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Il cattolico Babbo Natale

FONTI VARIE

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: qualche anno fa

 

 

Chi ha in mente alcune pubblicità natalizie faticherà a credere che Babbo Natale, il povero personaggio polare, era cristiano, anzi era addirittura un vescovo; e gliene è rimasta traccia nel nome scandinavo di Santa Claus (contrazione di Sanctus Nicolaus).

San Nicola, infatti, era presule di Mira (oggi Demre, in Turchia) all’inizio del IV secolo e il suo culto fu popolarissimo per tutto il Medioevo, sia in Oriente che in Occidente.

In mancanza di particolari storici sulla sua vita, furono numerose le leggende che gli attribuivano addirittura la resurrezione di morti e altri miracoli, una turbolenta partecipazione al concilio di Nicea e naturalmente il fatto generoso che fu poi all'origine del suo mito postumo: prima ancora di essere vescovo, il giovane e ricco Nicola una notte avrebbe gettato delle monete d’oro nella casa di tre ragazze, che a causa della loro povertà avevano deciso dì seguire una cattiva strada.

E il gesto cristiano, compiuto furtivamente (secondo i racconti il malloppo fu buttato attraverso la finestra o addirittura giù dal camino), è lo spunto della successiva tradizione dei doni natalizi ai bambini. Già verso la fine del XII secolo a Parigi ogni 6 dicembre uno studente travestito da San Nicola distribuiva doni agli orfani e ai figli dei poveri.

Che Santa Claus sia non solo cristianissimo, ma anche beato, del resto lo testimonia pure la circostanza che ancor’oggi in alcuni paesi (per esempio il Tirolo cattolico o certe zone della Francia) per la sua festa liturgica (il 6 dicembre) San Nicola percorra le strade di città e villaggi vestito dei paramenti sacri, con mitra e pastorale, donando dolciumi ai bambini, esattamente come il suo demonizzato alter ego Babbo Natale.

Non solo: le vesti rosse e bordate di pelliccia, nonché la barba e il cappuccio del noto personaggio natalizio non sarebbero altro che la diretta discendenza del piviale purpureo, della mitra e della fluente canizie dell’originale, l’antico presule turco.

Altro trasparente indizio del cristianesimo (anzi: cattolicesimo) di Santa Claus viene per paradosso dalla trasformazione che della sua diffusissima figura fecero per un verso i protestanti e per l'altro, l'accostamento non ha alcuna malizia, i comunisti.

I primi subito dopo la Riforma, e in opposizione al culto dei santi, soppressero la devozione natalizia di San Nicola e tentarono di sostituirlo con figure più «laiche»: per esempio, in Germania il Weihnachtsmann ("l'uomo della Notte Santa”); in Finlandia il capo degli elfi dei boschi, Joulupukin; in Norvegia Julenissen.

Anzi, a ben vedere, fu proprio Martin Lutero nel 1535 a far spostare la consuetudine dei doni familiari dal 6 al 25 dicembre, da San Nicola a Gesù Bambino. Quest’ultimo, inteso come «portatore di doni», è dunque forse più "protestante" del povero Santa Claus.

Comunque non dappertutto si smarrì la memoria del santo vescovo Nicola, che proprio allora cominciò a camuffarsi anche nel nome per rendere meno trasparenti le sue reali origine religiose.

Accadde anche nell'Urss dopo la Rivoluzione d'ottobre. Coerentemente con la loro ideologia, i bolscevichi si adoperarono infatti per scalzare la fortissima devozione degli ortodossi per San Nicola contrapponendogli il pagano Nonno Gelo: un vecchietto vestito d'azzurro ripescato da un'antica leggenda e senza alcun richiamo religioso.

Purtroppo nel frattempo Santa Claus era emigrato in America e là nel secolo scorso aveva acquistato le renne volanti, la slitta magica e soprattutto le note prerogative commerciali e consumistiche (non bisogna dimenticare che il rosso personaggio è stato il testimonial privilegiato della Coca Cola).

Di lì, appesantito da tanto fardello, nel secondo dopoguerra il Vescovo, ormai secolarizzato, è tornato a colonizzare 1’Europa. Ma ormai i cristiani non lo riconoscevano più e lo hanno abbandonato al folklore interessato dei grandi magazzini.

Tuttavia qualcosa delle sue radici cristiane potrebbe essere rimasto impigliato in quella barba tradizionalmente tempestata di ghiaccioli o nei risvolti del cappuccio.

La stessa idea del dono natalizio, per esempio, sarebbe teologicamente corretta e profondamente evangelica. Non solo per il precedente dell’oro, incenso e mirra presentati a Betlemme dai Re Magi, ma anche perché a Natale il mondo riceve da Dio il "regalo" inestimabile di suo Figlio.

Insomma, come non è affatto vero che la tradizione dell’albero di Natale sia di origine «pagana" (perché invece discende dalle sacre rappresentazioni medioevali in cui alla pianta del peccato originale veniva contrapposto l’albero salvifico della Croce), potrebbe darsi che, invece di demonizzarlo, contrapponendolo tout court all’”ortodossia” di Gesù Bambino, sia più utile strappare a Santa Claus la maschera del consumismo per cercare dì recuperarne il nucleo cristiano.

Le parole di Pietro Bordo al Convegno sulla Scuola, Sala Tatarella, Camera dei Deputati

FONTE: Pietro Bordo

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 16 novembre 2023

Avevo previsto un intervento di 11 minuti. Lì ho saputo che avevo solo 3 minuti.

Prima dell’intervento ho tagliato molto, ma il mio modo partecipato di esporre ha allungato i tempi del mio intervento. L’on.le Russo a provato a fermarmi due volte…

Alla fine ha detto (Loredana, mia moglie, aveva interrotto la registrazione): dopo 8 minuti e mezzo… (lunga pausa), ma bellissimi e intensissimi…

Quello che segue è l’intervento integrale, quello che avevo preparato, senza tagli.

Mi chiamo Pietro Bordo. Ad un passo dalla laurea quinquennale in ingegneria elettronica il vento impetuoso ed imprevedibile della vita mi ha portato dietro la cattedra della scuola elementare. Ne ho avuto di conseguenza una vita felice. Ho insegnato per quarantasette anni: alla parificata, alla privata, alla paritaria e gli ultimi anni alla pubblica.

Ritengo che possa essere utile a tutti, al di là di tanta teoria, pur importante, sentire concretamente a cosa porta un uso appropriato del voto a scuola, anche se molto brutto.

A tal fine vorrei leggervi, in pochi minuti, un racconto dei tanti che ho scritto, con la speranza che diventino un libro; che non essendo pervaso dall’ideologia della sinistra, ancora imperante a scuola e non solo, ha possibilità quasi nulle di essere pubblicato.

 

Matias, dal “3 -20” al “10”, per la vita

Matias venne nella mia classe in seconda elementare. La prima l’aveva frequentata in un’altra scuola.

