Ocse-Piaac: i laureati italiani sanno meno dei diplomati finlandesi. Un adulto su 3 comprende solo testi brevi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Gianna Fregonara e Orsola Riva

DATA: 10 dicembre 2024

Ennesima doccia fredda, ennesima tempesta in un bicchiere: dall'Invalsi alla rilevazione Ocse-Pisa, non c'è indagine nazionale o internazionale sulle competenze di base da cui non usciamo con le ossa rotte. Segue, in genere, qualche giorno di pianto greco e poi più nulla. Sarà così anche questa volta?

La notizia è questa: un adulto su tre in Italia - e non parliamo solo degli studenti, ma di tutta la popolazione adulta dai 16 ai 65 anni - dispone di capacità linguistiche o matematiche scarse o molto scarse, comunque insufficienti. Può comprendere al massimo testi brevi, dai quali non sia troppo impervio estrarre le necessarie informazioni, ed è in grado di compiere solo operazioni semplici, con numeri interi o decimali, ma già davanti a una proporzione arranca. Per non dire del problem solving, la capacità logica di risolvere questioni complesse: quasi la metà degli adulti è insufficiente. Certo, in generale, c'è chi va peggio di noi - come il Portogallo - ma tutti gli altri vanno meglio (Spagna, Francia e, fuori dall'Europa, gli Stati Uniti) o molto meglio di noi (Germania  e tutto il Nord Europa). Non solo abbiamo pochi laureati ma quei pochi che abbiamo ottengono un punteggio medio inferiore ai finlandesi che si sono fermati alla maturità. Le capacità acquisite a scuola in Italia invecchiano in fretta, più in fretta che negli altri Paesi e i percorsi di formazione continua (il cosiddetto lifelong learning) non è ancora diventato una realtà. Tutto questo restringe le opportunità lavorative dei singoli e rallenta il progresso della società nel suo insieme.

 

La rilevazione Piaac

Sono questi solo alcuni dei dati della nuova rilevazione Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell'Ocse che misura lo stato della popolazione adulta nei Paesi di tutto il mondo. Rispetto alla scorsa edizione i risultati sono lievemente peggiorati, con un aumento del 7 per cento (dal 28 al 35) di coloro che non arrivano al livello sufficiente.  Raggiungere e mantenere un buon livello di compentenze nel leggere, scrivere e far di conto non aiuta soltanto a trovare lavoro (92 per cento di occupazione contro il 60 per cento di chi ha un livello insufficiente) e a guadagnare meglio (oltre 12 euro all'ora di differenza media), ma si traduce anche in un maggior benessere, in una condizione di miglior integrazione nella società e nell’economia del proprio Paese: possedere le adeguate competenze in «literacy», «numeracy» e «problem solving» (sono queste le tre competenze indagate dall'indagine Piaac) è la condizione indispensabile per poter partecipare ai processi legati all’innovazione senza subirli o peggio: senza restare tagliati fuori.

 

L'allarme

Secondo il Piaac - che si è svolto nel 2022-23 su un campione di popolazione tra i 16 e i 65 anni in 31 Paesi e in Italia in particolare con un campione di 4847 adulti, rappresentativi di circa 37,4 milioni di persone -i risultati del nostro Paese sono al di sotto della media Ocse. Se a questo si aggiunge che quasi un adulto su due (40 per cento) ha un'occupazione che non c'entra niente con quello per cui ha studiato e che il 18 per cento è sotto-qualificato per il lavoro che fa (la media Ocse è 9 per cento) e un altro 15 è troppo qualificato (media Ocse 23 per cento) ce ne è abbastanza per lanciare l'allarme.

I risultati degli adulti nel nostro Paese

Per quanto riguarda la «literacy», cioè la capacità di comprendere un testo, un adulto su tre (il 35%) ha ottenuto un punteggio pari o inferiore al livello 1 - la media Ocse è del 26 per cento - il che significa che «è in grado di comprendere testi brevi ed elenchi organizzati, quando le informazioni sono indicate chiaramente, e può individuare informazioni specifiche e identificare collegamenti rilevanti all'interno di un testo» (livello 1) o che «è in grado di comprendere, al massimo, frasi brevi e semplici» (sotto il livello 1). Se invece consideriamo gli adulti che hanno le competenze adeguate (livello 4 o 5 della scala Ocse), in Italia sono solo il 5 per cento contro una media internazionale del 12 per cento.

