Pietro Bordo al convegno “Le radici del futuro”, Camera dei Deputati. Presente il ministro della pubblica istruzione e del merito, Giuseppe Valditara

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AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 9 aprile 2025

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L’8 aprile 2025 alla Camera dei Deputati, Sala Tatarella, si è tenuto il convegno “Le radici del futuro”, con la presenza del ministro della pubblica istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, con il quale ho avuto l’onore di parlare in privato.

Ho avuto la possibilità di tenere un intervento, al cui video porta il seguente link

Erano presenti anche l’on.le Paola Frassinetti, sottosegretario di stato del Ministero della Pubblica Istruzione e del Merito; alcuni senatori e deputati di FdI; docenti, dirigenti ed esponenti di alto livello del mondo della scuola e della cultura.

Hanno partecipato anche i coordinatori della commissione tecnica ministeriale che ha scritto le “Nuove Indicazioni Nazionali per la Scuola”.

La Presidente della commissione tecnica ministeriale mi ha chiesto il testo del mio intervento; ed il Ministro il biglietto da visita...

Il poco tempo che ho avuto a disposizione mi ha costretto a parlare velocemente. Per questo motivo, consiglio di visualizzare i sottotitoli.

 

Testo dell’intervento

Grazie al sottosegretario Paola Frassinetti per aver organizzato questo incontro. Grazie al Governo per le nuove indicazioni nazionali, grazie a chi le ha scritte.

Ho insegnato per quarantasette anni in ogni tipo di scuola primaria esistente in Italia: parificata, privata, paritaria, pubblica.

Ho studiato tutto il testo, un gran bel lavoro.

Velocemente… benissimo per le materie orali, ho trovato le tabelline, i riassunti… che bello.

Arte ed immagine: bellissime parole, ma fra gli obiettivi io avrei evidenziato con parole inequivocabili il più importante: portare il bambino a sapersi difendere dalla pubblicità, intesa in senso lato. Anche da chi subdolamente ti vuol imporre le proprie opinioni.

Di getto mi è venuto da dire che voi ingegneri coordinatori avete migliorato moltissimo l’automobile: la carrozzeria, i sedili, il confort, il colore. Ma, da meccanico, da autista, vedo che non avete pensato molto al motore: l’auto da voi indicata invece che a passo d’uomo, come va oggi, dopo il vostro intervento potrebbe andare come una bicicletta. L’energia ottimale che serve per farla correre come una Ferrari pochissimi la usano. Questa energia, la più potente dell’universo è l’amore; con i suoi derivati.

Il carburante che serve per far andare veloce una macchina così importante sono le relazioni umane, personali, in tutte le direzioni, fra il bambino, i docenti ed i genitori. Che oggi sono affidate all’iniziativa individuale e improvvisatrice di pochissimi docenti.

Ciò che ho letto fino a pag. 13 della bozza è tutto un sogno: non accade quasi mai. Non ipotizzo, non immagino: ho un universo di riferimento di centinaia di colleghe della pubblica che venivano da tante scuole nelle mie e di centinaia di genitori, sia della privata che della pubblica. Universo esplorato per quarantasette anni, scusate, con successo documentabile. Mi chiedono periodicamente incontri i miei alunni di tutte le età, gli ultimi vicini ai cinquant’anni.

Di seguito i sogni (non ci sono nel video):

1-…la scuola accompagna bambini e adolescenti, sin dalla scuola dell’infanzia, a capire chi sono, da dove vengono…

2-… esso può esplicarsi con efficacia solo grazie all’indispensabile alleanza con le

famiglie che svolgono un ruolo complementare a quello della scuola…

3-…scuola e famiglia costituiscono, in ragione delle grandi valenze educative e affettive l’una e per l’azione sistematica e intenzionale di istruzione l’altra…, le due colonne portanti del percorso di apprendimento di bambini e adolescenti…

Tutto un sogno, non accade quasi mai ed infatti oggi il palazzo crolla (tanta violenza, tutti i giorni) perché le due colonne, famiglia e scuola, quando va bene si ignorano, quando va male, frequentemente, sono in conflitto.

Le relazioni umane per svilupparsi necessitano di contatti personali. Fra gli obiettivi dei docenti deve esserci l’impegno a realizzare una relazione almeno buona con i genitori e significativa con tutti gli alunni, fatta non solo di insegnamenti ed informazioni.

Il bambino deve capire che è accolto, accettato, amato a prescindere da qualsiasi altra considerazione

Allora il ragazzo darà il meglio di sé. Con me è sempre successo. Tutto ciò in stretta collaborazione con i genitori, con effetto sinergico sempre constatato. Ed accade ad altri docenti, pochissimi.

Il tutto si potrebbe realizzare, più o meno bene, prevedendo, nelle linee guida, un tempo scolastico da dedicare ai colloqui individuali dei docenti con gli alunni e con i genitori. Gli ultimi anni ai colloqui con i genitori io e le mie colleghe, eravamo almeno in sei, avevamo sette minuti per ogni famiglia. Ridicolo. Ma i miei colloqui individuali con ogni bambino non sono mai mancati: uscivo dall’aula approfittando della presenza dell’insegnante di sostegno.

Pag. 38: …scopo primario della scuola è insegnare a leggere, a comprendere, e a scrivere in modo corretto.

Le prove Invalsi testimoniano le carenze degli alunni, soprattutto in lingua italiana, che ha una funzione propedeutica per tutti gli apprendimenti e per lo sviluppo ottimale delle funzioni intellettive, del pensiero.

Le docenti di italiano delle superiori dicono che il 75% degli studenti che escono dalle medie hanno competenze linguistiche insufficienti o scarse.

Non c’è da stupirsi: oltre alle carenze di relazioni umane di cui ho detto prima, alla primaria nelle quaranta ore settimanali del tempo pieno le ore dedicate a lingua italiana sono sei. Sì, sei. Fa ridere; anzi, piangere. Ho provato per anni a cambiare, impossibile, dicevano le varie presidi.  Devono dirlo le indicazioni nazionali: almeno dieci-dodici ore settimanali.

Immagino numeri simili alle medie.

Riassumo. Il vostro obiettivo è migliorare la scuola italiana. E migliorerà con le ottime nuove indicazioni nazionali. Ma l’efficacia del vostro lavoro potrebbe essere infinitamente maggiore se sfruttaste l’energia più potente dell’universo: l’amore.

In concreto, se dedicaste attenzione alla metodologia relazionale fra le persone della scuola e deste indicazioni in tal senso, come ho già detto prima; se indicaste un numero minimo adeguato di ore settimanali per italiano, matematica ed inglese.

Aggiungo che buoni rapporti personali tra prof, alunni e famiglie danno un grande aiuto per disinnescare bullismo e violenza a scuola e fuori.

Non è il giorno per parlare della valutazione dei docenti, la madre delle riforme.

Grazie dell’attenzione.

Ocse-Piaac: i laureati italiani sanno meno dei diplomati finlandesi. Un adulto su 3 comprende solo testi brevi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Gianna Fregonara e Orsola Riva

DATA: 10 dicembre 2024

Ennesima doccia fredda, ennesima tempesta in un bicchiere: dall'Invalsi alla rilevazione Ocse-Pisa, non c'è indagine nazionale o internazionale sulle competenze di base da cui non usciamo con le ossa rotte. Segue, in genere, qualche giorno di pianto greco e poi più nulla. Sarà così anche questa volta?

La notizia è questa: un adulto su tre in Italia - e non parliamo solo degli studenti, ma di tutta la popolazione adulta dai 16 ai 65 anni - dispone di capacità linguistiche o matematiche scarse o molto scarse, comunque insufficienti. Può comprendere al massimo testi brevi, dai quali non sia troppo impervio estrarre le necessarie informazioni, ed è in grado di compiere solo operazioni semplici, con numeri interi o decimali, ma già davanti a una proporzione arranca. Per non dire del problem solving, la capacità logica di risolvere questioni complesse: quasi la metà degli adulti è insufficiente. Certo, in generale, c'è chi va peggio di noi - come il Portogallo - ma tutti gli altri vanno meglio (Spagna, Francia e, fuori dall'Europa, gli Stati Uniti) o molto meglio di noi (Germania  e tutto il Nord Europa). Non solo abbiamo pochi laureati ma quei pochi che abbiamo ottengono un punteggio medio inferiore ai finlandesi che si sono fermati alla maturità. Le capacità acquisite a scuola in Italia invecchiano in fretta, più in fretta che negli altri Paesi e i percorsi di formazione continua (il cosiddetto lifelong learning) non è ancora diventato una realtà. Tutto questo restringe le opportunità lavorative dei singoli e rallenta il progresso della società nel suo insieme.

