Sempre connessi, quali conseguenze per i figli?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Claudio Mencacci

DATA: 15 febbraio 2025

Ai genitori andrebbe ricordato che l’uso di tecnologia in loro presenza nuoce alla salute mentale dei loro bambini e raccomandato di dare esempi positivi

L’interferenza della tecnologia nelle interazioni quotidiane e nelle relazioni personali è al centro di diverse ricerche. Quali sono le conseguenze nei bambini e negli adolescenti esposti a genitori eccessivamente assorbiti dalla tecnologia? Quali conseguenze emotive, sociali, comportamentali e cognitive ciò comporta? L’uso eccessivo della tecnologia digitale può interrompere le interazioni tra genitori e figli a tutte le età, un fenomeno chiamato tecnoferenza. In particolare la tecnoferenza genitoriale ha un impatto profondo e duraturo sulla psiche dei figli con conseguenze che si protraggono nella vita adulta. Grande la sensibilità dei neonati e dei bambini dagli 1 ai 5 anni se esposti a genitori che trascorrono più di 5 ore al giorno sul loro smartphone e, per il 27% del tempo trascorso con il loro bambino, sono impegnati con il loro dispositivo digitale.

Nella prima infanzia la tecnoferenza genitoriale è associata a diminuzione del coinvolgimento genitore-figlio, a ridotta capacità di notare e soddisfare i bisogni del gioco congiunto, a turni di conversazione meno frequenti e a qualità di risposte più negative al comportamento dei bambini. Quando i bisogni emotivi e fisici dei bambini vengono costantemente ignorati, o quando si risponde in maniera inappropriata, aumentano i rischi di sviluppare patologie come depressione, ansia, iperattività e disattenzione. Genitori sottoposti a notifiche eccessive, all’uso dei social network, al controllo degli smartphone, alla paura di perdere qualcosa di importante (FOMO, fear of missing out) o che guardano il telefono mentre parlano con i figli, riducono la qualità delle interazioni facendo percepire ai bambini un interesse minore nei loro confronti. Inoltre l’eccessiva delega a tablet-smartphone e TV come baby sitter riduce ulteriormente il tempo di qualità.

La percezione da parte del bambino di una mancanza di attenzione facilita lo sviluppo di sentimenti di insicurezza e svalutazione, favorendo l’imitazione dell’uso compulsivo della tecnologia dei genitori. Sugli adolescenti i dati sono più consistenti, tanto da far dire all’autorità sanitaria USA che la crisi della salute mentale tra i giovani è un problema urgente, e i social media hanno avuto un peso importante in negativo: quando si trascorrono più di 3 ore al giorno sui social media si osserva nei giovani un raddoppio del rischio di sintomi di depressione e di ansia tanto da raccomandare etichette con la scritta, come per i pacchetti di sigarette, «nuoce alla salute». Ai genitori andrebbe ricordato che l’uso di tecnologia in loro presenza nuoce alla salute mentale dei loro bambini e raccomandato di dare esempi positivi perché i «bambini ci guardano».

* Direttore Emerito Neuroscienze Salute Mentale Asst FBF-Sacco, Milano, Co-Presidente Sinpf

Steve Jobs non voleva che i figli usassero i suoi iPhone e iPad: ecco perché

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: 

DATA: 26 febbraio 2016

Steve Jobs ha cambiato il mondo con la sua tecnologia e costruito un impero, ma non voleva che i suoi figli usassero iPod, iPad e iPhone.

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Nella sua casa non amava circondare la sua famiglia di strumenti tecnologici e sottolineava come i figli fossero lontani dal comprendere il funzionamento e le caratteristiche dei dispositivi lanciati di volta in volta sul mercato. "Non li conoscono. Dobbiamo limitare l'uso della tecnologia dentro casa da parte dei nostri bambini", diceva in un intervista al New York Times del 2010 l'amministratore delegato e fondatore di Apple dopo il lancio del primo iPad. 

Un approccio protettivo che lo accomunava ad altri guru della tecnologia. Chris Anderson, ex direttore del magazine Wired e coofondatore di Robotica 3D, ha dichiarato: "Conosco i pericoli della tecnologia, li ho vissuti sulla mia pelle e non voglio che accada lo stesso ai miei figli".
Lo stesso per Evan Williams, fondatore di Twitter, e sua moglie Sara Williams che hanno circondato i figli di libri e non di tecnologia. Tutto dipende dall'età: è necessario che non siano dipendenti e che un po' più grandi conoscano dei limiti nel loro utilizzo. 