Piccolino, magrolino, timido, simpatico, educatissimo, con gli occhietti curiosi che brillavano per la voglia di sapere, di imparare.

Durante le partite di calcio della ricreazione si scatenava e non evitava contrasti anche molto duri con compagni molto più alti e robusti di lui.

I compagni avevano fatto in prima un notevole lavoro per la correttezza ortografica, Matias no. In conseguenza, al primo dettato commise moltissimi errori. Così tanti che lo portarono a prendere il voto “3”, con l’aggiunta di un “-20”, che indicava quanti errori avrebbe dovuto evitare per avere un “3” pieno.

Prima di dargli il voto gli parlai in privato. “Matias, in questo momento non sei bravo nei dettati, ma lo diventerai. Sta’ tranquillo, ho fiducia in te, ti aiuterò e diventerai bravissimo in tutto”.

Poi gli diedi il quaderno con il voto ed il bambino, appena l’ebbe visto, mi disse “La prossima volta…”, stringendo il pugno e portandolo ripetutamente verso di sé. Intendeva, ovviamente, che si sarebbe impegnato molto di più.

Qualche giorno dopo i genitori vennero a scuola per un colloquio e mi dissero con grande stupore e soddisfazione che a casa il bambino li aveva tranquillizzati per quel “3 -20” nel dettato, dicendo loro che indicava la situazione di quel momento e lui sarebbe diventato bravissimo.

Alla fine della quinta praticamente non commetteva più alcun errore di ortografia, anche in dettati molto lunghi e complessi e nelle composizioni. Ed era bravissimo in tutto.

Episodi come quello descritto me ne sono capitati molti, anche se raramente con un’escursione così clamorosa dall’insufficienza gravissima all’eccellenza.

Matias ora ha più di trent’anni e qualche mese fa su un social mi ha scritto che ogni volta che ha un problema serio ripensa al suo ingresso in seconda elementare, prende il quadernone con la raccolta di tutti i quaderni di allora, che ha gelosamente conservato, e vede quel “3 -20”. Poi prende il quaderno dove si trova l’ultimo dettato di classe quinta, vede il voto, “10” e si dice: “Come tanti anni fa sei passato dall’insufficienza gravissima all’eccellenza (da “3 -20” a “10”) così ora risolverai il problema che ti affligge”.

Al di là di tante parole, c’è il brutto voto che affossa ed il brutto voto che fotografa la situazione e stimola, se spiegato. Ma per stimolare ci deve essere una relazione significativa fra docente e discente. Che quasi nessun docente cerca. Perché non ne sa nulla.

Siamo tutti qui perché abbiamo a cuore la scuola italiana e vorremmo migliorarla. Non posso quindi fare a meno di dire quanto segue, in estrema sintesi. Anche perché la caratura dei miei ascoltatori (la piaggeria non è fra i miei difetti) mi dà la speranza che le mie parole non restino solo onde sonore. Potrei parlare a braccio per ore, ma sarò brevissimo.

Per cambiare sul serio la scuola tutti i docenti e gli operatori scolastici dovrebbero ricordarsi che ogni alunno è prima di tutto una persona, con tutti i suoi problemi; che quando entra in aula non lascia fuori della porta.

Da decenni per risolvere i problemi che affliggono la scuola si cercano soluzioni mirabolanti, straordinarie, geniali, innovative; generalmente basate sui miracoli della tecnologia, nuova “religione” per tantissime persone. Chiarisco: nulla contro la tecnologia, ma va ben usata. Quante volte ho visto alunni disabili che giocavano al computer ed i loro insegnanti di sostegno che conversavano amabilmente, disinteressandosi dei bambini.

Ci si dimentica la vera soluzione, che ha il gravissimo torto di non essere moderna, ma è antichissima e non richiede l’uso della tecnologia, ma del cuore, ovviamente supportato dalla mente: l’uomo.

Sì, l’uomo docente e le persone genitori sono la soluzione. Il rapporto personale fra di loro e col futuro uomo, l’attuale ragazzo, rappresentano la vera soluzione dei tanti problemi della scuola e, di conseguenza, della società.

Con la premessa appena fatta, ecco i tre fattori specifici che, nel medio termine, concretamente, possono migliorare radicalmente la situazione nella scuola primaria e negli altri ordini di grado, oltre alle ordinarie competenze professionali specifiche.

 

1° fattore: Migliorare di molto la collaborazione scuola-famiglia, che produrrebbe effetti sinergici incredibili sulla crescita del ragazzo.

Scuola e famiglia si devono scambiare informazioni, formulare diagnosi, progettare interventi mirati per ogni singola necessità del bambino. Ho sempre constatato che la maggior parte dei ragazzi sono dei Giano Bifronte: un volto a casa ed uno a scuola.

È evidente, ineludibile, che tocca ai docenti creare un buon rapporto con le famiglie, a qualsiasi costo.

Un rapporto stretto, possibilmente cordiale, con i genitori. Soprattutto con quei genitori con i quali possa sembrare impossibile il solo parlare. Credetemi: si può fare! Son riuscito a farlo anche a Tor Bella Monaca, quartiere di Roma che non gode di buona fama. E io non sono né un genio, né un santo.

 

2° fattore:   Impegno dei docenti a realizzare una relazione significativa con tutti gli alunni, fatta non solo di insegnamenti ed informazioni, ma di comprensione ed accoglienza.

Prima dell’inizio del mio primo giorno d’insegnamento il direttore mi disse: “Ricordati che non potrai insegnare nulla ai bambini se non li amerai. Ma non basta: loro lo dovranno capire; aiutali a capirlo”. Mi sembrava un’affermazione esagerata, ma nel corso degli anni ho sperimentato che era vera.

In varie relazioni scientifiche ho letto che per insegnare al meglio agli alunni, a tutti, è indispensabile che fra il docente e il discente si instauri una relazione significativa per la quale il bambino capisce che è accolto, accettato, amato a prescindere da qualsiasi altra considerazione.

Nei colloqui in privato con i bambini è emerso di tutto, che i genitori non sapevano. In un colloquio seppi di molestie sessuali subite dal bambino in ambito familiare, senza che i genitori neanche immaginassero…

Giovanni Bollea, padre della neuropsichiatria infantile italiana, ma anche un umanista, diceva che le relazioni umane curano. Se ci pensate, anche voi ne avete esperienza.

Nel mondo scolastico ormai caratterizzato da un tecnicismo esasperato (DSA, BES,…), per il quale a volta invece che di bambini mi sembra di parlare di robotini, con i relativi software (uno per ogni materia), purtroppo tanti si dimenticano che il primo e più importante lavoro si compie nel "cuore dell'uomo" (Giovanni Paolo II, “Centesimus Annus”) e il modo con cui questi si impegna a costruire il proprio futuro, fin da bambino, dipende del rapporto instaurato con chi lo dovrebbe aiutare a crescere, sotto tutti i punti di vista, rispettando la sua libertà; e dipende anche dalla concezione che ha maturato di se stesso e del suo destino.