 

La matematica

Anche in «numeracy», intesa come la capacità di calcolo, un adulto su tre (il 35%) è «low performer», cioè fermo al livello 1 o anche sotto. La media dei Paesi Ocse è invece del 25 per cento. Queste persone sanno soltanto «fare calcoli di base con numeri interi o con il denaro, comprendere i decimali e identificare ed estrarre singole informazioni da tabelle o grafici, ma possono avere difficoltà con compiti che richiedono più passaggi (es. risolvere una proporzione). Quanti sono al di sotto del livello 1 sono in grado di sommare e sottrarre numeri piccoli». Gli «high performer» (livello 4 e 5) in Italia sono soltanto il 6 per cento, meno della metà della media dei Paesi Ocse che si attesta al 14 per cento.

Il problem solving

Infine nell’ambito del «problem solving» quasi la metà degli italiani è totalmente insufficiente (46 per cento sotto o pari al livello 1 contro una media Ocse del 29 per cento): i risultati sono inferiori anche a quelli del Portogallo. Coloro che si trovano in questa situazione hanno «difficoltà con problemi che presentano più passaggi o che richiedono il monitoraggio di più variabili». Circa l'1% degli adulti invece ha ottenuto un punteggio di livello 4 o 5: un risultato molto inferiore alla media Ocse che è del 5 per cento.

 

Il contesto 

Ma il dato più drammatico è quello che riguarda gli adulti che non ottengono la sufficienza in nessuna di queste tre competenze fondamentali e che, in quanto tali, sono ad alto rischio di esclusione economica e sociale. Da noi sono il 26 per cento (contro il 20 per cento della Francia e il 15 della Germania): un cittadino italiano su quattro. Non solo: mentre in quasi tutti gli altri Paesi la fascia d'età in assoluto più qualificata è quella dei giovani fra i 25 e i 34 anni, da noi il declino delle competenze comincia già dopo i 24 anni e le opportunità di lifelong learning restano ancora pochissime. Anche i titoli di studio premiano meno che altrove: un laureato italiano ottiene in media solo 19 punti in più di un semplice diplomato nella prova di «literacy» (contro una media Ocse di +33 punti) e il diplomato a sua volta ottiene 35 punti in più di chi ha in tasca solo la terza media (contro una media Ocse di +43 punti). In compenso il raddoppio degli stranieri rispetto alla precedente rilevazione ha avuto un impatto relativo: gli immigrati di prima generazione da noi ottengono un punteggio inferiore di 30 punti in «literacy» che si riduce a 13 punti se si confrontano con i cittadini italiani dello stesso livello socioeconomico. In Francia e Germania lo svantaggio è molto più netto: rispettivamente - 58  e -74.  Quanto agli immigrati di seconda generazione e ai nuovi italiani ottengono invece risultati in linea con quelli di chi è nato in Italia da genitori italiani.

10 dicembre 2024 ( modifica il 10 dicembre 2024 | 11:37)© RIPRODUZIONE RISERVATA

La Sinistra ha creato gli studenti ignoranti

FONTE: La Nuova Bussola Quotidiana

AUTORE: Chiara Pajetta

DATA:  6 dicembre 2021

“Il danno scolastico”, libro-denuncia di Mastrocola-Ricolfi, che hanno elaborato i dati del disastro del nostro sistema di istruzione. «Se il figlio dell’idraulico non fa il liceo e non arriva a laurearsi è perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non l’ha preparato abbastanza».

“I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Questa la promessa della nostra Costituzione, nel suo articolo 34. Ma Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, nel documentato saggio edito da La nave di Teseo, descrivono cosa è invece accaduto negli ultimi sessant’anni, con i cambiamenti della scuola e dell’università. E dimostrano che “a pagare il conto più salato sono stati i ceti popolari”. Il paradosso più incredibile è che questa “strage degli innocenti” sia stata perpetrata in nome dell’uguaglianza e dei diritti dei più deboli, senza che nessuno abbia fatto nulla per fermarla. Così i due autori ci raccontano quello che definiscono “uno sbaglio enorme” avvenuto sotto i loro occhi negli ultimi decenni, da quando erano bambini fino a quando entrambi hanno insegnato al liceo e all’università.