Senza intelligenza emotiva non si può insegnare

AUTORE: Umberto Galimberti

DATA: agosto 2019

Galimberti: “I Docenti Dovrebbero Essere Assunti in Base all’Intelligenza Emotiva, Senza di Essa Non si Può Insegnare”

Dall’incontro “Educazione emozionale a scuola: il metodo RULER”, che si è tenuto alla fiera Didacta a Firenze è emerso che la scuola italiana si occupa poco dell’intelligenza emotiva, nonostante questa sia ormai universalmente riconosciuta come componente fondamentale nello sviluppo della psiche umana. A parlare di questo argomento sono intervenuti la dottoressa Laura Artusio e il professor Umberto Galimberti.

La dottoressa Artusio ha presentato il metodo RULER di educazione socio-emozionale (SEL). Questo metodo sviluppato presso la Yale University è stato adattato al diverso contesto italiano. Si rivolge a tutto il corpo docenti e mira a sviluppare modalità didattiche alternative che abbiano lo scopo di stimolare l’intelligenza emotiva degli studenti. Cinque sono le abilità chiave dell’intelligenza emotiva : il riconoscimento, la comprensione, il vocabolario emozionale, l’espressione e le strategie di gestione delle proprie emozioni.

Il professor Galimberti ha sottolineato quanto i genitori, oberati dal lavoro o da altre occupazioni, spesso trascurano questo tipo di apprendimento: “Oggi troppo spesso l’apporto genitoriale è fallimentare, i genitori non hanno più tempo di rispondere alle domande filosofiche dei bambini, ai loro mille perché, e spesso le parole mancate vengono sostituite da montagne di giocattoli”.

Questa mancanza, spiega il professore, produce due effetti negativi importanti: un analfabetismo affettivo diffuso e “il rapido appagamento offerto dal giocattolo che impedisce ai bambini di annoiarsi. Quando invece dovrebbero trovarsi in situazioni noiose per elaborare poi, in modo creativo, degli stratagemmi per divertirsi”.

Galimberti ha poi spiegato la differenza tra istruzione, come mera trasmissione di saperi, ed educazione, che permette invece ai bambini di sviluppare la propria personalità: “L’educazione emotiva è ciò che più scarseggia nel sistema scolastico italiano, quando un ragazzo rimane impantanato nello stadio pulsionale il rischio è che sviluppi forme di violenza e bullismo. La pulsione non si esprime in parole, ma solo in gesti e azioni”. Il professore spiega poi come migliorare questa situazione: “Innanzitutto limitando il numero di alunni per classe, fino a un massimo di quindici studenti; ma soprattutto ci vorrebbe una formazione specifica per i professori, che dovrebbero essere scelti anche in base a criteri emotivi e non solo conoscitivi. Se una persona non è empatica e coinvolgente non può fare il professore. È qualcosa che non si può imparare”.

Non manca poi il dissenso totale di Galimberti per l’uso spropositato di strumentazioni tecnologiche e lavagne elettroniche nella scuola italiana: “Dovrebbe essere strapiena di letteratura, soprattutto di romanzi, che permettono di definire le proprie emozioni immedesimandosi nella vita degli altri. Il razzismo nasce proprio dall’incapacità di riconoscersi nell’altro, e su questo dobbiamo intervenire oggi più che mai”.

L’era della digitalizzazione e la formazione che serve

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Mauro Magatti

DATA: 2 gennaio 2019

L’alternativa è questa: o si fanno crescere le persone oppure si va incontro a una spirale economicamente e politicamente regressiva

La grande assente nella legge finanziaria del governo del cambiamento è l’attenzione per il tema della formazione, della scuola, della ricerca: nel testo finale si trovano solo piccoli aggiustamenti per mantenere la pace sindacale e qualche intervento isolato più o meno condivisibile. Ma nessuna azione strategica di rilancio. Eppure, l’avanzata della digitalizzazione renderebbe urgente una scelta di campo ben precisa: scommettere sulla qualità umana delle persone come condizione per potere entrare nel futuro.