Le relazioni significative di cui sopra durano nel tempo. Io mi vedo con continuità, a tu per tu ed in gruppo, con miei ex alunni, con età compresa fra i 20 ed i 50 anni.

 

3° fattore:   Sforzo che devono fare i genitori per trovare il tempo di parlare con i figli.

Il terzo fattore, che in realtà è una parte significativa del primo, per migliorare radicalmente la situazione nella scuola primaria e anche negli altri ordini di grado, è la comunicazione genitori-figli.  I genitori devono essere aiutati a capire che devono fare qualsiasi sforzo per trovare il tempo di parlare con i figli, tutti i giorni possibilmente, anche solo cinque-dieci minuti. Ciò per conoscerli, quindi capire i loro problemi appena insorgono ed aiutarli. Ed avere la grande gioia di comunicare con loro.

Così facendo i genitori difficilmente rischieranno di trovarsi davanti a comportamenti gravissimi dei loro figli, che li costringerebbero ad ammettere di “non conoscerli”.

Ovviamente la maggior parte dei genitori ignorano i fattori suddetti. Devono essere i docenti ad informarli. Io nelle assemblee dei genitori parlavo di questi argomenti.

 

Utilizzando i tre fattori suddetti si può migliorare molto la qualità della vita degli studenti, i loro apprendimenti e ridurre drasticamente gli episodi di abbandono scolastico e di bullismo.

Infine una curiosità, molto indicativa: sapete quante ore, sulle quaranta della settimana di tempo pieno nella scuola primaria, l’elementare, sono dedicate alla lingua italiana? Provate a dare una risposta.

Quella giusta è sei! Sei ore su 40 e non vi devo spiegare l’assurdità della situazione. Anche se così c’è il vantaggio che si possono fare tanti progetti, ad esempio quello che mi è stato proposto sui canti e sulle danze dei Maori; utilissimo…

La conoscenza della lingua italiana è propedeutica a tutti gli altri apprendimenti; ed anche allo sviluppo del pensiero.

 

Sintesi di tutto quanto ho detto.

Primo: qualsiasi intervento sulla realtà scolastica avrà sicuramente un'efficacia limitatissima se tutti quelli che si occupano di scuola, a qualsiasi livello, non comprendono che lo scolaro è prima di tutto una persona, con tutti i suoi problemi che ne condizionano la vita, e quindi l'apprendimento. Problemi che non lascia fuori della scuola.

Secondo: una relazione positiva fra docente, discente e genitori è la chiave che può aprire la porta delle soluzioni per quasi tutti i problemi degli alunni, con le ovvie conseguenze. Tutto sperimentato per decenni.

Grazie per l’attenzione.

 

Chi parla ai giovani di sesso e relazioni?

FONTE: Famiglia Cristiana

AUTORE: Orsola Vetri

DATA: 20 ottobre 2023

Chi parla ai giovani di sesso e relazioni?

I casi di stupri di gruppo e abusi tra coetanei che sempre più spesso ri­empiono le pagine di cronaca ci costringono a interrogarci su dove nasca un così difficile rapporto dei nostri figli con la sessualità. Ne parliamo con lo psichiatra e psicoterapeuta Tonino Cantelmi, docente presso la Gregoriana di Roma.

 

È la mancanza di educazione sessuale la causa dei casi di violenza di gruppo? Siamo di fronte a un’emergenza?

«Mi sembra una situazione davvero problematica: i nostri figli subiscono una erotizzazione precoce già nell’infanzia (vengono a contatto con contenuti sessuali precocemente e troppo persistentemente) e inoltre la pornografia ha sfondato il limite degli 11 anni. Perciò ricevono una educazione sessuale da Pornhub e Youporn, per citare solo 2 delle piattaforme più invasive del Web. Secondo voi dove hanno imparato i comportamenti predatori e crudeli di cui tanto si è parlato?»


Un tempo il sesso era tabù, non se ne parlava con i genitori, poco con gli amici. È un bene o un male che ora si affronti così esplicitamente?

«È un male. L’erotizzazione precoce compromette la capacità di gestire l’intimità in modo più sano e ampio. Non a caso i cortocircuiti sessuali e aggressivi sono troppo frequenti nei ragazzini e negli adolescenti. Inoltre l’erotizzazione precoce è un fenomeno che si correla a un maggior rischio di disagio psichico, in modo particolare alla loneliness, cioè a quella dolorosa percezione di solitudine che accompagna molti adolescenti e soprattutto quelli più smart sui social».

Parlando di sessualità c’è un confine oltre il quale i genitori non dovrebbero andare per rispetto dei figli?

«Magari noi genitori parlassimo di sessualità e di educazione affettiva! Purtroppo i nostri figli non hanno davvero adulti di riferimento autorevoli: spesso, infatti, più che di adulti dovremmo parlare di adultescenti, cioè adulti che non hanno ancora risolto i temi adolescenziali e si comportano in modo assai incoerente con il ruolo genitoriale».

Quanta influenza ha la fami¬glia e quale è il suo ruolo nell’edu¬cazione sessuale? E la scuola?

«Verso gli 11 anni i ragazzini perdono fiducia negli adulti. A quell’età si completa la “smartphonizzazione” di quasi tutti i figli. Cosicché i ragazzini partecipano a comunità virtuali nelle quali, anche attraverso influencer e youtubers, costruiscono il loro sapere, in modo svincolato dagli adulti. Così si creano due mondi paralleli: la famiglia, la scuola, l’oratorio, i catechisti da un lato e i social e il Web dall’altro. Quale dei due mondi sarà più influente sullo sviluppo dei nostri figli? Eppure non c’è da perdersi d’animo: un adulto autorevole, coerente e affascinante è al momento ancora più attrattivo dei social!».

L’educazione sessuale va affrontata diversamente con i maschi e con le femmine?

«No, va affrontata insieme e soprattutto va inserita nell’ampio tema dello sviluppo psicoaffettivo. Che senso ha parlare di sesso senza insegnare la costruzione di relazioni affettive e senza imparare il gusto dell’intimità, della condivisione e della reciprocità? A parlare di sesso e basta ci pensa la pornografia e a banalizzare la sessualità ci pensano i social. Solo questo può aiutare i maschi a imparare il rispetto dell’altro sesso».

Quali sono i danni della pornografia?

«La pornografia insegna il disprezzo, la manipolazione finalizzata al piacere anonimo, la crudeltà. L’intimità, invece, è empatia e reciprocità. E della pornografia sono vittime anche le ragazzine: imparano a sottomettersi e a considerarsi solo oggetto di piacere. Guardate il proliferare di pornografia light sui social: alcuni profili di ragazzine sono impressionanti per l’inconsapevolezza del loro agire. I social hanno aumentato il gender gap e sono pieni di luoghi comuni orribili».