 

“A scuola vanno bene solo i figli di papà. La scuola è classista, ben poco democratica, non fa da ascensore sociale”. Il figlio dell’idraulico fa l’idraulico, il figlio del notaio fa il notaio. Questa è l’accusa dei progressisti alla scuola tradizionale. Ma in realtà non è più così, il figlio dell’idraulico si diploma e va all’università, ma spesso non la finisce. Il motivo tuttavia non è tanto la situazione di partenza, bensì la mancanza di quello “scandaloso e immorale motore di avanzamento” che sono oggi le lezioni private, che aiutano a colmare le abissali lacune nella preparazione di base degli alunni svogliati che se le possono permettere, ma non sono invece accessibili ai meno fortunati. Perché il cuore della questione, che le analisi trascurano, è la preparazione realmente offerta dall’istituzione scolastica, il livello di studio, la qualità e la quantità di ciò che viene effettivamente insegnato e quindi imparato. “Se il figlio dell’idraulico non fa il liceo e non arriva a laurearsi è perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non l’ha preparato abbastanza”. Questa l’accusa spietata lanciata dalla Mastrocola. “Un ragazzo non potrà fare il liceo se noi per otto anni (cinque di elementari e tre di medie) non gli abbiamo insegnato quasi niente” o “se gli abbiamo insegnato qualcosa, ma poi non abbiamo anche deciso di esigere e di pretendere che lui le sapesse, quelle cose!”. È ovvio: se uno non sa scrivere non è in grado di fare un discorso compiuto;  se non sa cogliere i significati profondi di ciò che legge non potrà frequentare con successo né liceo né università. È la scuola che in effetti l’ha reso uno “svantaggiato”: la colpa è del percorso formativo con i suoi insegnanti. Ecco il danno scolastico, che causa la cosiddetta “dispersione scolastica”, cioè l’ abbandono della scuola, oppure la fuga verso  istituti “più facili” e degradati.

L’inadeguatezza cognitiva e culturale, prodotta dalla scuola stessa, impedisce agli studenti di superare gli esami universitari, per cui non arrivano alla laurea (in Italia la percentuale di laureati rispetto agli iscritti al primo anno è tra le più basse in Europa). I dati raccolti da Ricolfi su quella che definisce una “catastrofe cognitiva” sono lo specchio della sua esperienza di docente: in università agli esami il più delle volte lo studente non è semplicemente impreparato. Non capisce le domande. Il professore si è trovato di fronte a “un abisso che è innanzitutto di organizzazione mentale e di capacità di assimilazione”.

E perché accade questo disastro? si è chiesto. È il risultato di un cambiamento complessivo della società italiana, che ha accettato e gradito le scelte di una scuola facilitata e progressista con i suoi  slogan, come “la scuola dell’obbligo non può bocciare” e “il diritto al successo formativo”. Ma le basi per andare avanti le dovrebbe dare proprio la scuola dell’obbligo, che invece fa bellamente proseguire ragazzi disarmati e quindi votati al fallimento. Così inesorabilmente si è giunti all’abbassamento progressivo degli standard dell’istruzione nella scuola e nelle università. Riforma dopo riforma lo scempio è stato compiuto, con lo spezzettamento delle parti di programma su cui essere interrogati o l’introduzione massiccia degli strumenti di valutazione “a crocette”. Mastrocola e Ricolfi sono coscienti dell’impossibilità di tornare tout court alla scuola del passato, che ci raccontano con nostalgia, ma che ora sarebbe improponibile, perché il mondo è davvero cambiato. Ma alcune indicazioni le offrono, ripescando il metodo sperimentato nella loro infanzia-adolescenza.

Un tempo “si studiava scrivendo”: chi ha una certa età ricorda i quaderni di appunti e le paginate di analisi logica e di parafrasi. O i temi, naturalmente. E l’impegno a ripetere ciò che si era studiato e sintetizzato. Era un modo di far “durare “ le nozioni che si leggevano, per “inciderle nella testa”. Pensiamo invece a come studiano i ragazzi oggi: leggono un capitolo e richiudono il libro. E non ricordano. Per non parlare dell’eliminazione o riduzione della letteratura (Manzoni no, è noioso, Dante troppo difficile).

Al contrario la Mastrocola sottolinea con vigore che “la letteratura ci educa alla distanza, ci rende familiare anche la lontananza spaziale e temporale”. Tanto più importante in un mondo dove vogliamo educare i giovani al rispetto delle differenze. Pensiamo all’obbrobrio della cancel culture, che provoca errori madornali di prospettiva. Succede quando non si ha dimestichezza col passato e non si è in grado di interpretare, cogliere il valore simbolico anche della storia. Giustamente i due autori rimpiangono la figura del vero maestro, tristemente trasformato in valutatore o distributore di apprendimenti o ridotto a formatore di abilità. Ma vorrebbero anche genitori che non si schierino sempre contro gli insegnanti, ma costruiscano con loro un clima di rispetto e fiducia. Non possiamo arrenderci al fatto che i nostri studenti falliscono perché “non hanno le basi”: se lo studio poggia sul niente si  perde persino la voglia di studiare. E così appare evidente il danno inferto al nostro Paese con l’abbassamento degli standard dell’istruzione che ha aumentato, non ridotto le disuguaglianze sociali. È molto amara la conclusione di Ricolfi, che si rivolge ai progressisti: “Ricevere un’ottima istruzione era l’ultima carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti, a cui molti di voi appartengono. Gliela avete tolta”. Con l’aggravante di farlo “a loro nome”.