 

La rilevazione Piaac

Sono questi solo alcuni dei dati della nuova rilevazione Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell'Ocse che misura lo stato della popolazione adulta nei Paesi di tutto il mondo. Rispetto alla scorsa edizione i risultati sono lievemente peggiorati, con un aumento del 7 per cento (dal 28 al 35) di coloro che non arrivano al livello sufficiente.  Raggiungere e mantenere un buon livello di compentenze nel leggere, scrivere e far di conto non aiuta soltanto a trovare lavoro (92 per cento di occupazione contro il 60 per cento di chi ha un livello insufficiente) e a guadagnare meglio (oltre 12 euro all'ora di differenza media), ma si traduce anche in un maggior benessere, in una condizione di miglior integrazione nella società e nell’economia del proprio Paese: possedere le adeguate competenze in «literacy», «numeracy» e «problem solving» (sono queste le tre competenze indagate dall'indagine Piaac) è la condizione indispensabile per poter partecipare ai processi legati all’innovazione senza subirli o peggio: senza restare tagliati fuori.

 

L'allarme

Secondo il Piaac - che si è svolto nel 2022-23 su un campione di popolazione tra i 16 e i 65 anni in 31 Paesi e in Italia in particolare con un campione di 4847 adulti, rappresentativi di circa 37,4 milioni di persone -i risultati del nostro Paese sono al di sotto della media Ocse. Se a questo si aggiunge che quasi un adulto su due (40 per cento) ha un'occupazione che non c'entra niente con quello per cui ha studiato e che il 18 per cento è sotto-qualificato per il lavoro che fa (la media Ocse è 9 per cento) e un altro 15 è troppo qualificato (media Ocse 23 per cento) ce ne è abbastanza per lanciare l'allarme.

I risultati degli adulti nel nostro Paese

Per quanto riguarda la «literacy», cioè la capacità di comprendere un testo, un adulto su tre (il 35%) ha ottenuto un punteggio pari o inferiore al livello 1 - la media Ocse è del 26 per cento - il che significa che «è in grado di comprendere testi brevi ed elenchi organizzati, quando le informazioni sono indicate chiaramente, e può individuare informazioni specifiche e identificare collegamenti rilevanti all'interno di un testo» (livello 1) o che «è in grado di comprendere, al massimo, frasi brevi e semplici» (sotto il livello 1). Se invece consideriamo gli adulti che hanno le competenze adeguate (livello 4 o 5 della scala Ocse), in Italia sono solo il 5 per cento contro una media internazionale del 12 per cento.

 

La matematica

Anche in «numeracy», intesa come la capacità di calcolo, un adulto su tre (il 35%) è «low performer», cioè fermo al livello 1 o anche sotto. La media dei Paesi Ocse è invece del 25 per cento. Queste persone sanno soltanto «fare calcoli di base con numeri interi o con il denaro, comprendere i decimali e identificare ed estrarre singole informazioni da tabelle o grafici, ma possono avere difficoltà con compiti che richiedono più passaggi (es. risolvere una proporzione). Quanti sono al di sotto del livello 1 sono in grado di sommare e sottrarre numeri piccoli». Gli «high performer» (livello 4 e 5) in Italia sono soltanto il 6 per cento, meno della metà della media dei Paesi Ocse che si attesta al 14 per cento.

Il problem solving

Infine nell’ambito del «problem solving» quasi la metà degli italiani è totalmente insufficiente (46 per cento sotto o pari al livello 1 contro una media Ocse del 29 per cento): i risultati sono inferiori anche a quelli del Portogallo. Coloro che si trovano in questa situazione hanno «difficoltà con problemi che presentano più passaggi o che richiedono il monitoraggio di più variabili». Circa l'1% degli adulti invece ha ottenuto un punteggio di livello 4 o 5: un risultato molto inferiore alla media Ocse che è del 5 per cento.

 

Il contesto 

Ma il dato più drammatico è quello che riguarda gli adulti che non ottengono la sufficienza in nessuna di queste tre competenze fondamentali e che, in quanto tali, sono ad alto rischio di esclusione economica e sociale. Da noi sono il 26 per cento (contro il 20 per cento della Francia e il 15 della Germania): un cittadino italiano su quattro. Non solo: mentre in quasi tutti gli altri Paesi la fascia d'età in assoluto più qualificata è quella dei giovani fra i 25 e i 34 anni, da noi il declino delle competenze comincia già dopo i 24 anni e le opportunità di lifelong learning restano ancora pochissime. Anche i titoli di studio premiano meno che altrove: un laureato italiano ottiene in media solo 19 punti in più di un semplice diplomato nella prova di «literacy» (contro una media Ocse di +33 punti) e il diplomato a sua volta ottiene 35 punti in più di chi ha in tasca solo la terza media (contro una media Ocse di +43 punti). In compenso il raddoppio degli stranieri rispetto alla precedente rilevazione ha avuto un impatto relativo: gli immigrati di prima generazione da noi ottengono un punteggio inferiore di 30 punti in «literacy» che si riduce a 13 punti se si confrontano con i cittadini italiani dello stesso livello socioeconomico. In Francia e Germania lo svantaggio è molto più netto: rispettivamente - 58  e -74.  Quanto agli immigrati di seconda generazione e ai nuovi italiani ottengono invece risultati in linea con quelli di chi è nato in Italia da genitori italiani.

10 dicembre 2024 ( modifica il 10 dicembre 2024 | 11:37)© RIPRODUZIONE RISERVATA

Umberto Galimberti: «Io, un padre carente. Se per i figli resta tempo solo la sera davanti alla tv, abbiamo sbagliato tutto»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORI: Maria Luisa Agnese e Greta Sclaunich

DATA: 24 marzo 2023

Intervista al filosofo: «Sono favorevole ai telefonini ai ragazzi: se fin da piccoli hai parlato molto con loro, loro continueranno a parlare con te. I nuovi padri? Li vedo abbastanza male, sono caduti nel mito del giovanilismo»

Padri di ieri e padri di oggi, a confronto: ne parla il filosofo Umberto Galimberti, saggista, psicanalista e seguitissimo protagonista di conferenze per l’Italia, che qui riflette sugli errori delle due generazioni, arrivando anche ad ammettere qualche mancanza personale, di non essere stato talvolta un buon padre per sua figlia. «Se devo seguire i miei progetti e dedicarmici tutta la giornata, e quando torno a casa ai miei figli resta solo un po’ di tempo insieme davanti alla tv, allora abbiamo sbagliato tutto»: un rimbrotto che vale per tutti i papà (e le mamme) del passato e del domani. Questo non vuol dire che persino Galimberti sia stato del tutto distratto: anche lui ha cambiato i pannolini, «ho pure pulito il sedere, queste cose qui si fanno naturalmente. Se uno non cambia un pannolino a suo figlio, dove è rimasto?».

Ma cosa è cambiato dalla sua generazione a oggi?
«Prima del ‘68 vivevamo nell’età della disciplina, il messaggio della famiglia coincideva con quello della società: se vuoi raggiungere i tuoi obiettivi lavora e sacrìficati. Dopo il ’68 questa società si è smobilitata per un anelito di libertà: il motto era Vietato vietare! Poi, su questa componente si è inserita l’importazione della cultura americana che richiedeva autoaffermazione e performance spinta. La cultura americana e la cultura del ‘68 sono confluite: le regole possono ammettere tranquillamente le deroghe, però dal lunedì al venerdì tu devi funzionare a livello di performance, competenza, velocizzazione del tempo, il sabato e domenica fai quello che vuoi».

Sclaunich: Questo ha cambiato anche il modo di fare i genitori.
«Prima i genitori erano supportati dalla società e quindi era riconosciuta l’autorità paterna, che era sostanzialmente quella della tradizione. Poi i padri sono diventati amici dei figli, sono caduti nel mito del giovanilismo, hanno ceduto alle loro dimensioni affettive calibrate sulla pura passione per cui quando finisce la passione ci si separa e si divorzia. In pratica la società ha insegnato il principio di piacere (perché la società è diventata opulenta) che si è riverberato anche nell’ambito della famiglia».

«SONO FAVOREVOLE AI TELEFONINI AI RAGAZZI: SE FIN DA PICCOLI HAI PARLATO MOLTO CON LORO, LORO CONTINUERANNO A PARLARE CON TE»

Agnese: Ora non è facile riconquistarsela, l’autorevolezza.
«Le parole dei genitori sono efficaci da zero a 12 anni. Dopo i ragazzi devono andare incontro alla separazione dal mondo genitoriale e passare dall’amore incondizionato da cui sono stati gratificati quando erano bambini, all’amore condizionato che è quello orizzontale con i propri amici. I padri di solito non parlano con i figli: nella società della disciplina incaricavano le madri ma anche dopo hanno continuato a non farlo, perché si annoiano. Le madri invece parlano sì, però sempre a livello fisico: non uscire con i capelli bagnati, mettiti la maglia, stai attento ai semafori. Mai una domanda psicologica, mai che si chieda al figlio: sei felice?».

Agnese: Lei ha fatto mai questa domanda a sua figlia, sei felice?
«Se proprio insiste, glielo dico: no. Mia moglie lavorava in maniera assidua in un laboratorio di biologia molecolare, io mi occupavo di libri perché pensavo che i figli avessero bisogno di una famiglia sana, e che sarebbero cresciuti sani, automaticamente».