A che età iniziano i ragazzi ad avere i primi approcci e poi rapporti?

«L’erotizzazione precoce ha precocizzato anche gli approcci sessuali. Durante la pandemia abbiamo avuto lo sfondamento del limite di 11 anni tra gli utenti della pornografia. E soprattutto non c’è gradualità. La conseguenza è il furto della felicità scambiata con stereotipi: i maschi debbono essere un po’ predatori e le femmine debbono accontentarli. Non ci crederete, ma i nostri figli vivono continuamente stereotipi di questo tipo, alimentati da social e porno».

Quali sono le parole giuste di un genitore al figlio adolescente che ha iniziato ad avere una vita sessuale e affettiva?

«Le parole non servono: il problema è che spesso la relazione affettiva tra i genitori è così scadente e deludente che nessuna parola può essere efficace. La miglior risposta? Una relazione affettiva felice tra mamma e papà».

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Il caso Don Milani. La visione della scuola distorta dall’ideologia

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: Luca Ricolfi

DATA: 26 maggio 2023

Il caso Don Milani. La visione della scuola distorta dall’ideologia

Don Milani detestava il gioco, il pallone, il biliardo, il divertimento, la televisione, persino la ricreazione scolastica. Considerava egoistico persino avere una ragazza, farsi una famiglia, studiare all’università, aspirare a una professione come chirurgo o ingegnere. Le uniche professioni che considerava degne di stima erano, nell’ordine: prete, maestro, sindacalista, politico. La sua scuola era durissima, senza pause, e non disdegnava il ricorso alle maniere forti.

Inevitabilmente, in questi giorni in cui ricorre il centenario della nascita di don Milani, si moltiplicheranno le celebrazioni del suo pensiero, della sua opera, della sua perdurante attualità. Non so se sia il modo giusto di ricordarlo, se sia questo il modo migliore per onorare i grandi del passato. Provo sempre un po’ di disagio, quando un autore classico viene usato per fargli dire quel che piace a noi, che viviamo in un’epoca completamente diversa. Dante era di destra? Manzoni ci invita a non parlare di etnie? Don Milani ci dice come dovrebbe essere la scuola oggi? Proprio per questo, ho accolto con sollievo l’uscita, giusto in questi giorni, di un libriccino di Adolfo Scotto di Luzio, che parla del Priore e della sua opera in un modo diverso, non agiografico né strumentale, e che definirei semplicemente rispettoso (L’equivoco don Milani, Einaudi). Rispettoso perché filologico, perché si sforza – attraverso gli scritti – di farci entrare nella testa del Priore, con le sue ansie, i suoi sogni, il suo modo di vedere le cose.

Il risultato dell’operazione è spiazzante, perché non ci fornisce affatto – come spesso si presume – una soluzione ai problemi della scuola di oggi. Ma semmai ci rivela la radicale inattualità del pensiero di don Milani, una inattualità che, fin da subito, fu pienamente intuita da Pasolini, e da pochissimi altri. Lettera a una professoressa, spiega Scotto di Luzio, “è un pressante invito ad abbandonare ambizioni e illusioni del moderno”. Don Milani detestava il gioco, il pallone, il biliardo, il divertimento, la televisione, persino la ricreazione scolastica. Considerava egoistico persino avere una ragazza, farsi una famiglia, studiare all’università, aspirare a una professione come chirurgo o ingegnere. Le uniche professioni che considerava degne di stima erano, nell’ordine: prete, maestro, sindacalista, politico. La sua scuola era durissima, senza pause, e non disdegnava il ricorso alle maniere forti. Se avesse potuto vedere la scuola (e la gioventù) di oggi, don Milani ne avrebbe avuto orrore. Consumismo e volontà di autorealizzazione, cardini del nostro tempo, erano per lui debolezze piccolo-borghesi: solo la dedizione totale agli altri rendeva una vita degna di essere vissuta.
Ma qual era l’idea di scuola pubblica del Priore? Fondamentalmente, poggiava su tre cardini. Primo, la cultura popolare, e contadina in particolare, fatta di esperienza e saperi pratici, ha pari dignità rispetto alla cultura alta, formale, borghese, insegnata nelle scuole. Secondo, la scuola dell’obbligo dovrebbe riconoscere il pieno valore della cultura popolare, e rinunciare a trasmettere conoscenze prive di utilità pratica (matematica, letteratura, filosofia, ecc.), puntando tutte le carte sull’attualità (leggere i giornali) e sul controllo della lingua (non solo italiana). Terzo, l’orario scolastico dovrebbe essere molto più lungo, perché è nelle ore di non-scuola che i figli dei ricchi acquisiscono un vantaggio rispetto a quelli dei poveri, costretti a lavorare quando non sono a scuola.
Da questo complesso di idee derivava una conseguenza fondamentale. Diversamente da Gramsci, da Concetto Marchesi, e dallo stesso Togliatti, don Milani non vedeva l’accesso alla cultura alta come strumento di elevazione ed emancipazione degli strati popolari. Per lui, come per Pierre Bourdieu pochi anni dopo, la cultura alta era uno strumento di dominio, che imponeva saperi arbitrari, fatti apposta per consentire ai ricchi di umiliare ed escludere i poveri. Come tale, andava lasciata ai ceti alti e a quanti, fra i poveri, preferivano tradire la loro classe di origine, sottomettendosi alla scuola borghese e frequentando quelle che don Milani spregiativamente considerava “Scuole di Servizio dell’Io”, università e licei in particolare.

In questa sua visione dei compiti dell’istruzione, don Milani si situa agli antipodi del pensiero dei Padri Costituenti, in particolare di Piero Calamandrei. Per loro la scuola doveva rompere il monopolio borghese della cultura, facendo sì che la nuova classe dirigente dell’Italia repubblicana potesse attingere alle forze migliori di ogni ceto sociale. Era a questo alto compito che guardava l’articolo 34 della Costituzione, che al comma 2 recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”.
Piero Calamandrei considerava quell’articolo il più importante della Costituzione. Don Milani, invece, detestava l’articolo 34. Per lui, diventando chirurgo o ingegnere, il povero perdeva la sua purezza, il suo legame con i compagni, l’appartenenza al magico universo della cultura popolare. Premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi” non era la strada giusta. E infatti non fu seguita. Le borse di studio che l’articolo 34 prometteva sono rimaste in gran parte sulla carta: don Milani ha vinto, Piero Calamandrei ha perso. Fu un bene? Fu un male? Su questo, fra una celebrazione e l’altra, forse varrebbe la pena riflettere.

