenza di ragazze al 41,7% contro il 38,5% dei ragazzi. Questi giovani sono destinati, per la maggior parte, a diventare da adulti degli analfabeti funzionali, incapaci di applicare le abilità matematiche nelle situazioni della vita quotidiana, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si troveranno a vivere, di prendere decisioni autonome senza subire condizionamenti. Se a questi numeri aggiungiamo quelli della dispersione scolastica e dei NEET (quota di popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione), la situazione diventa molto allarmante perché si tratta di una moltitudine di giovani a cui viene negata la speranza di poter progettare il proprio futuro, di sognare e di cambiare il proprio modo di vedere se stessi ed il mondo. Come diceva Tullio De Mauro, «l’alfabetizzazione di base, l’alfabetizzazione numerica e matematico-scientifica, le competenze di problem solving, le abilità informatiche, rappresentano elementi cruciali per vivere e lavorare nelle società moderne, caratterizzate da un crescente sviluppo delle tecnologie informatiche e della comunicazione, e al contempo diventano la chiave di accesso al mondo del lavoro e all’inclusione sociale». Come porre rimedio a tutto questo?

 

Per individuare il primo step da affrontare, citerei altri dati che sono apparsi sui giornali alcuni mesi fa. La Varkey Foundation, fondazione senza fini di lucro che opera nel campo dell’istruzione, conduce dal 2013 un’analisi sulla percezione sociale della figura dell’insegnante in 35 Paesi diversi, monitorando il legame tra lo status dei docenti e il rendimento degli alunni. Purtroppo lo status degli insegnanti in Italia è fra i peggiori. Solo Israele e Brasile si collocano più in basso. Il punteggio estremamente basso ottenuto dai docenti è in linea con il pessimo piazzamento degli studenti italiani nei test Ocse-Pisa. Se a questa ricerca uniamo la nostra conoscenza sul fatto che le insegnanti e gli insegnanti di qualsiasi ordine si sentono abbandonati a se stessi e in alcuni casi anche denigrati, capiamo che il primo imprescindibile passo è quello di ripartire dalla valorizzazione dei docenti. Ovviamente anche un adeguamento degli stipendi alla media europea sarebbe importante, ma in attesa del reperimento delle risorse si potrebbe partire intanto con soluzioni attuabili da subito.

 

 

A mio avviso, il primo atto dovrebbe essere quello che il governo convochi i sindacati per trovare insieme un modo per iniziare un percorso di riqualificazione del ruolo. Si potrebbe, ad esempio, introdurre finalmente una qualche forma di carriera. In particolare si potrebbe prevedere, per i docenti con maggiore esperienza e capacità innovativa, quelli dai 50 anni in su, una scansione oraria suddivisa per metà a scuola e per un’altra metà all’università, dove potrebbero mettere il loro know how a disposizione dei futuri insegnanti per evitare la formazione di quelli che vengono definiti «bias» cognitivi, cioè i costrutti fondati su percezioni errate o deformate, su pregiudizi e ideologie. Uno per tutti: l’idea che per l’apprendimento della matematica ci sia bisogno di un quid che solo alcune persone hanno, prevalentemente uomini.

 

Le prime vittime di questi condizionamenti sono le maestre: le statistiche ci dicono che chi sceglie il percorso di Scienze della formazione primaria (la laurea per diventare maestre, ndr) lo fa anche perché si ritiene non portata per seguire un percorso ad esempio scientifico. La psicologa americana Carol Dweck ci dice che questa convinzione passa senza saperlo attraverso azioni e parole anche alle studentesse e agli studenti, quindi è fondamentale invertire la rotta e far capire che questo è solo uno stereotipo. Con un insegnamento della matematica da parte di colleghe anche di ordini differenti potremmo invertire la rotta e far capire loro che le abilità cognitive non sono innate, ma sono il risultato delle stimolazioni ambientali e delle esperienze di apprendimento.

 

Grazie a questa ipotesi di valorizzazione del know how degli insegnanti ritengo che si potrebbero ottenere i seguenti importanti risultati:

gli insegnanti sarebbero valorizzati sia sul piano intellettuale sia sul piano economico;

-il costo dell’operazione sarebbe nullo, perché oggi le figure occorrenti sono già coperte da professori universitari (non intendo quindi un semi esonero con il solo ruolo da tutor come accade oggi);

-più giovani verrebbero attratti dalla professione di docente, con possibilità di carriera anche in università ai fini della ricerca;

-si otterrebbe il vantaggio di far crescere i docenti inclusi nel programma, di valorizzare il loro know-how per condividerlo con le nuove leve;

-si liberebbero posti di lavoro per l’inserimento dei giovani;

-la popolazione avrebbe la giusta percezione del lavoro del docente.