L’invito è a battersi per la qualità della scuola e la Mastrocola lo chiede con un accorato appello ai genitori. Perché “la scuola rispecchia ciò che noi siamo, ciò che noi vogliamo”. Perciò “per fondare una scuola nuova bisognerà prima di tutto fondare una vita nuova”. È la stessa preoccupazione del noto psichiatra Paolo Crepet, che in una recente intervista definisce quella dei tredicenni, tra cui dilaga l’alcolismo e che compiono con indifferenza atti criminali, una generazione fallita.  Senza mezzi termini accusa i genitori di questi ragazzini mal-educati di non impegnarsi con i loro figli perché è troppo faticoso dire dei no. Più facile difenderli sempre e comunque, anche quando sono portati in commissariato per le loro malefatte, che per mamma e papà sono solo “ragazzate”. È questa la vera emergenza educativa: che i genitori vogliano davvero il bene dei loro figli. Che vuol dire non pretendere che siano promossi se non studiano né sottrarli alla responsabilità delle loro scelte. Ma perché i figli imparino la serietà della vita occorre che innanzitutto gli adulti siano veri e seri con la loro. Insomma, dei testimoni credibili.

Ritorniamo ad alzare lo sguardo

FONTE: La Nuova Bussola Quotidiana

DATA:  6 settembre 2020

La scuola si è tramutata in una scuola-azienda o centro commerciale, molti sono promossi senza aver imparato nulla, l’esplosione dei certificati sui disturbi dell’apprendimento ha messo da parte il sacrificio. Invece, la persona va rimessa al centro e riscoperta la dimensione dell’anima. Ne scrive Susanna Tamaro in “Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere. Il dovere di educare”

Una bella riflessione sulla scuola, sui giovani e sul mondo contemporaneo è quella che la nota scrittrice Susanna Tamaro affida a una lunga lettera indirizzata a un’insegnante toccando domande centrali nella vita di ogni uomo, oggi troppo spesso evase o censurate. Il titolo è già di per sé molto significativo: Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere. Il dovere di educare (Solferino, 2019).

Il presupposto è che l’insegnante che ami il suo lavoro «ha un compito molto importante: quello di trasmettere la sua passione». Per questo si trova ogni giorno, ogni ora di lezione di fronte a un bivio:

«può decidere di esporre pedissequamente o può, percorrendo vie insolite, riuscire ad accendere di luce lo sguardo di chi lo sta ascoltando, ad aprire una piccola porta nella sua mente, e forse anche nel suo cuore, permettendo a quel ragazzo o a quella ragazza, un giorno, di salvarsi».

Potremmo anche sintetizzare con questa opzione: insegnare nozioni o suscitare passioni. Il caso della letteratura è molto emblematico: il suo studio «non è una scatola piena di dettagli noiosi ma qualcosa che parla alla profondità della nostra inquietudine e alle domande che ne scaturiscono». Si può insegnare letteratura «come natura morta» o «come parte irrinunciabile della nostra vita».

La letteratura diventa interessante quando diventa viva e parla. Questo può, però, accadere solo se le si pongono delle domande, le giuste domande, quelle che fanno del patrimonio letterario un universo sempre contemporaneo in dialogo nei secoli. La letteratura riguarda l’avventura affascinante di inoltrarsi nella realtà, di conoscerla meglio, di conoscere meglio l’uomo e il suo cuore, immutabile nel corso della storia.

L’Italia è cenerentola d’Europa negli indici di lettura, afferma la Tamaro avvalendosi della sua esperienza e dei tanti incontri tenuti nelle scuole, a causa della «diseducazione letteraria attuata nel percorso scolastico». La scuola non riesce spesso a insinuare nel bambino e nel ragazzo «un solo germe di curiosità» che costituisce poi la molla alla lettura una volta che il giovane diviene adulto. La «curiosità, voglia di saperne di più», costituisce «il principale antidoto all’indottrinamento». Purtroppo, invece, «i dieci anni di scuola obbligatoria rimarranno, nella memoria dei più, come un lungo e grigio inverno di cui non aspettavano altro che la fine».