 

La grafologa: “Scrivere a mano accende il nostro cervello, ma non dite ai bambini di scrivere come vogliono. Ecco perché”

FONTE: www.orizzontescuola.it

DATA: 12 maggio 2023

La grafologa: “Scrivere a mano accende il nostro cervello, ma non dite ai bambini di scrivere come vogliono. Ecco perché”

“Una cosa che riscontro molto e che mi fa arrabbiare è che nella scuola primaria molti insegnanti dicono ai bambini: scrivete come volete. Il fatto è che questo crea una gran confusione nei bambini, che non sono in grado di valutare ciò che è importante fare e scelgono quello che sembra più semplice.

Se vengono date delle indicazioni fin dall’inizio possiamo avere invece una scrittura funzionale”. La netta presa di posizione della grafologa Giorgia Filossi, grafologa dell’età evolutiva, prende le mosse dalla nostra intervista al professor Piero Crispianiprofessore onorario all’Università di Macerata e professore straordinario Link Campus University di Roma, da anni uno dei più convinti assertori dell’indispensabilità del corsivo per la formazione completa dell’individuo. Crispiani nell’affermare l’importanza dello scrivere in corsivo aveva aggiunto, in coda all’intervista, che “basta dare fogli e penne e far scrivere senza curare – all’inizio – la grafia, ma il senso, la destinazione, ovvero la base della umanità stessa e della cultura”, dando in parte l’idea che sia sufficiente far scrivere liberamente in corsivo, abbracciando una posizione spontaneistica, insomma lasciando ai bambini la libertà di scrivere come vogliono. “E’ una posizione che io non condivido”, ci spiega Giorgia Filossi: “Imparare a scrivere – precisa – è un apprendimento complesso che necessita di precise indicazioni”.

Giorgia Filiossi vive a Modena. E’ grafologa dell’età evolutiva e giudiziaria, educatrice del gesto grafico e rieducatrice della scrittura. Lavora come libera professionista, ha uno studio nella città geminiana, collabora con “Progetto Crescere” di Reggio Emilia, e in generale con scuole e associazioni culturali ed educative. Si occupa di bambini e ragazzi con difficoltà grafomotorie o disgrafie accompagnandoli in percorsi individuali di educazione e rieducazione del gesto grafico e della scrittura. Organizza e conduce corsi di formazione per insegnanti delle scuole d’infanzia, primarie e secondarie e laboratori per gli studenti. E’ docente di Educazione del gesto grafico alla scuola di grafologia “Arigraf Milano”. E’ consulente peritale di studi legali e promuove attività di orientamento per studenti e insegnanti delle scuole secondarie. E’ pure referente regionale per l’Emilia Romagna del Cesiog che ha tra i suoi obiettivi primari la costituzione di un albo per i grafologi e il riconoscimento del rieducatore della scrittura come professione sanitaria.

“La scrittura manuale – spiega Giorgia Filossi – è frutto dell’interazione tra sistema nervoso, sensoriale e motorio. L’uso della mano mantiene in forma il cervello: l’esercizio quotidiano della scrittura rafforza le aree cerebrali tanto che l’attività grafica è consigliata anche per rallentare gli effetti dell’invecchiamento cognitivo”. Una bella scommessa nell’epoca dei computer e delle tastiere. “Scrivendo a mano impariamo di più e più rapidamente. Ma non ne farei una battaglia ideologica tra mano e computer”, dice. “Preferisco soffermarmi sui tanti vantaggi della scrittura. I bambini, per esempio, imparano a leggere meglio se contestualmente viene insegnato loro a scrivere. Una parola scritta viene memorizzata e riconosciuta facilmente, cosa che non avviene digitandola soltanto. Vale anche per gli adulti. Nel prendere appunti, per esempio, selezioniamo le informazioni e le trascriviamo con parole nostre elaborandole in maniera personale. Scrivere a mano ci aiuta anche a sviluppare creatività e capacità di sintesi, a migliorare l’autocontrollo e la gestione delle emozioni”.

Il problema, secondo la professionista emiliana, riguarda soprattutto bambini e ragazzi. Esistono dei criteri ben precisi per stabilire se una scrittura va rieducata: la scarsa leggibilità, la poca fluenza e rapidità e, in alcuni casi, anche l’insorgere di dolori e affaticamento: “Credo – aggiunge – sia non più differibile la formazione specifica del personale educativo, a partire almeno dalla scuola dell’infanzia, per dare ai bambini quel patrimonio fondamentale di abilità e competenze che costituiscono i cosiddetti pre-requisiti. Alla scuola primaria, poi, andrebbe dedicato più tempo all’apprendimento del gesto grafico ad oggi sottovalutato rispetto ai contenuti linguistici.

Imparare a scrivere non avviene spontaneamente, ci vuole tempo, pazienza, gradualità e una didattica corretta, aspetti oggi molto trascurati. A scuola si scrive poco. Mancano direttive chiare che favoriscano approcci corretti e univoci. Dispensare un bambino dallo scrivere oltre che penalizzante per la sua crescita è spesso inutile: noi professionisti del gesto grafico siamo al servizio di famiglie e scuole per accompagnare e dare le corrette informazioni. Non possiamo delegare ad un tablet, uno smartphone o un pc tutta la nostra attività mentale. Cogliamo il senso di un calcolo aritmetico se lo facciamo a mente, cosa che non avviene utilizzando la calcolatrice.

Usare il correttore automatico riduce la consapevolezza dell’errore ortografico. Abusare del copia e incolla ci priva della capacità di ragionare su ciò che stiamo scrivendo. Questo vale a maggior ragione nei bambini perché influisce negativamente sul cervello in piena evoluzione, finendo per provocare difficoltà di attenzione, di memoria, di concentrazione, ansia e generale declino delle capacità di apprendimento. Scrivere a mano accende il nostro cervello molto più che digitare sulla tastiera: scrivendo su carta, gli occhi e i movimenti della mano seguono la creazione della lettera. Il corsivo è un carattere sviluppato per correre sul foglio con fluidità grazie a collegamenti che favoriscono il pensiero consequenziale.

E’ l’unico carattere realmente personalizzabile perché si impregna di tutti i vissuti e gli stati d’animo, rappresentando in maniera unica e irripetibile gli aspetti intellettivi e caratteriali dello scrivente. Lo stampatello, invece, è lento e spersonalizzato perché i tratti grafici richiedono continui stacchi della penna dal foglio.Ci sono tanti modi per mantenere viva e attiva la nostra abilità scrittoria. L’importante è non privarci del piacere di scrivere: lettere, appunti, note, scarabocchi, disegni. Non deleghiamo tutto ad un computer, ma difendiamo la prerogativa di distinguerci anche attraverso il gesto grafico”.

Dottoressa Giorgia Filossi, lei non condivide l’idea che il bambino debba essere lasciato libero di imparare a scrivere in corsivo in maniera spontanea, senza regole. E’ così?