Scrivere a mano fa bene

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE:  Candida Morvillo

DATA:  4 gennaio 2019

Pare che stia tornando di moda scrivere a mano. Un’inchiesta del magazine americano Medium racconta che, ultimamente, molti professori di Harvard impongono agli studenti di prendere appunti manuali invece che su computer e tablet, e che in Arizona e North Carolina le scuole hanno lanciato campagne per insegnare correttamente il corsivo. In Cina, c’è un movimento per riappropriarsi della capacità di scrivere di proprio pugno: disabituarsi a maneggiare i loro difficili caratteri starebbe depauperando la memoria nazionale.

Popolo di scriventi

Anche l’Italia si sta scoprendo un popolo di scriventi oltre che di digitatori. Nel 2015 è nata l’associazione Smed (Scrivere a mano nell’era digitale). Riunisce insegnanti e calligrafi, organizza corsi da Roma in su, per «evitare un impoverimento della motricità fine, della memoria visuale e motoria, dell’organizzazione cognitiva della scrittura e della capacità di esprimere noi stessi in modo unico, immediato, personale». L’Aci, Associazione calligrafica italiana, sta registrando il boom d’iscrizioni ai suoi corsi, una cinquantina l’anno. Fenomeno, questo, globale, almeno da quando si sa che la duchessa Meghan Markle, da ragazza, per lavoro, scriveva inviti ai matrimoni. La vicepresidente dell’Aci Anna Schettin racconta al Corriere: «Scrivere in bella grafia è un’attività lenta e tutti abbiamo bisogno di rallentare. Le persone stanno scoprendo che la grafia è personale, lascia un segno di sé, può essere lieve, forte, calcata, parla della propria personalità». È come se a furia di digitare, e anche dettare agli smartphone, di usare faccine, scrittura predittiva che non contempla l’intero alfabeto del cuore e della mente, abbiamo cominciato a chiederci se non ci stiamo perdendo qualcosa.

Aiuta a pensare meglio

Ricerche scientifiche dimostrano che scrivere a mano aiuta a pensare meglio e l’Istituto grafologico internazionale di Urbino Girolamo Moretti si è adoperato affinché la scrittura a mano sia proclamata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Benedetto Vertecchi, professore emerito di Pedagogia all’Università Roma Tre, autore di oltre 600 pubblicazioni, è a capo di un gruppo di studio sui bambini e la scrittura manuale e spiega al Corriere: «I nostri test hanno dimostrato che scrivere a mano aumenta enormemente la capacità di usare il linguaggio. Non è solo questione di tracciare segni, ma del pensiero che corrisponde al segno che si traccia. Scrivendo sulla carta, il pensiero si esprime in modi molto più distesi e riflessivi che con altri mezzi». Le sue ricerche rilevano anche che usare la penna ha effetti positivi sulla manualità in generale: «Un bimbo che la tiene correttamente con pollice, indice e medio, invece che con due dita o impugnandola come una clava, è anche un bimbo che tipicamente sa allacciarsi le scarpe e usare bene un cucchiaio».

I convertiti

Molti che scrivono per mestiere non si sono mai convertiti al pc. James Ellroy scrive a mano i suoi libri, così le loro sceneggiature Quentin Tarantino e George Clooney, che assicura di essere un disastro nel «copia e incolla». Da oltre trent’anni, Maria Venturi produce best seller (l’ultimo libro, per HarperCollins, è Tanto cielo per niente) e lo fa sempre a mano. Dice: «Quando ero una giovane giornalista, ero anche una veloce dattilografa e ora so usare il computer, però ho sempre creato solo con carta e penna: è come se il pensiero mi scivolasse dalla testa lungo la mano destra. È un testa-mano continuo, ho un cervellino nelle dita che reggono la penna e mi correggono o mi dettano il sinonimo. Se in mezzo ci metto una macchina, vado lenta e la concentrazione si spezza. Per cui, scrivo a mano e poi copio al computer e mando».

Taccuino

Se s’incontra in aereo o in treno l’ex Miss Italia Martina Colombari, è facile vederla intenta a compilare un taccuino. Lei stessa lo spiega così al Corriere: «Scrivere a mano mi rende i pensieri più chiari e limpidi. Lo faccio se prendo appunti e, dopo aver seguito i seminari di meditazione, metto su carta le mie riflessioni. È un momento per stare con me stessa che non sarebbe uguale se avessi per filtro una tastiera. Anche quando devo dire qualcosa d’importante a una persona cara, scrivo lettere, non email». Il professor Vertecchi suggerisce un esercizio pensato per i più piccoli, ma utile anche agli adulti. Lo si trova nel suo libro I bambini e la scrittura (Franco Angeli editore, 2016) ed è l’esperimento intitolato a una frase di Plinio il Vecchio, «Nulla dies sine linea», «Nessun giorno senza un segno». Basta scrivere ogni giorno poche righe — gli scolari di quinta ne hanno scritte sei — ogni volta esercitandosi su un semplice tema, tipo «com’è il tempo oggi». In quattro mesi, si scopre che sono migliorati la qualità del linguaggio e del pensiero. Provare per credere.