La scuola si è tramutata in una scuola-azienda o scuola-centro commerciale. Si chiede, però, la Tamaro:

«Promuovere gli ignoranti e i negligenti, le persone che si preparano per un mestiere per cui non avranno la minima competenza è davvero un rendimento, o è piuttosto un fallimento? Un rimandare la resa dei conti offrendo una colossale presa in giro dei ragazzi e delle loro famiglie? A quale efficienza mira questo sistema? Direi soltanto a quella delle statistiche. Tot iscritti, tot promossi. La scuola funziona!».

Ma in questo sistema le vittime sono proprio loro, coloro che vengono promossi senza aver imparato nulla.

«La nostra scuola invece crea una grande confusione di concetti che cerca poi di risolvere grazie all’abbondanza di crocette […] e con la compilazione di fotocopie i cui puntini sospesi indicano la direzione da intraprendere».

Oggi nella scuola italiana, fin dalla primaria, è cresciuto a dismisura il numero degli alunni con disturbi dell’apprendimento. È possibile, si chiede l’autrice, che ci sia un numero così alto di allievi disturbati, che già all’asilo arrivino tanti bambini con il loro certificato in mano, che tante mamme preferiscano o pretendano talvolta che i figli abbiano il loro percorso facilitato piuttosto che desiderino che essi imparino e crescano con sacrificio e fatica? Piuttosto che esonerare un bambino già dai sette o otto anni conviene educarlo all’esercizio, alla pazienza, alla costanza con modalità opportune. «Questo non si chiama educare ma costringere alla povertà».

L’autrice scrive partendo dalla propria esperienza personale di grave difficoltà che ha vissuto a scuola per tanti anni, esperienza che lei racconta con grande schiettezza e libertà, perché il suo fine è mostrare che le fatiche vanno affrontate, non scansate. Se fosse stata trattata come un BES (acronimo per “bisogno educativo speciale”) avrebbe avuto probabilmente la strada scolastica facilitata, ma avrebbe lavorato costantemente cercando di migliorare sempre?

Queste parole dovrebbero interrogare molto tutto il mondo della scuola odierno: sono scritte da qualcuno che ha vissuto in prima persona le difficoltà (da qualche anno l’autrice ha dichiarato di soffrire della sindrome di Asperger) e che nel 1994 ha pubblicato Va’ dove ti porta il cuore, best seller che ha venduto nel mondo sedici milioni di copie e che è stato inserito nel 2011 tra i centocinquanta libri che hanno segnato la storia d’Italia.

«La psichiatrizzazione dell’infanzia è l’atto finale di un processo di distruzione con cui non si vuole fare i conti. Più comodo fornire certificati, più comodo somministrare psicofarmaci che aprire gli occhi e ammettere di essere di fronte a una catastrofe di proporzioni spaventose» (Tamaro).

Il nostro Paese è capace di retorica sull’infanzia, ma non si preoccupa delle aree di gioco dei bambini («degrado, abbandono, sporcizia sono la condizione comune») e continua a tagliare le risorse della scuola. Non ci addentreremo oltre nelle interessanti e provocatorie riflessioni della Tamaro sul mondo scolastico contemporaneo.

Le sue considerazioni invitano senz’altro ad alzare lo sguardo. Questo può accadere ripartendo da quattro domande fondamentali: chi sono? Da dove vengo? Dove devo andare? A chi dovrò rendere conto, un giorno, della mia vita?

«Dobbiamo avere il coraggio di riproporre come prioritaria la dimensione del cuore. E “cuore” vuol amore per la bellezza, per l’armonia e per la generosità. Non aver timore delle ridicolizzazioni dei profeti del nulla. […] L’univocità dell’uomo […] è legata alla dimensione della parola. E la parola è strettamente legata alla dimensione della verticalità. Potremmo parlare allo stesso modo, se fossimo costretti a vivere a quattro zampe? […] L’essere umano organizza tutto il suo sviluppo intorno all’ascolto. […] Per realizzarsi nella vita bisogna sapersi mettere in ascolto. Non solo della propria playlist preferita nelle cuffie, ma ascoltare la voce dell’universo, quella voce che ci parla attraverso l’infinita profondità del cielo stellato e l’umile bellezza di un prato fiorito».

Riscopriremo così la dimensione dell’anima, un concetto che l’uomo ha appreso già da millenni, ma oggi dimenticato e scomodo per molti. Per questo la riscoperta dell’anima ha oggi una portata rivoluzionaria. «L’anima è come un albero, stenta a crescere senza cure».  Tornare a nutrirla potrà servire a cambiare il mondo in meglio.