“Non condivido quando si afferma che sia sufficiente far scrivere in corsivo abbracciando una posizione spontaneistica, perché imparare a scrivere è un apprendimento complesso che necessita di precise indicazioni. Il professor Crispiani, che conosco, avendo seguito vari seminari, ribadisce questo concetto, ma nella parte finale dell’intervista fa capire che è importante che i ragazzi scrivano indipendentemente dal fatto che debbano seguire una metodologia. Io mi trovo in contrasto con questa tesi. Per il percorso duale che ho fatto, sia di studio, sia di rieducazione della scrittura, io vedo che la didattica è fondamentale, perché la scrittura si può personalizzare”.

Ci faccia capire meglio

“La scrittura attraversa tre fasi fondamentali. La prima è la pre-calligrafica, che è dedicata all’apprendimento, segue il modello presentato a scuola e dura i primi due anni. Poi c’è la fase calligrafica in cui il bambino sperimenta il modello, si rafforza e diventa sempre più abile, tanto che in virtù di questo passa alla fase post-calligrafica. Se però nelle fasi precedenti ci sono stati degli intoppi, cioè se il modello non è stato acquisito, se non sono state superate quelle difficoltà, allora non si riesce a passare alla fase della personalizzazione, perché le difficoltà non consentono l’automatizzazione della scrittura perché nel momento in cui la scrittura è automatizzata non pensiamo più a come eseguiamo i grafemi, in quel momento la nostra scrittura si impregna degli aspetti emotivi individuali della persona, segue un percorso neurologico nuovo, diventa una scrittura capace di esprimere la personalità dell’autore”.

Un po’ come nella lettura?

“No. Mentre la lettura è un apprendimento che può avvenire spontaneamente, qui questo non succede: qui ci vuole un insegnamento, che significa dare delle regole di esecuzione che riguardano il punto di partenza, la direzione, i collegamenti tra le lettere e dove eseguire gli stacchi. Tutto questo però va fatto secondo un criterio, altrimenti, se lasciato al caso, succede che la scrittura viene eseguita come se si trattasse di un disegno. Solo se diamo delle regole iniziali possiamo ottenere poi una scrittura funzionale. Che non significa bella. Significa scorrevole, significa avere una scrittura che non crea fatica, che non crea dolore in chi scrive, che sia leggibile”.

Le scuole, secondo lei, sono consapevoli di questa necessità?

“Una cosa che riscontro molto e che mi fa arrabbiare è che nella scuola primaria molti insegnanti dicono: scrivete come volete. Ma questo crea una gran confusione nei bambini, che non sono in grado di valutare ciò che è importante fare ma scelgono quello che sembra più semplice. Se vengono date delle indicazioni fin dall’inizio possiamo avere una scrittura funzionale”.

Ci sono però dei bambini che presentano evidenti difficoltà

“E’ vero, ci sono dei bambini che hanno delle oggettive difficoltà. Ma a quel punto, quando sono stati individuati, abbiamo ripulito il quadro facendo una netta distinzione tra quelli che hanno una didattica corretta e hanno imparato e quelli che nonostante la didattica corretta hanno delle difficoltà. In questi casi è doveroso fare una valutazione di disgrafia, perché significa che il bambino ha delle caratteristiche a livello neurobiologico che rendono difficile raggiungere un livello funzionale di scrittura”.

E a quel punto quanto si può fare per questi bambini?

“Diciamo che oggi ci sono moltissimi bambini che hanno difficoltà. Ci sono quelli che non hanno avuto una didattica adeguata – aggiungiamoci anche i problemi causati dal Covid – e poi ci sono quelli che hanno delle difficoltà che sono superabili. Con tutti si riesce ad avere risultati, ma alcuni non riusciranno ad avere una scrittura funzionale nonostante i miglioramenti. Questi avranno bisogno di un’attenzione diversa e misure dispensative e compensative”.

Quanto conta avere frequentato la scuola giusta, da questo punto di vista?

“Io vedo una differenza tra bambini che hanno avuto la fortuna di fare un percorso scolastico buono – e in questo caso si vede che il bambino ha una buona gestione dello spazio del foglio, adotta delle direzioni funzionali nello scrivere – e bambini che sono completamente disorientati del tutto. Che non si sanno muovere nello spazio del foglio. Ad esempio non rispettano le righe e i quadretti, con il risultato di avere un foglio molto confuso. Il sapersi muovere male nello spazio del foglio ha sempre come corrispettivo una difficoltà di muoversi nello spazio in cui ci si muove normalmente”.

Che cosa vuol dire?

“La partenza dell’apprendimento dovrebbe partire nella scuola dell’infanzia, con il muoversi nell’ambiente circostante come prerequisito per muoversi sul foglio”.

Lo si fa?

“Lo si fa in maniera poco consapevole. Si fanno tante attività casuali e non sempre consapevoli. Ma il lavoro che si fa all’infanzia è fondamentale per poter lavorare bene alla primaria. Prendiamo ad esempio il problema dell’impugnatura: questo è un aspetto che non viene considerato, e invece andrebbe impostato già dalla scuola dell’infanzia, ma non solo insegnando al bambino come si fa ma facendo fare attività che gli rendano naturale impugnare in maniera corretta, si apprende attraverso l’esperienza”.

Lei ritiene che occorra iniziare a scrivere nell’età della scuola dell’infanzia?

“No, a quell’età occorre creare i prerequisiti per arrivare alla scuola primaria con un bagaglio valido, in modo che diventi più semplice. Invece oggi i bambini non sanno più usare le mani perché nel frattempo non giocano fuori, fanno giochi tecnologici e tocca poi a chi fa rieducazione farglieli fare. Occorrere praticare giochi di manipolazione che rendano le mani più abili, fare dei nodi o anche semplicemente strappare lo scotch con le dita ma non lo sanno fare. Il bambino inoltre viene spesso imboccato dalle mamme. E invece è importante imparare a impugnare correttamente una posata. Se non s’insegna a impugnare bene una posata un bambino non saprà impugnare una matita. Un po’ il genitore si sostituisce al bambino per motivi di fretta o di timore, i genitori sono apprensivi e questo fa sì che il bambino sperimenti sempre meno cose”.

Servirebbe una cultura diffusa su questi temi

“Come associazione professionale dei grafologi, il Cesiog, stiamo lavorando sul fronte dell’informazione ai docenti e ai genitori. E anche sul fronte del lavoro di rieducazione della scrittura. La nostra è una professione spesso sconosciuta mentre ci sarebbero le possibilità di recupero di tante difficoltà evitando tante diagnosi di disgrafia, che invece lievitano. Dopo la diagnosi di disgrafia spesso si dice: scrivete come volete, usate il pc…Tante volte sarebbe sufficiente invece fare un recupero e un potenziamento della scrittura e ci sarebbero meno costi sociali perché appena ci sono delle difficoltà vengono attivate le visite presso la Neuropsichiatria.

Ma anche in quell’ambito la nostra figura non viene riconosciuta e allora che succede?”