Per capire la posta in gioco è utile fare un passo indietro. Risale a un secolo fa, esattamente al 1911, la prima pubblicazione del celebre libro di F. Taylor L’organizzazione scientifica del lavoro: un testo che rivoluzionò l’idea stessa di produzione industriale. Taylor proponeva infatti una idea completamente nuova del lavoro in fabbrica. Concependo l’intera catena produttiva come un sistema integrato — nel quale il «nemico» da combattere era l’esecuzione sbagliata di operazioni da parte dei singoli operai — Taylor intuì i vantaggi in termini di efficienza di una progettazione centralizzata della produzione. L’idea di Taylor — che pure provocò molte resistenze in quanto obbligava a eseguire procedure standardizzate, parcellizzate e ripetitive — riuscì ad affermarsi perché procurava vantaggi tanto agli imprenditori quanto agli operai: ai primi aumentando i profitti, ai secondo riducendo lo sforzo e alla fine determinando aumenti salariali. Tuttavia, le implicazioni superarono di gran lunga i cancelli dalle fabbriche: sui principi di Taylor venne poi concepita la catena di montaggio — immortalata da C. Chaplin in «Tempi Moderni» — che tendeva a creare un nuovo tipo d’uomo a cui si chiedeva di rinunciare alla propria autonomia e capacità di giudizio. Secondo molto autori, tra cui Zygmunt Bauman, precondizione per l’avvento dei totalitarismi degli anni 30.

Ci vollero vent’anni per arrivare, nel 1933, alla pubblicazione del libro di Elton Mayo, I problemi umani della civiltà industriale, fondatore della «scuola delle risorse umane» che ribaltava la concezione di Taylor. Le tesi di Mayo si basavano su studi che mostravano che la partecipazione attiva, aumentando la soddisfazione del lavoratore, migliorava la produttività. La ragione doveva essere cercata, secondo Mayo, nel fatto che la prestazione lavorativa è connessa al benessere psicologico dell’individuo, alle dinamiche di riconoscimento sociale e al senso di appartenenza a una comunità di lavoro. Sono le persone il vero «capitale» dell’impresa e per questo, anche in una prospettiva di tipo economico, è un errore sacrificare l’intelligenza dei lavoratori.

Un secolo dopo, il processo di digitalizzazione, riporta alla ribalta quella discussione. Mentre, però, Taylor e Mayo ragionavano di singola impresa, oggi lo stesso tema si applica a livello di intere società: da un lato, c’è una visione neo-taylorista che si limita a esaltare la potenza di efficientamento delle nuove tecnologie nei diversi ambiti della nostra vita sociale: non solo nelle produzione di beni ma anche nella mobilità, nella sanità, nella scuola, nella ricerca, nella amministrazione. In tale prospettiva, il miglioramento dei risultati si ottiene attraverso la diffusione di protocolli semplificati e addestrando gli operatori/utenti a eseguire senza pensare, in modo da rendere l’intero processo più fluido. Quante volte, già oggi, siamo caldamente invitati — come lavoratori o consumatori — a «seguire la procedura»?

Per questa strada, però, si finisce per impoverire la società, concentrare il potere, indebolire la democrazia. Creando cittadini-produttori sempre più soli e isolati, incapaci di capire (e quindi criticare) quello che accade attorno. La via alternativa è quella che prevede di investire massicciamente e in maniera nuova sull’educazione e la formazione — continua e integrale — dei cittadini. Con l’obiettivo di sviluppare una intelligenza collettiva che, all’epoca digitale, oltre a permettere di contrastare le potenti tendenze verso forme concentrate e magari anche autoritarie di potere (magari con qualche capacità critica in più nei confronti delle fake news), sostiene e diffonde competenze, capacità, responsabilità autonome. Non si tratta di fare qualche piccolo aggiustamento: si tratta di lanciare un grande programma nazionale di riqualificazione di portata simile a quello che i nostri padri introdussero la scuola dell’obbligo.

L’alternativa è secca: o si investe per far crescere le persone — e con loro la comunità — o si finisce per ritrovarsi imprigionati in una spirale economicamente e politicamente regressiva. E questa scelta va fatta adesso, perché tra 5 o 10 anni sarà tardi. Ora, se guardiamo l’Italia le cose non vanno per nulla bene. Pochi laureati, un esercito di drop out e neet (giovani che non studiano e non lavorano), scarsa integrazione scuola-impresa, investimenti inadeguati in ricerca e formazione continua. Mettere davvero la formazione al centro di ogni azione di governo sarebbe stato un segnale forte della volontà di un cambiamento vero. Chi non lo fa, dice già dove — dolosamente o colposamente — ci sta portando: verso un mondo impoverito, sottomesso e disuguale.

Tecnologia e bambini: 10 consigli (più uno) per usarla bene

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Elena Meli

DATA: 11 marzo 2018

Tecnologia e bambini: 10 consigli (più uno) per usarla bene

Inutile pensare di impedire ai bambini l’uso di tablet, smartphone o televisione: meglio conoscere i rischi possibili e soprattutto sapere come ridurli attraverso un utilizzo appropriato. Il Centro per la Salute del Bambino Onlus di Trieste ha stilato utili linee guida per i genitori di bimbi e ragazzi da zero a 14 anni. «È importante suscitare l’interesse dei bambini per altre attività e dimensioni della vita e delle relazioni: se fin da piccolo diamo al bimbo l’opportunità di conoscere e apprezzare altro, saprà usare le nuove tecnologie senza esserne sopraffatto», è il primo consiglio di Giorgio Tamburlini, pediatra e presidente del Centro.