Sclaunich: Quindi vale l’esempio.
«L’esempio è quello che deve funzionare dopo i 12 anni, appunto. Dopo quell’età è inutile che i genitori si lamentino perché i figli non parlano: non lo fanno perché prima i genitori gli hanno parlato pochissimo o comunque non abbastanza. E quando i figli parlano, i genitori devono ascoltarli. Ma con l’atteggiamento di chi pensa: forse io ho qualcosa da imparare da te, sono interessato alle competenze che tu hai e che io non ho. Se c’è questa disposizione, i figli ricominciano a parlare».

 

Sclaunich: Un cambio di passo, ascoltarli senza fare gli amiconi.
«I genitori oggi si vedono in quella funzione castrante che è quella di proteggerli all’infinito. Io nella scuola secondaria superiore proporrei l’abolizione della presenza dei genitori: via, radicalmente. Perché i genitori sono interessati alla promozione, non alla formazione dei loro figli. Se non sono promossi ricorrono al Tar, e cosa fanno i professori per non aver rogne? Li promuovono tutti. Evviva. E poi non consentono ai figli di impostare quel rapporto iniziatico per cui già a partire dalla prima e seconda liceo se hanno problemi ne parlino direttamente all’insegnante, non al padre che poi va dall’insegnante. Quando si emancipano questi ragazzi?».

Sclaunich: Come vede i nuovi padri?
«Li vedo abbastanza male, sono ancora peggiorati; da quando è entrata la psichiatria nella scuola sono diventati tutti disgrafici, dislessici, acalculici, asperger, autistici… è una clinica la scuola elementare! Perché i professori vogliono una ricetta per un corso scolastico privilegiato alleggerito, semplificato. Ci saranno anche disgrafici e dislessici ma non in queste proporzioni: quando io andavo alle scuole elementari qualcuno faceva fatica a leggere, si esercitava un po’, poi leggeva».

Agnese: Cos’è cambiato?
«Per leggere, per scrivere, oggi noi siamo passati da un’intelligenza sequenziale, che è quella che serve per leggere e scrivere da sinistra a destra e poi riprendi nelle righe successive, a una intelligenza simultanea che è quella dell’immagine. Quando guardo un quadro non devo passare da sinistra a destra e poi ricominciare da capo. Se io leggo c-a-n-e, cane, il mio cervello di fronte a questo segno grafico deve costruire l’immagine del cane. Se ce l’hai lì davanti l’immagine, il cervello è esonerato, ed è chiaro che poi saltano fuori disgrafici e dislessici».

Agnese: Lei introduce il tema del sacrificio. Già da piccoli bisogna fare fatica?
«Nei miei sillabari, nel 1947, non c’era neanche un’immagine e dovevamo noi costruirla a partire dalla lettura, dai segni grafici».

Agnese: Lei con i ragazzi non usa mai l’analisi o la psichiatria, ma la filosofia. Serve di più: lo sostiene anche nell’ultimo libro, Le grandi domande. Filosofia per giovani menti, scritto con Luca Mori per Feltrinelli.
«Li sollecito con le grandi domande, tipo: perché sono al mondo? Cosa significa pensare? Cosa vuol dire crisi? Dio esiste? Quello che è importante non è che i bambini studino filosofia, ma che imparino a filosofare, a porsi delle domande. Mentre noi viviamo in una cultura che cerca sempre risposte, ricette, diagnosi, per stoppare l’inquietudine della domanda. Nelle mie conferenze non accetto domande, perché le domande tengono viva la mente e le risposte la stoppano».

Sclaunich: Quindi va bene per un genitore non avere tutte le risposte?
«Certo. Ma un genitore deve capire che la domanda del bambino spesso ne nasconde una diversa. Un giorno ho sentito un bambino dire alla sua mamma che, secondo lui, Dio non esiste perché non ha una mamma: lei si è messa a ridere, ma la sua affermazione avrebbe dovuto essere presa sul serio perché il piccolo stava cercando il principio di causalità, e la mamma avrebbe dovuto spiegarglielo».

Agnese: Lei fa tutto questo con i suoi nipotini?
«Nella stessa maniera per cui sono stato carente come padre sarò ancora più carente come nonno. (Ride). Li vedo raramente perché sono sempre in giro a far conferenze. Però mia figlia ha fatto la mamma in una maniera eccezionale: tutto quello che so su come crescere i ragazzi l’ho imparato da lei».

Agnese: Cosa ha imparato da lei?
«Per esempio il fatto che con loro si deve parlare tanto, che bisogna renderli autonomi e curare questa autonomia, gratificandoli quando fanno un passo avanti e cercando di capire insieme perché ne fanno uno indietro. Solo la comunicazione frequente e assidua e l’attenzione li fanno crescere bene. Rispetto al rapporto che ha mia figlia con i miei nipoti mi rendo conto di quanto io sia stato invece carente, con lei ho parlato poco».

Sclaunich: Lei si paragona a sua figlia come se non ci fossero differenze di genere, come se il genitore “bravo” fosse indifferentemente mamma o papà.
«Certamente. Io ai genitori di oggi non do nessun consiglio, tutto dipende dalla relazione genitoriale che c’è tra moglie e marito, moglie e moglie, marito e marito. Se la relazione funziona è già una salvaguardia per il figlio, e perché funzioni è necessario che nessuno dei due consideri il suo partner “mio”. Cosa sono questi aggettivi possessivi? L’altro è, appunto, un altro e più è altro più mi incuriosisce per la novità che rappresenta. Se lo considero “mio” lo incasello in un contesto in cui è significativo solo in quanto risponde a un mio bisogno o necessità. Queste categorie del possesso ci sono in tantissime coppie genitoriali, e poi ci meravigliamo dei femminicidi. Io e mia moglie siamo stati insieme 41 anni e funzionavamo benissimo. Quando si entra nelle famiglie a volte si sente urlare, altre volte c’è quel silenzio, soprattutto nelle classi borghesi elevate, che è più freddo dell’ira. Quel gelo che si crea nella non comunicazione generale, e che i telefonini hanno amplificato: avete presente quelle famiglie al ristorante, ognuno con il suo cellulare in mano e ognuno nel suo mondo?».

 

Sclaunich: Anche qui vale l’esempio. Come facciamo a togliere i cellulari ai nostri figli se noi genitori lo abbiamo sempre in mano?
«Io in questo sono un ottimo esempio: ci sono voluti dieci anni perché ne prendessi uno e anche adesso lo lascio spesso in cucina quando devo lavorare, non mi interessa chi mi scrive o mi chiama. Però in realtà sono abbastanza favorevole al fatto che si diano i telefonini ai ragazzi. Sennò li si priva della socializzazione, che purtroppo avviene ormai solo attraverso questi schermi. Non ha nessun senso porre limiti, se non di tempo: per esempio non devono usarli a scuola».

Agnese: Quindi, sì al cellulare. Sì anche ai social?
«Non dobbiamo pensare che noi abbiamo dei pensieri e la parola serve per esprimerli: è il contrario, se le parole sono poche tu pensi poco. Come fai a pensare una cosa per la quale non hai la parola? I ragazzi sui social passano il tempo a dire come si sono vestiti e pettinati, e il loro linguaggio si limita a questo. Una volta per conoscere il mondo si usciva di casa, oggi si sta a casa con il computer e il telefonino. Tu vivi il mondo che ti hanno allestito, non quello di cui fai esperienza».

Sclaunich: Un genitore può fare qualcosa per arginare questo fenomeno?
«Dobbiamo persuaderci che alcuni fenomeni sociali sono irreversibili. Ma torniamo sempre là: se con tuo figlio hai parlato tanto anche se lui usa social e telefonino continuerà a parlare con te».

23 marzo 2024

New York City fa causa ai social media per danni alla salute mentale dei giovani

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Roberto Cosentino 

DATA: 17 febbraio 2024

Arriva la causa contro a TikTok, Instagram, Facebook, Google e Snapchat, a meno di un mese dal discorso annuale del sindaco di New York, Eric Adams.

Dalle parole ai fatti. Lo scorso 24 gennaio il sindaco di New York, Eric Adams, nel corso del consueto discorso annuale, lanciò un’accusa pubblica ai social media. Definiti dallo stesso primo cittadino delle «tossine ambientali», a meno di un mese di distanza nel corso di una conferenza, ecco l'annuncio dell'avvio di una vera causa legale. I motivi per cui è stata intentata sono, secondo l'amministrazione di Nyc, i danni provocati alla salute mentale dei più giovani. «È giunto il momento di ritenerli responsabili di aver alimentato la crisi nazionale della salute mentale giovanile, e questo è il primo passo», ha affermato Eric Adams dal proprio profilo su X.

La città di New York ha sporto denuncia contro TikTokMetaSnap Alphabet. La conferma arriva dallo stesso sindaco, in un comunicato condiviso lo scorso mercoledì. Insieme alla Big Apple, anche il Dipartimento dell’Istruzione di New York e dalla New York City Health and Hospital Corporation. Questo è solo uno degli ultimi atti che vedono le piattaforme dover presenziare al banco degli imputati. Poche settimane fa le stesse sono comparse al Senato degli Stati Uniti, dove sono state accusate di avere le mani «sporche di sangue».