Che cosa succede?

“Il bambino viene visitato da uno psicologo, viene fatta la diagnosi ma la figura non solo non viene coinvolta ma nemmeno viene suggerita. La professione viene riconosciuta, certo, ma non è vista come una professione sanitaria. La nostra associazione da anni si batte perché venga istituito un albo dei grafologi, mentre in altri ambiti come quello forense la professione è riconosciuta e apprezzata”.

Il tutto si inserisce in un’epoca che vede come protagonisti i pc, le tastiere, gli schermi, le tecnologie sempre più sofisticate…

“E’ ovvio che l’utilizzo del pc è per tutti fondamentale, ma questo non significa che il pc debba sostituire la scrittura. Il fatto è che dobbiamo far usare meno schede, meno penne cancellabili e dobbiamo invece fare usare strumenti più idonei. Nella scuola dell’infanzia ci vogliono meno pennarelli perché non aiutano a imparare la gestione della pressione e l’accuratezza del gesto. I bambini colorano senza stare attenti al rispetto dei bordi: con degli strumenti più idonei si sarebbe un aiuto maggiore ai bambini anche perché alla primaria non ci sono indicazioni sui quaderni da usare, nel senso che ci sono insegnanti che insegnano lo stampato sulla riga e il corsivo nel quadretto perché non ci sono delle direttive”.

All’università queste cose vengono insegnate?

“All’università non ci sono esami che riguardino la didattica della scrittura e questo ce lo dicono le insegnanti che sono preparate sul tema”.

Proviamo a dare un paio di consigli utili ai genitori

“Innanzitutto occorrerebbe dare ai bambini l’opportunità di fare le cose da soli in funzione dell’età. Un bambino deve imparare ad allacciare le scarpe con gradualità, diamo il tempo di mangiare da soli, di infilare il bottone nell’asola, ci sono tanti giochi che sviluppano anche l’intelligenza, anche il gioco della palla va bene, occorre insegnare al bambino a diventare via via più autonomo. Pelare la frutta sarebbe importante ma non so quanti bambini lo sappiano fare. Certo è che nel momento in cui un bambino si sa muovere bene a livello spaziale nel proprio ambiente, acquisisce la capacità di sapersi muovere nei testi che legge e nello studiare in maniera più efficace”.

MIO COMMENTO: Lo dice anche Microsoft…      Potete trovare su questo blog l’articolo “Microsoft: la penna batte la tastiera, se scrivi a mano impari di più” nella categoria “Apprendimento”

Paolo Crepet: “La scuola è fallita. Il 99% degli alunni viene promosso e per i genitori è un diplomificio dove parcheggiare i figli”

FONTE: La Tecnica della Scuola

AUTORE: Redazione

DATA: 31 marzo 2023

In questi giorni si parla molto di disagio giovanile, di problemi psicologici dei ragazzi, di stress della Generazione Z. A dire la sua, facendo un commento molto pungente e, per certi versi, controcorrente, è stato lo psichiatra Paolo Crepet oggi, 31 marzo, intervistato da Radio Cusano Campus all’interno del programma “L’Italia s’è Desta”, come riporta AgenPress.

Fallimento psicologico a causa dei genitori?

“Un dato disarmante quello che riguarda l’onda vasta di malcontento e disagi psicologici tra gli studenti. Personalmente ho sempre avuto un certo timore all’idea che si aprissero questi sportelli di aiuto psicologico negli istituti scolastici. Non so se siano in grado, io penso facciano peggio. Sono scettico sul fatto di considerare tutte le figure coinvolte in grado di evidenziare le reali problematiche che quotidianamente emergono”.

Di fronte all‘alto numero di ragazzi con problemi psicologici Crepet, che mette in evidenza gli sbagli che a suo avviso commettono i genitori in primis, si mostra molto scettico: “Considero questi numeri in percentuale dei ‘falsi positivi’, al primo momento di stanchezza il ragazzo cerca lo psicologo che gli certifichi di essere molto stressato. Il problema degli adolescenti e dei bambini oggi è che hanno dei genitori più giovani, più adolescenti, più paturniati dei propri figli. E per questo motivo siamo di fronte a un vero e proprio ‘marketing della depressione’ che si sviluppa a forza di compatirci”.

Crepet si è poi scagliato contro la Dad, affermando che il disagio dei più giovani è anche conseguenza di come è stata gestita la pandemia: “Io sono stato tra i primi che quando è stata nominata la parola Dad l’ho definita la più grande schifezza che potevamo fare. Bisogna chiudere tutto ma tenere aperte le scuole, almeno parzialmente. Abbiamo detto che andava benissimo fare tutto da casa. Evidentemente è stato un danno, non c’è nulla di peggio di isolare i bambini. E lo abbiamo fatto cocciutamente, due ministri di seguito. Nessuno ha pensato che c’è stato un danno”.

Smettiamola di tutelare i figli nei modi peggiori”

“È necessario considerare una categoria molto vasta, i ragazzi e le ragazze che non hanno voglia di studiare. L’ipotesi che io mi farei da genitore è chiedermi perché mio figlio non studia, prima di decretarne il fallimento psicologico. Io stesso ho ceduto tante volte durante la scuola, ho preso tantissime insufficienze e per fortuna non c’erano gli psicologi. Avevo solo dei genitori che invece che compatirmi mi hanno spronato. Smettiamola di tutelarli nei modi peggiori e di pensare che andare a scuola sia un modo per parcheggiare i figli in un diplomificio”, ha continuato, tirando in ballo la scuola.

“A valle di tutto questo c’è un dato terrificante di cui nessuno si preoccupa, una percentuale altissima, il 99% dei ragazzi che oggi si trovano inseriti in un percorso studi, viene promosso. Basta che si respira si viene promossi. La scuola è fallita. Avete mai visto genitori o ragazzi in sciopero generale contro questo dato evidentemente catastrofico? No perché va bene che quel diploma non conti nulla, perché va bene che metta sullo stesso piano tutti, chi si è sforzato di fare, con chi non ha fatto nulla. Non credo che in questi anni le difficoltà siano aumentate da parte dei professori”.

“Certo che sei più fragile se stai tutto il giorno solo davanti al cellulare. Come si frequentano i ragazzi? Con un emoticon?”, ha aggiunto lo psichiatra.

“Il registro elettronico? Terrificante. I ragazzini non possono più trasgredire. A scuola si trasgredisce: cosa vuol dire, spaccare tutto? No, tentare di prendere sei anche se non hai studiato, è un diritto provarci. Il registro controlla ogni minima mossa. Poi di notte i genitori non sanno dove sono i loro figli”, queste le parole sarcastiche dello psichiatra.

Fuga dal liceo Berchet, ansia e stress negli studenti

Emblematico il caso del liceo classico Berchet di Milano di cui abbiamo parlato: ben 56 studenti hanno lasciato la scuola per trasferirsi altrove. La Repubblica ha condotto un’indagine per capire cosa ci fosse dietro queste decisioni e quale sia il clima che regna nell’istituto.