1 di 12 I rischi che si corrono: il corpo

Uno dei principali pericoli per la salute dei bambini che usano troppo (e male) i dispositivi digitali è passare troppo tempo quasi completamente immobili e in posizioni scorrette. Questo riduce l’attività fisica, favorendo la comparsa di sovrappeso, obesità e delle malattie che a queste si associano (dalle patologie cardiovascolari al diabete), oltre a comportare problemi di postura.

LEGGI LE ALTRE SCHEDE SUL CORRIERE

https://www.corriere.it/salute/pediatria/cards/tecnologie-digitali-bambini-10-consigli-piu-uno-usarle-bene/i-rischi-che-si-corrono-corpo_principale.shtml

2 I pericoli per la mente

3 La «iGobba»

4 Gli occhiali da cellulare

5 Attenti ai videogiochi

6 Tablet e cellulari, mai di notte

7 No alla babysitter digitale!

8 Persi fra le app

9 Internet, istruzioni per l'uso

10 I pericoli del web

11 E infine... non dimentichiamo la tv

 

Eccessivo fervore per la tecnologia

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 19 maggio 2017

Da molti anni i test d’ingresso delle superiori dimostrano che il 70% dei ragazzi ha competenze linguistiche scarse.

Qualche anno fa il MIUR ha condotto uno studio scientifico sugli elaborati di lingua italiana degli studenti della maturità ed ha rilevato che il 75% di loro non sa scrivere bene; anzi, scrive male.

In un paese normale la logica conseguenza di quanto appena detto sarebbe stata un’indagine sull’insegnamento della lingua italiana dai sei ai quattordici anni, con qualche conseguenza significativa per cambiare qualcosa che evidentemente non va.

Invece nella scuola italiana c’è soprattutto un gran fervore sull’argomento tecnologia, sempre più presente nei collegi docenti e nei pensieri del Miur. Sembra che grazie ad essa il futuro sarà radioso per tutti.

Ma è proprio così?

L’ultimo rapporto OCSE, settembre 2015,  Students, Computer and Learning, dice, in pratica, che i paesi che hanno fatto grandi investimenti nelle dotazioni tecnologiche delle loro scuole non hanno risultati apprezzabili nelle performance in lettura, matematica o scienze. E la tecnologia non ha avuto neanche effetti rilevanti per quanto riguarda l’inclusione e nel recupero degli studenti più poveri e disagiati.  

“Technology can amplify great teaching but great technology cannot replace poor teaching”.

Paesi che hanno un uso più capillare del digitale a scuola hanno visto addirittura un peggioramento nelle capacità di lettura.

La scuola digitale quindi non mantiene fede alle promesse della tecnologia.

Anche se, sempre l’Ocse, non c'è dubbio che le competenze digitali rappresentino un elemento fondamentale per l'inclusione in una società in cui la tecnologia è sempre più pervasiva.

Quindi – è il consiglio dell'Ocse – bisogna investire ancora di più nell'istruzione e nella didattica: la tecnologia non è efficace se utilizzata in maniera sostitutiva rispetto alla didattica. Riempire le aule di computer, insomma, risulta alla fine di scarsa utilità.

Ricordiamo la recente lettera aperta di 600 docenti universitari al Presidente del Consiglio, alla Ministra dell'Istruzione e al Parlamento italiano, promossa dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità. «È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana».

E non dimentichiamoci una frase di Socrate, che diceva più o meno così: “Se soffre la grammatica soffre l’anima”.

Infine, un barlume di speranza: l’iniziativa della ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, febbraio 2017, di “promuovere nelle scuole una riflessione su come migliorare la conoscenza della lingua italiana, che è alla base del nostro sentirci una comunità”. Anche poiché la conoscenza della lingua italiana è propedeutica a tutti gli altri apprendimenti.

Certo, al fine di migliorare tale conoscenza non aiuta il fatto che in tante scuole primarie italiane è previsto che allo studio della lingua italiana siano dedicate sole sei delle quaranta ore che i bambini settimanalmente passano a scuola.

Incredibile, ma vero.