La causa

I capi di accusa sono tre e prevedono negligenza, negligenza grave e disturbo alla quiete pubblica. I social sarebbero infatti responsabili di aver manipolato i più giovani e aver intenzionalmente creato in loro una dipendenza tale per cui la loro attenzione venisse mantenuta sui social media. Le parti che hanno intentato causa richiedono un processo con giuria, che possa portare ad un cambio nella condotta di queste aziende, a cui dovranno anche seguire sanzioni pecuniarie.

I motivi delle richieste sono stati spiegati nel corso della conferenza stampa indetta dal primo cittadino newyorkese. La condotta delle società ha rappresentato non solo una crisi per la Grande Mela, ma anche un onere finanziario. Questo perché quanto causato dalle società si riversa sugli ospedali, nelle scuole e in altre comunità. Il sindaco Adams descrive gli adolescenti di New York costantemente disperati, incollati agli schermi dei telefoni e afflitti da una condotta scolastica negativa. Inoltre, mancano di abilità sociali a causa della dipendenza dai social media.

Le parole del sindaco

«La nostra città è costruita sull'innovazione e sulla tecnologia, ma molte piattaforme di social media finiscono per mettere in pericolo la salute mentale dei nostri figli, promuovendo la dipendenza e incoraggiando comportamenti non sicuri», ha riferito il Adams, che prosegue: «Stiamo intraprendendo azioni coraggiose per conto di milioni di newyorkesi per ritenere queste aziende responsabili del loro ruolo in questa crisi, e stiamo sviluppando il nostro lavoro per affrontare questo pericolo per la salute pubblica».

E ancora: «Questa causa e il piano d'azione fanno parte di una resa dei conti più ampia che plasmerà la vita dei nostri giovani, della nostra città e della nostra società negli anni a venire».  Laddove legislazione e burocrazia hanno il passo lento, ci pensano dunque i distretti scolastici, i gruppi di genitori e le città stesse a prendere l’iniziativa, i quali affermano che i giovani sono stati danneggiati dai social media.

La risposta dei social media

Di diverso avviso le piattaforme interessate. Andy Stone, portavoce di Meta, ha affermato che: «Vogliamo che gli adolescenti abbiano esperienze online sicure e adatte all'età, e disponiamo di oltre 30 strumenti e funzionalità per supportare loro e i loro genitori. Abbiamo trascorso un decennio lavorando su questi problemi e assumendo persone che hanno dedicato le loro carriere per garantire la sicurezza e il sostegno dei giovani online».

Alle sue parole seguono quelle di José Castañeda, portavoce di Google. «Offrire ai giovani un'esperienza online più sicura e più sana è sempre stato fondamentale per il nostro lavoro. In collaborazione con esperti di salute mentale e genitorialità, abbiamo creato servizi e politiche per dare ai giovani un'esperienza più sana e sicura online. Esperienze appropriate e controlli solidi da parte dei genitori. Le accuse contenute in questa denuncia semplicemente non sono vere».

I precedenti

Vero o no, non c'è giorno che i social non siano ritenuti colpevoli della condizione faticosa in cui versano i giovani statunitensi, secondo le parole del sindaco Adams. Difficile non ricordare le scuse di Zuckerberg che hanno avuto luogo all'inizio del mese al Senato degli Stati Uniti. Inoltre, la città di New York è, per quanto grande, più circoscritta dei 40 Stati Usa che hanno fatto causa a Meta per via di Instagramadducendo i medesimi motivi.

A questa si aggiunge la causa che vede Meta accusata di violare una legge federale, raccogliendo dati dei minori. Nuovo processo in vista, dunque. Porterà a qualcosa di concreto questo "primo passo" menzionato dal sindaco Adams, o ad un semplice "forte messaggio", come quello auspicato dal senatore Dick Durbin? Intanto, come riporta il Washington Post, il Kids Online Safety Act trova nuovi sostenitori al Senato, ma è ancora incerta l'approvazione della Camera degli Stati Uniti.

Le parole di Pietro Bordo al Convegno sulla Scuola, Sala Tatarella, Camera dei Deputati

FONTE: Pietro Bordo

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 16 novembre 2023

Avevo previsto un intervento di 11 minuti. Lì ho saputo che avevo solo 3 minuti.

Prima dell’intervento ho tagliato molto, ma il mio modo partecipato di esporre ha allungato i tempi del mio intervento. L’on.le Russo a provato a fermarmi due volte…

Alla fine ha detto (Loredana, mia moglie, aveva interrotto la registrazione): dopo 8 minuti e mezzo… (lunga pausa), ma bellissimi e intensissimi…

Quello che segue è l’intervento integrale, quello che avevo preparato, senza tagli.

Mi chiamo Pietro Bordo. Ad un passo dalla laurea quinquennale in ingegneria elettronica il vento impetuoso ed imprevedibile della vita mi ha portato dietro la cattedra della scuola elementare. Ne ho avuto di conseguenza una vita felice. Ho insegnato per quarantasette anni: alla parificata, alla privata, alla paritaria e gli ultimi anni alla pubblica.

Ritengo che possa essere utile a tutti, al di là di tanta teoria, pur importante, sentire concretamente a cosa porta un uso appropriato del voto a scuola, anche se molto brutto.

A tal fine vorrei leggervi, in pochi minuti, un racconto dei tanti che ho scritto, con la speranza che diventino un libro; che non essendo pervaso dall’ideologia della sinistra, ancora imperante a scuola e non solo, ha possibilità quasi nulle di essere pubblicato.

 

Matias, dal “3 -20” al “10”, per la vita

Matias venne nella mia classe in seconda elementare. La prima l’aveva frequentata in un’altra scuola.

Piccolino, magrolino, timido, simpatico, educatissimo, con gli occhietti curiosi che brillavano per la voglia di sapere, di imparare.

Durante le partite di calcio della ricreazione si scatenava e non evitava contrasti anche molto duri con compagni molto più alti e robusti di lui.

I compagni avevano fatto in prima un notevole lavoro per la correttezza ortografica, Matias no. In conseguenza, al primo dettato commise moltissimi errori. Così tanti che lo portarono a prendere il voto “3”, con l’aggiunta di un “-20”, che indicava quanti errori avrebbe dovuto evitare per avere un “3” pieno.

Prima di dargli il voto gli parlai in privato. “Matias, in questo momento non sei bravo nei dettati, ma lo diventerai. Sta’ tranquillo, ho fiducia in te, ti aiuterò e diventerai bravissimo in tutto”.

Poi gli diedi il quaderno con il voto ed il bambino, appena l’ebbe visto, mi disse “La prossima volta…”, stringendo il pugno e portandolo ripetutamente verso di sé. Intendeva, ovviamente, che si sarebbe impegnato molto di più.

Qualche giorno dopo i genitori vennero a scuola per un colloquio e mi dissero con grande stupore e soddisfazione che a casa il bambino li aveva tranquillizzati per quel “3 -20” nel dettato, dicendo loro che indicava la situazione di quel momento e lui sarebbe diventato bravissimo.

Alla fine della quinta praticamente non commetteva più alcun errore di ortografia, anche in dettati molto lunghi e complessi e nelle composizioni. Ed era bravissimo in tutto.

Episodi come quello descritto me ne sono capitati molti, anche se raramente con un’escursione così clamorosa dall’insufficienza gravissima all’eccellenza.

Matias ora ha più di trent’anni e qualche mese fa su un social mi ha scritto che ogni volta che ha un problema serio ripensa al suo ingresso in seconda elementare, prende il quadernone con la raccolta di tutti i quaderni di allora, che ha gelosamente conservato, e vede quel “3 -20”. Poi prende il quaderno dove si trova l’ultimo dettato di classe quinta, vede il voto, “10” e si dice: “Come tanti anni fa sei passato dall’insufficienza gravissima all’eccellenza (da “3 -20” a “10”) così ora risolverai il problema che ti affligge”.

Al di là di tante parole, c’è il brutto voto che affossa ed il brutto voto che fotografa la situazione e stimola, se spiegato. Ma per stimolare ci deve essere una relazione significativa fra docente e discente. Che quasi nessun docente cerca. Perché non ne sa nulla.

Siamo tutti qui perché abbiamo a cuore la scuola italiana e vorremmo migliorarla. Non posso quindi fare a meno di dire quanto segue, in estrema sintesi. Anche perché la caratura dei miei ascoltatori (la piaggeria non è fra i miei difetti) mi dà la speranza che le mie parole non restino solo onde sonore. Potrei parlare a braccio per ore, ma sarò brevissimo.

Per cambiare sul serio la scuola tutti i docenti e gli operatori scolastici dovrebbero ricordarsi che ogni alunno è prima di tutto una persona, con tutti i suoi problemi; che quando entra in aula non lascia fuori della porta.

Da decenni per risolvere i problemi che affliggono la scuola si cercano soluzioni mirabolanti, straordinarie, geniali, innovative; generalmente basate sui miracoli della tecnologia, nuova “religione” per tantissime persone. Chiarisco: nulla contro la tecnologia, ma va ben usata. Quante volte ho visto alunni disabili che giocavano al computer ed i loro insegnanti di sostegno che conversavano amabilmente, disinteressandosi dei bambini.

Ci si dimentica la vera soluzione, che ha il gravissimo torto di non essere moderna, ma è antichissima e non richiede l’uso della tecnologia, ma del cuore, ovviamente supportato dalla mente: l’uomo.