Tecnologie digitali e bambini, 10 consigli (più uno) per usarle bene

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Elena Meli

DATA: 5 aprile 2017

Inutile pensare di impedire ai bambini l’uso di tablet, smartphone o televisione: meglio conoscere i rischi possibili e soprattutto sapere come ridurli attraverso un utilizzo appropriato. Il Centro per la Salute del Bambino Onlus di Trieste ha stilato utili linee guida per i genitori di bimbi e ragazzi da zero a 14 anni. «È importante suscitare l’interesse dei bambini per altre attività e dimensioni della vita e delle relazioni: se fin da piccolo diamo al bimbo l’opportunità di conoscere e apprezzare altro, saprà usare le nuove tecnologie senza esserne sopraffatto», è il primo consiglio di Giorgio Tamburlini, pediatra e presidente del Centro.

I rischi che si corrono: il corpo

Uno dei principali pericoli per la salute dei bambini che usano troppo (e male) i dispositivi digitali è passare troppo tempo quasi completamente immobili e in posizioni scorrette. Questo riduce l’attività fisica, favorendo la comparsa di sovrappeso, obesità e delle malattie che a queste si associano (dalle patologie cardiovascolari al diabete), oltre a comportare problemi di postura.

GLI ALTRI 10 CONSIGLI CLICCANDO SUL LINK DEL CORRIERE

Allarme bimbi in età prescolare: 4 ore al giorno davanti a uno schermo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Emanuela Di Pasqua

DATA: 18 novembre 2016

L’addiction comincia presto e più è precoce più è difficile da gestire in futuro. Dati Ofcom: britannici sotto i 5 anni stanno una media di 71 minuti al giorno anche online

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L’ultimo censimento britannico targato Ofcom sul rapporto tra giovanissimi e strumenti digitali è un vero e proprio segnale d’allarme. Emerge infatti una generazione di bimbi under 5 che già così giovani trascorrono quattro ore giornaliere incollati davanti a uno schermo (sia esso della tv, del pc, del tablet o dell’iPad) e più di un’ora online. Che diventeranno poi 5 e 33 minuti nel segmento anagrafico dai 5 ai 15 anni, con conseguenti difficoltà crescenti da parte dei genitori ad arginare e limitare il fenomeno.  

Come educare i bambini ad adottare uno stile di vita sano

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Non dite loro di «pulire» il piatto

Dipendenza e tempo rubato ad altro

Gli esperti li chiamano già “addicted” poiché questi strumenti, benché spesso introdotti nelle loro vite a scopi educativi e ludici, creano dipendenza. Senza contare che questo eccesso di tempo impiegato online o con il device del cuore toglie tempo prezioso al gioco, all’aria aperta, ai rapporti sociali. Tutti discorsi già sentiti, ma sorretti da dati sempre più allarmanti. Solo in un anno infatti i minuti trascorsi in rete sono aumentati di 13 unità ed è sempre più numerosa la percentuale di bimbi in età pre-scolare che possiede già uno strumento tecnologico. A 3/4 anni più della metà dei piccoli censiti usa un tablet ed entro i 6 più della metà ne possiede uno. A 10 anni mediamente possiedono un cellulare e le conseguenze di questa precocità si fanno sentire su tutti i piani. L’obesità è una di queste, essendo direttamente collegata alla vita sedentaria e tecnologica. Ma c’è anche l’isolamento sociale, risultato di una tendenza crescente a sostituire i rapporti sociali con i contatti in rete, e la perdita graduale di empatia con le persone. E poi ci sono tutti i sintomi di una dipendenza, quali la passività, l’alienazione, l’incapacità di concentrarsi su un obiettivo.

Non solo in Cina

Gli internet assuefatti insomma non sono solo in Cina, dove quei 24 milioni di ragazzi dipendenti da Internet fanno discutere da tempo. Per disintossicarli il governo di Pechino, pioniere nel gestire questo tipo di problematiche, li spedisce in basi a struttura militare dove sperimentano la disciplina e imparano a gestire e controllare una droga che scolla dalla realtà, chiamata anche eroina digitale o, in mandarino, wangyin (dipendenza dalla Rete). Ma le notizie che arrivano da lontano sembrano sempre, appunto, lontane. Questi dati ci dimostrano invece che la direzione delle società occidentali è la stessa e che il problema sociale sta emergendo anche qui da noi in modo crescente. In nome dell’alfabetizzazione informatica i bambini vengono avvicinati alla tecnologia troppo presto e in modo poco curato, e soprattutto i device vanno a sostituire esperienze fondamentali e imprescindibili per la crescita. Bisogna sempre ricordare l’importanza dell’imprinting: il meccanismo diventa nel tempo quasi impossibile da riconvertire, tanto che 41 genitori su 100 non sanno come controllare il tempo dei figli davanti allo schermo quando si ritrovano con degli adolescenti. Il segreto è pensarci prima, perché dopo è veramente troppo tardi.