Sì, l’uomo docente e le persone genitori sono la soluzione. Il rapporto personale fra di loro e col futuro uomo, l’attuale ragazzo, rappresentano la vera soluzione dei tanti problemi della scuola e, di conseguenza, della società.

Con la premessa appena fatta, ecco i tre fattori specifici che, nel medio termine, concretamente, possono migliorare radicalmente la situazione nella scuola primaria e negli altri ordini di grado, oltre alle ordinarie competenze professionali specifiche.

 

1° fattore: Migliorare di molto la collaborazione scuola-famiglia, che produrrebbe effetti sinergici incredibili sulla crescita del ragazzo.

Scuola e famiglia si devono scambiare informazioni, formulare diagnosi, progettare interventi mirati per ogni singola necessità del bambino. Ho sempre constatato che la maggior parte dei ragazzi sono dei Giano Bifronte: un volto a casa ed uno a scuola.

È evidente, ineludibile, che tocca ai docenti creare un buon rapporto con le famiglie, a qualsiasi costo.

Un rapporto stretto, possibilmente cordiale, con i genitori. Soprattutto con quei genitori con i quali possa sembrare impossibile il solo parlare. Credetemi: si può fare! Son riuscito a farlo anche a Tor Bella Monaca, quartiere di Roma che non gode di buona fama. E io non sono né un genio, né un santo.

 

2° fattore:   Impegno dei docenti a realizzare una relazione significativa con tutti gli alunni, fatta non solo di insegnamenti ed informazioni, ma di comprensione ed accoglienza.

Prima dell’inizio del mio primo giorno d’insegnamento il direttore mi disse: “Ricordati che non potrai insegnare nulla ai bambini se non li amerai. Ma non basta: loro lo dovranno capire; aiutali a capirlo”. Mi sembrava un’affermazione esagerata, ma nel corso degli anni ho sperimentato che era vera.

In varie relazioni scientifiche ho letto che per insegnare al meglio agli alunni, a tutti, è indispensabile che fra il docente e il discente si instauri una relazione significativa per la quale il bambino capisce che è accolto, accettato, amato a prescindere da qualsiasi altra considerazione.

Nei colloqui in privato con i bambini è emerso di tutto, che i genitori non sapevano. In un colloquio seppi di molestie sessuali subite dal bambino in ambito familiare, senza che i genitori neanche immaginassero…

Giovanni Bollea, padre della neuropsichiatria infantile italiana, ma anche un umanista, diceva che le relazioni umane curano. Se ci pensate, anche voi ne avete esperienza.

Nel mondo scolastico ormai caratterizzato da un tecnicismo esasperato (DSA, BES,…), per il quale a volta invece che di bambini mi sembra di parlare di robotini, con i relativi software (uno per ogni materia), purtroppo tanti si dimenticano che il primo e più importante lavoro si compie nel "cuore dell'uomo" (Giovanni Paolo II, “Centesimus Annus”) e il modo con cui questi si impegna a costruire il proprio futuro, fin da bambino, dipende del rapporto instaurato con chi lo dovrebbe aiutare a crescere, sotto tutti i punti di vista, rispettando la sua libertà; e dipende anche dalla concezione che ha maturato di se stesso e del suo destino.

Le relazioni significative di cui sopra durano nel tempo. Io mi vedo con continuità, a tu per tu ed in gruppo, con miei ex alunni, con età compresa fra i 20 ed i 50 anni.

 

3° fattore:   Sforzo che devono fare i genitori per trovare il tempo di parlare con i figli.

Il terzo fattore, che in realtà è una parte significativa del primo, per migliorare radicalmente la situazione nella scuola primaria e anche negli altri ordini di grado, è la comunicazione genitori-figli.  I genitori devono essere aiutati a capire che devono fare qualsiasi sforzo per trovare il tempo di parlare con i figli, tutti i giorni possibilmente, anche solo cinque-dieci minuti. Ciò per conoscerli, quindi capire i loro problemi appena insorgono ed aiutarli. Ed avere la grande gioia di comunicare con loro.

Così facendo i genitori difficilmente rischieranno di trovarsi davanti a comportamenti gravissimi dei loro figli, che li costringerebbero ad ammettere di “non conoscerli”.

Ovviamente la maggior parte dei genitori ignorano i fattori suddetti. Devono essere i docenti ad informarli. Io nelle assemblee dei genitori parlavo di questi argomenti.

 

Utilizzando i tre fattori suddetti si può migliorare molto la qualità della vita degli studenti, i loro apprendimenti e ridurre drasticamente gli episodi di abbandono scolastico e di bullismo.

Infine una curiosità, molto indicativa: sapete quante ore, sulle quaranta della settimana di tempo pieno nella scuola primaria, l’elementare, sono dedicate alla lingua italiana? Provate a dare una risposta.

Quella giusta è sei! Sei ore su 40 e non vi devo spiegare l’assurdità della situazione. Anche se così c’è il vantaggio che si possono fare tanti progetti, ad esempio quello che mi è stato proposto sui canti e sulle danze dei Maori; utilissimo…

La conoscenza della lingua italiana è propedeutica a tutti gli altri apprendimenti; ed anche allo sviluppo del pensiero.

 

Sintesi di tutto quanto ho detto.

Primo: qualsiasi intervento sulla realtà scolastica avrà sicuramente un'efficacia limitatissima se tutti quelli che si occupano di scuola, a qualsiasi livello, non comprendono che lo scolaro è prima di tutto una persona, con tutti i suoi problemi che ne condizionano la vita, e quindi l'apprendimento. Problemi che non lascia fuori della scuola.

Secondo: una relazione positiva fra docente, discente e genitori è la chiave che può aprire la porta delle soluzioni per quasi tutti i problemi degli alunni, con le ovvie conseguenze. Tutto sperimentato per decenni.

Grazie per l’attenzione.

 

Chi parla ai giovani di sesso e relazioni?

FONTE: Famiglia Cristiana

AUTORE: Orsola Vetri

DATA: 20 ottobre 2023

Chi parla ai giovani di sesso e relazioni?

I casi di stupri di gruppo e abusi tra coetanei che sempre più spesso ri­empiono le pagine di cronaca ci costringono a interrogarci su dove nasca un così difficile rapporto dei nostri figli con la sessualità. Ne parliamo con lo psichiatra e psicoterapeuta Tonino Cantelmi, docente presso la Gregoriana di Roma.

 

È la mancanza di educazione sessuale la causa dei casi di violenza di gruppo? Siamo di fronte a un’emergenza?

«Mi sembra una situazione davvero problematica: i nostri figli subiscono una erotizzazione precoce già nell’infanzia (vengono a contatto con contenuti sessuali precocemente e troppo persistentemente) e inoltre la pornografia ha sfondato il limite degli 11 anni. Perciò ricevono una educazione sessuale da Pornhub e Youporn, per citare solo 2 delle piattaforme più invasive del Web. Secondo voi dove hanno imparato i comportamenti predatori e crudeli di cui tanto si è parlato?»


Un tempo il sesso era tabù, non se ne parlava con i genitori, poco con gli amici. È un bene o un male che ora si affronti così esplicitamente?

«È un male. L’erotizzazione precoce compromette la capacità di gestire l’intimità in modo più sano e ampio. Non a caso i cortocircuiti sessuali e aggressivi sono troppo frequenti nei ragazzini e negli adolescenti. Inoltre l’erotizzazione precoce è un fenomeno che si correla a un maggior rischio di disagio psichico, in modo particolare alla loneliness, cioè a quella dolorosa percezione di solitudine che accompagna molti adolescenti e soprattutto quelli più smart sui social».

Parlando di sessualità c’è un confine oltre il quale i genitori non dovrebbero andare per rispetto dei figli?

«Magari noi genitori parlassimo di sessualità e di educazione affettiva! Purtroppo i nostri figli non hanno davvero adulti di riferimento autorevoli: spesso, infatti, più che di adulti dovremmo parlare di adultescenti, cioè adulti che non hanno ancora risolto i temi adolescenziali e si comportano in modo assai incoerente con il ruolo genitoriale».

Quanta influenza ha la fami¬glia e quale è il suo ruolo nell’edu¬cazione sessuale? E la scuola?

«Verso gli 11 anni i ragazzini perdono fiducia negli adulti. A quell’età si completa la “smartphonizzazione” di quasi tutti i figli. Cosicché i ragazzini partecipano a comunità virtuali nelle quali, anche attraverso influencer e youtubers, costruiscono il loro sapere, in modo svincolato dagli adulti. Così si creano due mondi paralleli: la famiglia, la scuola, l’oratorio, i catechisti da un lato e i social e il Web dall’altro. Quale dei due mondi sarà più influente sullo sviluppo dei nostri figli? Eppure non c’è da perdersi d’animo: un adulto autorevole, coerente e affascinante è al momento ancora più attrattivo dei social!».

L’educazione sessuale va affrontata diversamente con i maschi e con le femmine?

«No, va affrontata insieme e soprattutto va inserita nell’ampio tema dello sviluppo psicoaffettivo. Che senso ha parlare di sesso senza insegnare la costruzione di relazioni affettive e senza imparare il gusto dell’intimità, della condivisione e della reciprocità? A parlare di sesso e basta ci pensa la pornografia e a banalizzare la sessualità ci pensano i social. Solo questo può aiutare i maschi a imparare il rispetto dell’altro sesso».

Quali sono i danni della pornografia?

«La pornografia insegna il disprezzo, la manipolazione finalizzata al piacere anonimo, la crudeltà. L’intimità, invece, è empatia e reciprocità. E della pornografia sono vittime anche le ragazzine: imparano a sottomettersi e a considerarsi solo oggetto di piacere. Guardate il proliferare di pornografia light sui social: alcuni profili di ragazzine sono impressionanti per l’inconsapevolezza del loro agire. I social hanno aumentato il gender gap e sono pieni di luoghi comuni orribili».

A che età iniziano i ragazzi ad avere i primi approcci e poi rapporti?

«L’erotizzazione precoce ha precocizzato anche gli approcci sessuali. Durante la pandemia abbiamo avuto lo sfondamento del limite di 11 anni tra gli utenti della pornografia. E soprattutto non c’è gradualità. La conseguenza è il furto della felicità scambiata con stereotipi: i maschi debbono essere un po’ predatori e le femmine debbono accontentarli. Non ci crederete, ma i nostri figli vivono continuamente stereotipi di questo tipo, alimentati da social e porno».

Quali sono le parole giuste di un genitore al figlio adolescente che ha iniziato ad avere una vita sessuale e affettiva?

«Le parole non servono: il problema è che spesso la relazione affettiva tra i genitori è così scadente e deludente che nessuna parola può essere efficace. La miglior risposta? Una relazione affettiva felice tra mamma e papà».

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«Lo smartphone? E’ come la cocaina e gli studenti italiani sono decerebrati»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORI: Gianna Fregonara e Orsola Riva

DATA: 20 dicembre 2022

«Lo smartphone? E’ come la cocaina e gli studenti italiani sono decerebrati».

Ecco il documento che ha ispirato Valditara

di Gianna Fregonara e Orsola Riva

La relazione del senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sui danni fisici, psicologici e mentali dello smartphone è stata allegata alla circolare sul divieto di cellulari in classe

«Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica». Non è un libro di fantascienza distopica, è la relazione presentata a giugno dell’anno scorso dal senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sull’impatto del digitale sugli studenti (leggi qui il testo integrale) che il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha allegato alla sua circolare sullo stop all’uso del telefonini in classe. Un’indagine che paragona l’uso e abuso dello smartphone (chissà perché solo da parte dei giovani) alla tossicodipendenza. «Niente di diverso dalla cocaina - scrive Cangini nella relazione mandata da Valditara alle scuole -. Stesse, identiche, implicazioni chimiche,neurologiche, biologiche e psicologiche».

 

La Corea del Sud

A sostegno di questa tesi vengono portate le opinioni raccolte da neurologi, psichiatri, psicologi, pedagogisti, grafologi ed esponenti delle Forze dell’ordine «auditi» nel corso dell’indagine conoscitiva portata avanti da Cangini. Si cita il caso limite della Corea del Sud dove «il 30 per cento dei giovani tra i dieci e i diciannove anni è classificato come «troppo dipendente» dal proprio telefonino: vengono disintossicati in sedici centri nati apposta per curare le patologie da web». In Cina, scrive ancora Cangini, « i giovani “malati” sono ventiquattro milioni. Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, naturalmente concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti oltre quattrocento». Sempre per restare nell’Estremo Oriente si fa anche un riferimento en passant agli hikikomori giapponesi: ragazzi che «vegetano chiusi nelle loro camerette perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà. Un milione di zombi».

Il mondo nuovo

La conclusione non è meno apocalittica: lo smartphone, dice Cangini, atrofizza il cervello e «non è esagerato dire che decerebrando le nuove generazioni». «Tutte le ricerche internazionali citate nel corso del ciclo di audizioni - è scritto nella relazione - giungono alla medesima conclusione: il cervello agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e l’uso di dispositivi digitali (social e videogiochi), così come la scrittura su tastiera elettronica invece della scrittura a mano, non sollecita il cervello. Il muscolo, dunque, si atrofizza. Detto in termini tecnici, si riduce la neuroplasticità, ovvero lo sviluppo di aree cerebrali responsabili di singole funzioni». Pleonastico a questo punto anche scomodare Aldous Huxley come fa Cangini evocando la «dittatura perfetta» da lui vaticinata nei suoi libri di fantascienza: «Una prigione senza muri in cui i prigionieri non sognano di evadere. Un sistema di schiavitù nel quale, grazie al consumismo e al divertimento, gli schiavi amano la loro schiavitù». Quella dittatura, conclude Cangini, è già realtà. I nostri figli, i nostri nipoti, in una parola il nostro futuro sono già «giovani schiavi resi drogati e decerebrati». Questo sono gli studenti italiani.

20 dicembre 2022 (modifica il 20 dicembre 2022 | 18:16)

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Smartphone e social ai figli, i capi del web li vietano

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Milena Gabanelli e Francesco Tortora

DATA: 22 giugno 2022

Le linee guida dell’Oms sono chiare. Per i bambini da zero a due anni vale il divieto assoluto di essere piazzati davanti a uno schermo, dai due ai quattro anni non si deve mai stare per più di un’ora al giorno a guardare passivamente schermi televisivi o di altro genere, come cellulari e tablet. Dai 6 ai 10 anni la soglia critica si ferma a 2 ore. L’Oms spiega che il tempo trascorso davanti allo schermo può danneggiare i bambini e indica correlazioni con sovrappeso, obesità, problemi di sviluppo motorio e cognitivo e di salute psico-sociale. Inoltre l’eccessiva esposizione ai dispositivi rischia di ledere la capacità di esprimere emozioni e comunicare efficacemente.

Il digital divide si è capovolto

Fino a poco più di un decennio fa il digital divide separava gli adolescenti delle famiglie agiate che avevano la possibilità di collegarsi a Internet e scoprire il mondo digitale dai coetanei privi di un adeguato accesso alla Rete. Oggi, con il veloce sviluppo della tecnologia, accelerato dalla pandemia, si è creata una realtà opposta. Lo studio più completo lo hanno fatto gli americani su loro stessi. Nel 2011 solo il 23% degli adolescenti americani possedeva uno smartphone, oggi la percentuale è del 95%Secondo una ricerca dell’associazione non profit «Common Sense Media» gli adolescenti di famiglie a basso reddito trascorrono in media 8 ore e 7 minuti al giorno davanti a uno schermo per intrattenimento, mentre i coetanei con reddito più elevato si fermano a 5 ore e 42 minuti. Il problema è l’onnipresenza dei dispositivi (il 45% dei teenager Usa è consapevole di essere dipendente dallo smartphone). Chi in assoluto tiene lontano i propri figli dall’iperstimolo tecnologico e dalla dipendenza dai social sono proprio i creatori di questi dispositivi: i manager della Silicon Valley scelgono per i loro eredi un’educazione mirata che limita radicalmente l’uso dei device.

Cosa succede nella Silicon Valley

Steve Jobs, il fondatore di Apple, non permetteva alle figlie adolescenti di usare iPhone e iPadBill Gates, fondatore di Microsoft e quarto uomo più ricco del mondo, non ha dato ai figli il cellulare prima dei 14 anni e ha imposto regole ferree come il «coprifuoco digitale» (a letto senza schermi) dopo essersi accorto che la maggiore, Jennifer Katharine, usava troppo i videogiochi. Anche Sundar Pichai, amministratore delegato di Alphabet e Google, ha vietato lo smartphone ai due figli fino ai 14 anni e ha limitato a poche ore al giorno la visione della tv. Satya Nadella, amministratore delegato di Microsoft, monitora attentamente i siti web visitati dai figli facendosi mandare rapporti settimanali sul loro uso. Stessa strategia di Chris Anderson, ex editore di Wired e amministratore delegato di 3D Robotics, che ha educato i figli imponendo limiti di tempo e controlli su ogni dispositivo elettronico presente in casa, oltre a bandire gli schermi dalla camera da letto fino a 16 anni. Evan Williams, co-fondatore di Twitter, Blogger e Medium, ai figli adolescenti ha sempre preferito comprare libri anziché gadget tecnologici mentre Tim Cook, amministratore delegato di Apple, ha proibito al nipote i social networkSusan Wojcicki, Ceo di YouTube, ha autorizzato lo smartphone solo quando i suoi 5 figli hanno cominciato a uscire da soli e ha deciso di sequestrare tutti i device durante le vacanze per aiutarli a «concentrarsi sul presente». Infine Evan Spiegel, co-fondatore e amministratore delegato di Snapchat, con la moglie Miranda Kerr ha permesso al figliastro Flynn di trascorrere al massimo un’ora e mezzo alla settimana davanti agli schermi.