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Con Abcd i bimbi autistici apprendono giocando

FONTE: Marina Buzzi , Istituto di informatica e telematica, Pisa, tel. 050/3152631, email marina.buzzi@iit.cnr.it

AUTORE: Anna Maria Carchidi

DATA: novembre 2016

Negli ultimi anni si è registrato un aumento di diagnosi di sindromi dello spettro autistico in tutto il mondo, fondamentale è un intervento tempestivo e attuato con strumenti mirati. "I bambini autistici hanno bisogno di metodologie di insegnamento diverse in quanto bisogna rendere comprensibili i compiti che vengono loro assegnati per facilitarne l'esecuzione", spiega Marina Buzzi dell'Istituto di informatica e telematica (Iit) del Cnr. "Gli studi dimostrano come un aiuto sin dai primi anni di vita porti a un risultato migliore rispetto a un intervento tardivo e non strutturato, probabilmente a causa della duttilità delle strutture cerebrali".

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Dai dati dell'Istituto superiore di sanità relativi al 2010-2011 sul Piemonte e l'Emilia Romagna, emerge una prevalenza della sindrome nella popolazione dai 6 ai 10 anni. Inoltre, l'incidenza maschile è di circa quattro volte superiore rispetto a quella femminile. "Quando si ha un caso di autismo a basso funzionamento, cioè quando è presente un deficit di attenzione e/o di comunicazione risulta efficace una terapia intensiva uno a uno personalizzata e monitorata nel tempo”, continua la ricercatrice. “Questo approccio prende il nome di Aba (Applied Behaviour Analysis), è effettuata da personale specializzato, con insegnamenti a 360 gradi (competenze scolastiche, comportamenti adeguati al contesto, linguaggio, interazione sociale, etc.) e prevede il coinvolgimento attivo di genitori e insegnanti. Da questa premessa nasce il software Abcd (Autistic Behavior & Ccomputer-based Didactic), un'applicazione che permette di utilizzare l'intervento Aba su strumenti elettronici, come portatili, tablet e cellulari. È necessaria una connessione internet in quanto le immagini degli esercizi e i dati di registrazione sono depositati in un server centrale; inoltre, l'interfaccia del bambino e quella del tutor sono tenute separate: è il tutor che avvia l'esercizio dal suo dispositivo, facendo sì che attraverso la rete si sincronizzi con il dispositivo utilizzato dal bambino".

È stata già fatta una sperimentazione nelle scuole di Lucca e Capannori dove, per un intero anno scolastico, sette bambini hanno ricevuto un intervento Aba, utilizzando la app nel secondo quadrimestre. “I bambini hanno lavorato da un iPad, dimostrando un miglioramento nelle aree della comunicazione e socializzazione”, precisa Buzzi. “Si parte con una prima fase di apprendimento nella quale, poiché non deve commettere errori, il bambino riceve un aiuto completo che viene progressivamente sfumato, finché non arriva a effettuare una prova indipendente e con successo: a quel punto riceve un premio, per esempio può utilizzare un gioco a lui particolarmente gradito”.

Ma non tutti i casi di autismo sono uguali, quindi la app può essere tarata. "Abcd si adatta alle abilità del bambino tramite una configurazione che prevede età, recettività e capacità espressive. I livelli aumentano a poco a poco e il bambino impara attraverso semplici prove ripetute e distinte”, conclude la studiosa. “L'applicazione è stata progettata per bambini piccoli, ma anche i più grandi possono usarla con buoni risultati. Grazie alla registrazione automatica dei dati da parte di Abcd e l'inserimento dei dati soggettivi da parte del tutor Aba, come per esempio il livello di aiuto fornito, si possono valutare i progressi o riscontrare i problemi in atto, permettendo al personale specializzato di mettere a punto un intervento ad hoc".

Il progetto Abcd nasce da una partnership tra Iit e Istituto di scienza e tecnologie dell'informazione 'A. Faedo' del Cnr e Università di Pisa, in collaborazione con l'Istituto di fisiologia clinica del Cnr per l'analisi dei dati ed è stato finanziato dalla Regione Toscana, con un contributo di Registro.it.