Le scuole senza tecnologia

I pionieri del web, come tanti altri manager della Silicon Valley, non si limitano a vietare i dispositivi tecnologici in casa, ma scelgono asili e scuole tutt’altro che hi-tech. Gli istituti pubblici americani che ospitano i figli delle classi medie e più povere diventano sempre più digitalizzati (ciò si è rivelato particolarmente positivo negli anni del Covid perché ha permesso a tutti gli alunni, anche quelli più svantaggiati, di seguire le lezioni da remoto). Ma mentre Google Apple cercano di piazzare i loro software nelle scuole pubbliche per offrire ai piccoli «le competenze del futuro», nella Silicon Valley e in altre aree abitate da dirigenti del settore tecnologico sono sempre più popolari le «Waldorf Schools» che promuovono l’approccio educativo sviluppato a partire dal 1919 da Rudolf Steiner: apprendimento attraverso attività ricreative e pratiche. A Los Altos c’è la Waldorf School of the Peninsula, con circa 320 studenti dall’asilo nido alla scuola superiore (2/3 hanno genitori che lavorano per i giganti del web): per i più piccoli soprattutto giocattoli di legno e interazioni all’aria aperta.

Si tratta di uno dei 270 istituti steineriani negli Stati Uniti52 solo in CaliforniaIn Italia ce ne sono 97 (65 scuole dell’infanzia, 30 scuole del primo ciclo e 2 scuole superiori, con 4 mila alunni e 500 insegnanti). Nel mondo sono oltre 3.100 con circa un milione di alunni e un aumento del 500% di iscrizioni negli ultimi 20 anni.

Secondo i sostenitori di questo metodo pedagogico, che insegna le frazioni tagliando la frutta in parti uguali, i computer inibiscono il pensiero creativo dei bambini e riducono i tempi di attenzione

A Los Altos solo a partire dalla terza media è previsto l’uso limitato di gadget tecnologici. I costi delle iscrizioni sono alti (si va dai 23 mila dollari dell’asilo ai 45 mila del liceo), ma nonostante l’assenza di lavagne interattive e di aule cablate a detta della scuola la preparazione è garantita: il 95% dei ragazzi che si diplomano nell’istituto - spiega il sito ufficiale - sono riusciti a entrare nelle più prestigiose università americane e a laurearsi in modo eccellente. Per chi non può permettersi queste rette restano scuole e asili pubblici che hanno scelto, in maggioranza, aule cablate e device. Nella vicina Menlo Park dove ha sede il quartier generale di Meta, la pubblica Hillview Middle School propone il programma iPad 1:1 ovvero per ogni alunno un iPad su cui studiare. La rete di scuole materne esclusivamente online «Waterford UPSTART» è presente in più di 15 Stati e serve oltre 300 mila bambini all’anno.

Proibiti gli smartphone alle babysitter

Gli adolescenti e i pre-adolescenti americani (8-12 anni) di famiglie a basso reddito, non potendosi permettere doposcuola e corsi extra-scolastici, restano almeno due ore in più davanti agli schermi rispetto ai benestanti. Noorena Hertz ne «Il secolo della solitudine», spiega che i genitori della Silicon Valley arrivano a includere nei contratti una clausola che vieta alle babysitter di utilizzare, per qualsiasi scopo, smartphone, tablet, computer e tv davanti ai bambini. «Mentre i più ricchi - scrive Hertz - possono pagare perché i loro figli conducano vite con un ridotto uso di schermi, assumendo tutor umani invece di metterli davanti a un tablet, per la stragrande maggioranza delle famiglie questa non è un’opzione praticabile». Le tate della Silicon Valley che spesso lavorano per il colosso online «UrbanSitter» accettano la sfida e ispirandosi al passato propongono ai bambini giochi da tavolo e attività fisica.

I social e il nuovo corso del Congresso

I magnati della Silicon Valley conoscono bene i danni che possono provocare in tenera età i gadget tecnologici dal «design persuasivo» sviluppati con la collaborazione di psicologi infantili. Adesso a correre ai ripari potrebbe essere il Congresso Usa. Nel settembre 2021 l’ex product manager Frances Haugen ha presentato alla sottocommissione del Senato sulla protezione dei consumatori migliaia di documenti riservati di Facebook (non si chiamava ancora «Meta»), poi pubblicati dal Wall Street Journal, che dimostravano come la società fosse consapevole dei disagi psicologici e della dipendenza provocati dal social network negli utenti più giovani. Nell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione Joe Biden ha promesso una norma per salvaguardare i bambini dai pericoli online e il Congresso è pronto a chiedere alle piattaforme di cambiare modello di business. Per ora Meta ha bloccato «Instagram Kids», versione del social per under 13. Da febbraio è fermo in Senato il «Kids Online Safety act» un progetto di legge bipartisan sulla protezione dei bambini che vieta alle piattaforme web di raccogliere dati da utenti che hanno meno di 16 anni: per mesi la sottocommissione sulla protezione dei consumatori ha raccolto prove sulla profilazione dei minori da parte dei social a fini pubblicitari. C’è anche questo sfruttamento nei 115 miliardi di dollari guadagnati da Facebook nel 2021, e nei 28,8 miliardi portati a casa da YouTube.

La tecnologia è neutra

Come gli Stati Uniti, anche l’Italia punta sullo sviluppo digitale della scuola pubblica. Già ora gli studenti di primarie e secondarie utilizzano dispositivi elettronici in classe e a casa (circa l’88% dei bambini e ragazzi tra i 9 e i 16 anni). Il Pnrr prevede un investimento complessivo nell’istruzione di 17,5 miliardi, di cui 2,1 miliardi per realizzare la transizione digitale e dotare gli istituti degli strumenti più innovativi in modo da «trasformare le aule in ambienti di apprendimento connessi e digitali».

La questione chiaramente non è la tecnologia digitale in sé, che è sempre più parte integrante della nostra vita, e contribuirà a migliorarla, ma come educare i bambini all’utilizzo dei dispositivi senza diventarne dipendenti

Anche su questo terreno la distanza fra ricchi e poveri si sta allargando: i primi più stimolati a sviluppare memoriaconcentrazioneempatia capacità comunicativa, i secondi assorbiti nel mondo solitario del virtuale e con sempre maggiore difficoltà a relazionarsi.

 

La Sinistra ha creato gli studenti ignoranti

FONTE: La Nuova Bussola Quotidiana

AUTORE: Chiara Pajetta

DATA:  6 dicembre 2021

“Il danno scolastico”, libro-denuncia di Mastrocola-Ricolfi, che hanno elaborato i dati del disastro del nostro sistema di istruzione. «Se il figlio dell’idraulico non fa il liceo e non arriva a laurearsi è perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non l’ha preparato abbastanza».

“I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Questa la promessa della nostra Costituzione, nel suo articolo 34. Ma Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, nel documentato saggio edito da La nave di Teseo, descrivono cosa è invece accaduto negli ultimi sessant’anni, con i cambiamenti della scuola e dell’università. E dimostrano che “a pagare il conto più salato sono stati i ceti popolari”. Il paradosso più incredibile è che questa “strage degli innocenti” sia stata perpetrata in nome dell’uguaglianza e dei diritti dei più deboli, senza che nessuno abbia fatto nulla per fermarla. Così i due autori ci raccontano quello che definiscono “uno sbaglio enorme” avvenuto sotto i loro occhi negli ultimi decenni, da quando erano bambini fino a quando entrambi hanno insegnato al liceo e all’università.

 

“A scuola vanno bene solo i figli di papà. La scuola è classista, ben poco democratica, non fa da ascensore sociale”. Il figlio dell’idraulico fa l’idraulico, il figlio del notaio fa il notaio. Questa è l’accusa dei progressisti alla scuola tradizionale. Ma in realtà non è più così, il figlio dell’idraulico si diploma e va all’università, ma spesso non la finisce. Il motivo tuttavia non è tanto la situazione di partenza, bensì la mancanza di quello “scandaloso e immorale motore di avanzamento” che sono oggi le lezioni private, che aiutano a colmare le abissali lacune nella preparazione di base degli alunni svogliati che se le possono permettere, ma non sono invece accessibili ai meno fortunati. Perché il cuore della questione, che le analisi trascurano, è la preparazione realmente offerta dall’istituzione scolastica, il livello di studio, la qualità e la quantità di ciò che viene effettivamente insegnato e quindi imparato. “Se il figlio dell’idraulico non fa il liceo e non arriva a laurearsi è perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non l’ha preparato abbastanza”. Questa l’accusa spietata lanciata dalla Mastrocola. “Un ragazzo non potrà fare il liceo se noi per otto anni (cinque di elementari e tre di medie) non gli abbiamo insegnato quasi niente” o “se gli abbiamo insegnato qualcosa, ma poi non abbiamo anche deciso di esigere e di pretendere che lui le sapesse, quelle cose!”. È ovvio: se uno non sa scrivere non è in grado di fare un discorso compiuto;  se non sa cogliere i significati profondi di ciò che legge non potrà frequentare con successo né liceo né università. È la scuola che in effetti l’ha reso uno “svantaggiato”: la colpa è del percorso formativo con i suoi insegnanti. Ecco il danno scolastico, che causa la cosiddetta “dispersione scolastica”, cioè l’ abbandono della scuola, oppure la fuga verso  istituti “più facili” e degradati.

L’inadeguatezza cognitiva e culturale, prodotta dalla scuola stessa, impedisce agli studenti di superare gli esami universitari, per cui non arrivano alla laurea (in Italia la percentuale di laureati rispetto agli iscritti al primo anno è tra le più basse in Europa). I dati raccolti da Ricolfi su quella che definisce una “catastrofe cognitiva” sono lo specchio della sua esperienza di docente: in università agli esami il più delle volte lo studente non è semplicemente impreparato. Non capisce le domande. Il professore si è trovato di fronte a “un abisso che è innanzitutto di organizzazione mentale e di capacità di assimilazione”.

E perché accade questo disastro? si è chiesto. È il risultato di un cambiamento complessivo della società italiana, che ha accettato e gradito le scelte di una scuola facilitata e progressista con i suoi  slogan, come “la scuola dell’obbligo non può bocciare” e “il diritto al successo formativo”. Ma le basi per andare avanti le dovrebbe dare proprio la scuola dell’obbligo, che invece fa bellamente proseguire ragazzi disarmati e quindi votati al fallimento. Così inesorabilmente si è giunti all’abbassamento progressivo degli standard dell’istruzione nella scuola e nelle università. Riforma dopo riforma lo scempio è stato compiuto, con lo spezzettamento delle parti di programma su cui essere interrogati o l’introduzione massiccia degli strumenti di valutazione “a crocette”. Mastrocola e Ricolfi sono coscienti dell’impossibilità di tornare tout court alla scuola del passato, che ci raccontano con nostalgia, ma che ora sarebbe improponibile, perché il mondo è davvero cambiato. Ma alcune indicazioni le offrono, ripescando il metodo sperimentato nella loro infanzia-adolescenza.

Un tempo “si studiava scrivendo”: chi ha una certa età ricorda i quaderni di appunti e le paginate di analisi logica e di parafrasi. O i temi, naturalmente. E l’impegno a ripetere ciò che si era studiato e sintetizzato. Era un modo di far “durare “ le nozioni che si leggevano, per “inciderle nella testa”. Pensiamo invece a come studiano i ragazzi oggi: leggono un capitolo e richiudono il libro. E non ricordano. Per non parlare dell’eliminazione o riduzione della letteratura (Manzoni no, è noioso, Dante troppo difficile).

Al contrario la Mastrocola sottolinea con vigore che “la letteratura ci educa alla distanza, ci rende familiare anche la lontananza spaziale e temporale”. Tanto più importante in un mondo dove vogliamo educare i giovani al rispetto delle differenze. Pensiamo all’obbrobrio della cancel culture, che provoca errori madornali di prospettiva. Succede quando non si ha dimestichezza col passato e non si è in grado di interpretare, cogliere il valore simbolico anche della storia. Giustamente i due autori rimpiangono la figura del vero maestro, tristemente trasformato in valutatore o distributore di apprendimenti o ridotto a formatore di abilità. Ma vorrebbero anche genitori che non si schierino sempre contro gli insegnanti, ma costruiscano con loro un clima di rispetto e fiducia. Non possiamo arrenderci al fatto che i nostri studenti falliscono perché “non hanno le basi”: se lo studio poggia sul niente si  perde persino la voglia di studiare. E così appare evidente il danno inferto al nostro Paese con l’abbassamento degli standard dell’istruzione che ha aumentato, non ridotto le disuguaglianze sociali. È molto amara la conclusione di Ricolfi, che si rivolge ai progressisti: “Ricevere un’ottima istruzione era l’ultima carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti, a cui molti di voi appartengono. Gliela avete tolta”. Con l’aggravante di farlo “a loro nome”.

L’invito è a battersi per la qualità della scuola e la Mastrocola lo chiede con un accorato appello ai genitori. Perché “la scuola rispecchia ciò che noi siamo, ciò che noi vogliamo”. Perciò “per fondare una scuola nuova bisognerà prima di tutto fondare una vita nuova”. È la stessa preoccupazione del noto psichiatra Paolo Crepet, che in una recente intervista definisce quella dei tredicenni, tra cui dilaga l’alcolismo e che compiono con indifferenza atti criminali, una generazione fallita.  Senza mezzi termini accusa i genitori di questi ragazzini mal-educati di non impegnarsi con i loro figli perché è troppo faticoso dire dei no. Più facile difenderli sempre e comunque, anche quando sono portati in commissariato per le loro malefatte, che per mamma e papà sono solo “ragazzate”. È questa la vera emergenza educativa: che i genitori vogliano davvero il bene dei loro figli. Che vuol dire non pretendere che siano promossi se non studiano né sottrarli alla responsabilità delle loro scelte. Ma perché i figli imparino la serietà della vita occorre che innanzitutto gli adulti siano veri e seri con la loro. Insomma, dei testimoni credibili.

L’amicizia: quella on line non è reale

FONTE: Almanacco CNR

AUTORE: Rita Bugliosi

DATA: 8 maggio 2021

L'amicizia ha un ruolo importante nella vita di ciascuno di noi, alla sua base c'è una condivisione di ideali, di valori, di interessi, di fiducia, un sentimento forte di affetto e la sensazione di poter contare sull'altro nei momenti di bisogno. Di certo un concetto molto diverso da quello dell'amicizia sui social network, basata esclusivamente su “mi piace” e sullo scambio di post nei quali si tende a spettacolarizzare la propria vita, mostrando principalmente momenti positivi. Una diversità notevole, che è importante tenere presente. E su cui ci ha spinto a riflettere anche la pandemia di Covid-19, con le limitazioni che ci hanno costretto a ridurre o interrompere le normali frequentazioni di amici per tutelare la salute nostra e altrui.

Eppure, malgrado le raccomandazioni a evitare “assembramenti” e a ridurre le uscite e gli incontri, sono in tanti a ignorare i divieti e a ritrovarsi in luoghi chiusi o all'aperto. Cosa ci spinge a sfidare i rischi di contagio per stare vicini? “Alla base di questi comportamenti c'è una pulsione prosociale, che può essere spiegata a vari livelli. La visione evoluzionista vede nella prosocialità dei mammiferi una finalità legata prevalentemente alla procreazione e all'accudimento della progenie; la visione neurofisiologica evidenzia come gli effetti della socializzazione si possano vedere anche a livello neuronale, dal momento che, secondo uno studio dell'Università della California, “le persone amiche hanno identiche attività cerebrali durante compiti cognitivi, spiega Antonio Cerasa, neuroscienziato dell'Istituto per la ricerca e l'innovazione biomedica (Irib) del Cnr. “Infine, c'è la prospettiva psicodinamica, che vede nella creazione dei legami sociali una delle condizioni indispensabili per permettere l'evoluzione del pensiero e, soprattutto, della personalità. Le tante persone che si vedono in strada e nelle piazze, incuranti del Coronavirus, non sono semplicemente incoscienti privi di consapevolezza del pericolo che corrono, ma persone che rispondono a uno dei più forti bisogni dell'essere umano moderno: essere parte di qualcosa di più grande”.

I social mdia non sono sufficienti a soddisfare questa esigenza. Non a caso, sebbene la nostra società sia sempre più virtualmente connessa, tante persone provano solitudine, poiché i contatti illimitati ma virtuali non restituiscono una reale interazione con gli altri attraverso i nostri sensi, la nostra corporeità ed emotività. Questo forte bisogno che proviamo ha una spiegazione biologica, come sottolinea Cerasa: “A scatenare questa esigenza è l'ossitocina, detto anche ormone dell'amore. È un ormone peptidico, prodotto dai nuclei ipotalamici, coinvolto nel contesto di un'ampia varietà di comportamenti sociali, a partire dal suo ruolo nei legami riproduttivi - tra una madre e i suoi piccoli o tra maschi e femmine - fino ad arrivare ai comportamenti che promuovono la prosocialità. Negli ultimi decenni, la comprensione scientifica dei ruoli dell'ossitocina nel comportamento sociale è progredita enormemente, anche grazie al contributo dei ricercatori dell'Istituto di neuroscienze del Cnr, che da anni studiano gli effetti di questo ormone. Per esempio, si è scoperto che questa sostanza non viene prodotta solo quando ci sono contatti fisici affettuosi o nel gioco, ma anche durante comportamenti che potenziano le interazioni con gli altri individui, come la selettività sociale, che scatena manifestazioni di aggressività verso quanti non fanno parte del gruppo. E la selettività sociale è uno dei comportamenti più premiati dall'evoluzione, perché permette di sostenere le strutture sociali esistenti. Quindi, oggi si parla più di ossitocina come ormone dell'amicizia che dell'amore”.

L'amicizia, quella vera, che prevede contatto fisico, incontri, scambio diretto di opinioni ci provoca dunque benessere, non altrettanto sembra invece faccia l'amicizia sui social. “Un gruppo di psicologici dell'University of Winsconsin ha dimostrato che i messaggi istantanei che arrivano sui social (il principale rinforzo della socializzazione digitale) non producono ossitocina, come ci si aspetterebbe, ma un'altra serie di ormoni, quali il cortisolo, l'ormone dello stress. Come a dire che l'eccesso di vita sociale a livello digitale comporta più stress cognitivo che vero e proprio piacere di stare con gli altri”, conclude il neuroscienziato del Cnr-Irib.