I ragazzini e la tecnologia: «Hanno in mano una Ferrari, ma non sanno dove andare»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Laura Cuppini

DATA: 27 luglio 2016

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Estate non vuol dire solo vacanze. Per i genitori che lavorano significa anche inventarsi qualcosa perché i figli non patiscano la noia, la solitudine e (per quanto possibile) il caldo afoso. I centri estivi – delle scuole o privati – possono essere una soluzione, ma il venir meno delle abitudini invernali, inclusa la frequentazione dei compagni di classe e degli amici del quartiere, può favorire un fenomeno che negli ultimi anni sta crescendo a dismisura: l’uso di strumenti tecnologici (tablet e smartphone), videogiochi, social network fin dalla più tenera età e senza regole né di orario, né di contenuto.

Una questione che rischia di essere affrontata in modo ideologico, ovvero con i genitori più «tradizionali» da una parte (che organizzano per i figli giornate al museo, attività creative, sport, vietando o limitando le tecnologie) e quelli «smanettoni» che passano, loro per primi, molto tempo attaccati allo smartphone (giocando, chattando, sui social) e dunque non vedono motivo di negare tale possibilità ai propri bambini.

Per superare questa contrapposizione, che di certo non porta a nulla (soprattutto se un genitore la pensa in un modo e il marito/moglie all’opposto), c’è chi ha pensato di stilare delle regole – pratiche e facili – per fare in modo che l’estate non si traduca in un’immersione libera (e potenzialmente pericolosa) nel mondo virtuale, ma sia un’occasione – grazie anche al maggior tempo che si trascorre con i figli – per dare e darsi delle norme di comportamento, mettere in guardia sui rischi, far sì che lo stare «connessi» sia più costruttivo possibile e adeguato all’età del bambino. Perché anche solo far finta che il problema non esista è impossibile. E quei genitori che pensano «la cosa non mi riguarda, mio figlio non è interessato a quelle cose», potrebbero scontrarsi con il problema l’anno successivo.

Il vademecum è stato messo a punto da Pepita Onlus (cooperativa sociale impegnata in interventi educativi e sociali, percorsi di formazione e attività di animazione che opera in tutta Italia, con due sedi a Milano e a Bari), in collaborazione conRadiomamma, sito milanese di informazioni e servizi «family friendly».

«Durante i nostri incontri parliamo a bambini e ragazzini dai 9 anni in su, che usano abitualmente gli strumenti tecnologici – spiega Ivano Zoppi, presidente di Pepita Onlus -. Ciò che più colpisce è il loro grado di inconsapevolezza: sono persone che hanno in mano una Ferrari e la sanno guidare benissimo (meglio di noi adulti), ma non sanno assolutamente che strada devono fare, non hanno riferimenti. Fin da piccoli usano tante app, postano foto e video e sono del tutto ignari dei rischi, del fatto di poter fare del male a se stessi o agli altri. Per questo dico che il vero problema da affrontare non è il cyberbullismo (che è solo una conseguenza estrema), ma la quotidianità di questi ragazzi. I nostri figli, al contrario di noi, non hanno visto un mondo senza cellulari, smartphone e tablet; quando sono nati queste cose esistevano già, non concepiscono le proprie vite senza tali strumenti e non ne hanno alcuna paura. Per darsi un appuntamento si mandano un messaggio su WhatsApp anche se magari sono sotto casa dell’amico e potrebbero benissimo usare il citofono. Bisogna partire da qui. Durante gli incontri alcuni di loro mi dicono che se postano una foto che non riceve abbastanza “like”, dopo un po’ la tolgono. Come dire: solo ciò che pubblico online esiste, è oggetto di affermazione sociale (se riceve i giusti apprezzamenti). È una questione di autostima e di riconoscimento della propria identità. Per questo dico loro: ognuno di voi è un’opera d’arte, unica e irripetibile, dovete averne cura».

Le reazioni che Zoppi vede nei bambini e ragazzi che incontra sono positive: «Se sentono che l’adulto ascolta il loro vissuto e tenta di indicargli una strada, accettano di stare al gioco. Da parte nostra, seguiamo i gruppi nel tempo per capire se ci sono stati cambiamenti nel rapporto con le tecnologie e quali. Non basta dire le cose una volta e poi sparire, qui parliamo di continuità educativa. Per questo organizziamo incontri anche con genitori, insegnanti e allenatori sportivi, ovvero tutti coloro che hanno un ruolo nella crescita degli adulti di domani».

Ecco dunque cosa devono sapere i genitori che vogliono essere attenti (e consapevoli).

Innanzitutto – spiegano gli esperti – è importante che gli adulti visualizzino i rischi cui i ragazzi possono andare incontro usando in particolare i social network (Instagram, WhatsApp, Snapchat, Ask.fm, Facebook sono i più diffusi).

Cosa potrebbero vedere o fare:
• eccessiva condivisione di informazioni personali;
• visionare o condividere contenuti violenti o non appropriati;
• essere coinvolti più o meno consapevolmente in comportamenti inappropriati;
• recepire informazioni non veritiere, non verificate;
• creare una reputazione digitale che potrebbe creare problemi in futuro (condivisione di contenuti inappropriati).

Chi potrebbero incontrare:
• bulli o persone che vogliono intimidire, insultare;
• persone con profili falsi che hanno intenzione di fare stalking, estorsioni, furto di identità o di informazioni personali, adescamento.

Quali reazioni potrebbero derivare:
• paura di essere tagliati fuori e quindi eccessiva esposizione/utilizzo;
• insicurezza su come comportarsi in relazione a contenuti inappropriati, offensivi;
• tenere comportamenti rischiosi o essere spinti a farlo;
• sviluppare idee distorte rispetto alla propria immagine, alla percezione del proprio corpo.

Quindi i consigli pratici per mamma e papà (e anche nonni, insegnanti, educatori):

  1. favorite il dialogo e il confrontocon i ragazzi rispetto all’utilizzo dei social. Cercate di spiegare loro quali sono le opportunità e le potenzialità della Rete, ma anche a quali rischi potrebbero andare incontro. Invitateli a confrontarsi con voi o con altri adulti di riferimento nel caso dovessero imbattersi in contenuti inappropriati o persone insistenti, che chiedono informazioni troppo personali;
  2. verificate le impostazioni della privacysui social. Rendeteli consapevoli sui dati personali che non devono essere condivisi. Meno dati personali si condividono in Rete e meglio è. Sconsigliate l’utilizzo della geolocalizzazione (è una funzione degli smartphone che permette di comunicare la propria posizione in qualunque momento). Questa funzione può essere utile (in certe applicazioni permette di ricevere informazioni immediate rispetto a un luogo da visitare o a un locale da frequentare) e divertente (per far sapere ai tuoi amici dove ti trovi, se sei in vacanza o nelle vicinanze), ma non è sempre una buona idea far sapere a tutti il luogo in cui ci si trova;
  3. spiegate il potere delle parole. Chiarite con loro quale comportamento vi aspettate da loro nell’utilizzo dei social network. È importante farli riflettere: prima di scrivere/postare/condividere qualcosa in Ret occorre che si fermino e pensino a quali potrebbero essere le conseguenze di quello che stanno per inviare (sto scrivendo qualcosa che potrebbe offendere o disturbare qualcuno? È un contenuto imbarazzante?);
  4. monitorate le foto che postano online. Occorre far capire loro che ogni dato che viene pubblicato in Rete è «perso», non è più solo nostro. È fondamentale far capire questo valore soprattutto per la condivisione delle immagini e dei selfie. Bisogna spiegare ai ragazzi che la propria identità va protetta e custodita con cura;
  5. parlate loro della reputazione digitale. Quello che pubblicano oggi rimane sulla Rete per sempre. Prima di condividere/postare è quindi necessario riflettere sulle conseguenze di quello che si fa, non solo a breve ma anche e soprattutto a lungo termine. Sempre più spesso, per esempio, chi si occupa di selezione del personale fa riferimento alle ricerche su internet per ottenere informazioni su di noi;
  6. siate informati sui social networkpiù diffusi. Partecipate alla vita digitale dei figli;
  7. siate un buon esempio. Se chiedete loro un utilizzo responsabile dei social network e degli smartphone, sappiate essere voi prima di tutto responsabili;
  8. provate a concretizzare questi consigliin una serie di regole condivise su smartphone e social network: le password devono essere conosciute anche da voi (non è necessario accedere davvero, ma è bene che i ragazzi sappiano che potete farlo); definite gli orari in cui stare connessi non è necessario (per esempio, dopo un certo orario alla sera); definite i momenti in cui lo smartphone può stare in un luogo distante da voi e da loro (per esempio durante i pasti).

In conclusione, secondo Pepita Onlus e Radiomamma, «i social media (ovvero le applicazioni che permettono di creare e scambiare contenuti sul web) sono preziosi strumenti di comunicazione che possono trasformarsi in armi se non vengono utilizzati con attenzione e consapevolezza. Educare i nostri figli a riflettere prima di postare o condividere pensieri e immagini, fa la differenza: occorre essere informati, tenersi al passo con loro, interagire e mostrare interessamento quando hanno qualcosa da raccontarci. Fondamentale è non perdere mai il contatto con loro».

E questo è un consiglio prezioso, che vale per ogni aspetto della vita (anche quelli non digitali).