Dal sondaggio – che chiedeva agli allievi di dare punteggi da uno a cinque su diverse questioni – emerge che oltre la metà di chi ha partecipato (303 allievi) soffre di stress e ansia a causa della scuola, che il 53 per cento sente una forte pressione da parte degli insegnanti e che il 57 per cento non affronta con serenità le prove orali e scritte.

“Ci sono delle difficoltà, per la maggior parte provocate dagli anni di Covid, dal periodo trascorso a casa e dalla didattica a distanza – sottolinea il preside Domenico Guglielmo –. Stiamo cercando di affrontarle con un supporto maggiore di tipo didattico: abbiamo attivato già dall’inizio dell’anno corsi integrativi di italiano e matematica, per rafforzare le basi degli allievi, prevediamo la possibilità di tutoraggio tra pari, quindi con studenti più grandi che affiancano i più piccoli, e, da quest’anno, lo studio assistito con la presenza di un docente”. L’idea è di intervenire sulle competenze dei ragazzi per “cercare di rafforzare la loro fiducia in se stessi”, mettendo poi a disposizione il supporto “di una psicologa presente da tempo a scuola e di un’altra disponibile grazie alle risorse arrivate per far pronte alle conseguenze della pandemia e confermate”.

“Molte criticità erano già presenti prima del Covid, ora stanno venendo alla luce con più forza e non riguardano solo i ragazzi più piccoli – spiega Biancamaria Strano, rappresentante d’istituto e tra i promotori del sondaggio –. C’è un problema, noi lo riconosciamo e vogliamo cercare di cambiare una concezione di scuola sbagliata. A partire dal rapporto tra insegnanti e studenti: chiediamo maggiore sensibilità e attenzione per gli allievi, che non devono sentirsi aggrediti e vedere quindi aumentare i livelli di stress. È importante iniziare un percorso per aprire un dialogo con tutti gli insegnanti. L’obiettivo non è denigrare la scuola, ma far emergere ciò che non funziona e far sì che le cose cambino”.

Mi permetto un commento.

Nell’articolo non vengono individuati alcuni fattori che possono cambiare di molto, a mio avviso, la situazione. Eccoli.

Migliorare di molto la collaborazione scuola-famiglia, che produce effetti sinergici incredibili sulla crescita del ragazzo.

Impegno dei docenti a realizzare una relazione significativa con l’alunno, fatta non solo di insegnamenti ed informazioni, ma di comprensione ed accoglienza, nel dialogo individuale. Non una generica “maggiore sensibilità e attenzione per gli allievi”, come dice la rappresentante d’istituto

Sforzo dei genitori per trovare il tempo di parlare con i figli, tutti i giorni possibilmente. Per conoscerli, quindi capire i loro problemi appena insorgono ed aiutarli.

Firenze e la maestra che dà i compiti per le vacanze di Pasqua: «Divertirsi, giocare, leggere libri, fare qualcosa di gentile»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Alessandra Bravi

DATA: 6 aprile 2023

Alla primaria Vittorio veneto, la maestra dà una lista lunghissima di cose da fare, che sorprende bambini e genitori

Mercoledì 12 aprile, siamo in una scuola di Firenze, la primaria Vittorio Veneto. La maestra della IV B, Morgana Di Ascenzo, dà i compiti per le vacanze di Pasqua: una lista lunghissima, scritta a mano da lei che consegna ai bambini e la fa mettere nel diario. I bimbi cominciano a leggerla: «Morg, ma praticamente non ci hai dato i compiti». Lei li guarda e sorride: «E come no? Vediamoli insieme. Divertirsi e giocare è la cosa fondamentale da fare durante le vacanze, vi auguro di stare con le vostre famiglie e approfondire insieme a loro le tradizioni della Pasqua cattolica e di quella ebraica. Poi, fare qualcosa di gentile e bello... è un compito difficile sapete, a volte? Sconfiggere la noia, guardare il cielo e sentirsi felici e stupiti. Leggere: leggere è il sale della vita, libri, fumetti, tutto quello che vi diverte o vi insegna. Cantare, a squarciagola dentro il proprio letto o al mare, o passeggiando per le vie della nostra stupenda città. E infine, ricordarsi di dire sempre grazie e tante parole gentili: anche questo, spesso è scontato, ma non abbiate mai paura di essere banali». I bimbi capiscono, chiudono lo zaino e appena tornati a casa, dicono ai genitori: «Mamma, babbo, la maestra ci ha dato un sacco di compiti, volete vedere?».

«I compiti  a casa devono essere un'occasione per far esercitare i bimbi e acquisire competenze, velocizzare alcuni automatismi: analisi grammaticale o matematica per esempio - racconta la maestra Morgana -Il resto va fatto a scuola perché la scuola offre tempo per "imparare a fare" e imparare con gli altri. Io non sono contraria ai compiti, è l'occasione offerta al ragazzo per rielaborare le cose apprese e crearsi uno schema proprio. Laddove lo studio può fare favorire questo, i compiti a scuola con i compagni aprono a una dimensione di socialità e confronto, cooperazione che a casa non si può ritrovare».

«Noi insegnanti e genitori organizziamo il tempo e a volte manca loro il tempo per osservare, godere le cose che hanno, stupirsi delle cose normali come un cielo stellato o un fiore che nasce in un giardino pubblico. Io volevo che in queste vacanze i bambini avessero l'occasione per scoprire la bellezza che li circonda, l'occasione di stare con famiglia e amici, avessero modo di scegliere loro cosa leggere e approfondire, conoscessero le loro tradizioni, le riscoprissero in un mondo veloce che ogni tanto bisogna fermare. È importante che i bimbi abbiano anche dei momenti di noia, in cui crearsi il loro tempo, in cui si mettano a pensare. I compiti a casa non devono annoiare perché l'effetto è peggiore, è la quantità a renderli noiosi».

Dipendenze comportamentali e adolescenti: a rischio circa due milioni per cibo, social e videogiochi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Bidoli

DATA:   29 marzo 2023

Dipendenze comportamentali e adolescenti: a rischio circa due milioni per cibo, social e videogiochi

Dalla prima indagine sulle «Dipendenze comportamentali nella Generazione Z» dell’Istituto Superiore di Sanità è emerso che i giovani sono sempre più soli e hanno difficoltà nelle relazioni, anche con i genitori

La generazione Z, la prima generazione di nativi digitali, è a rischio di dipendenze comportamentali. A provarlo uno studio realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità su un campione rappresentativo di ragazzi tra gli 11 e i 17 anni che ha fotografato i preadolescenti e gli adolescenti italiani che risultano essere sempre più soli pronti a riempire i «vuoti» relazionali con cibo, social e videogiochi.
In realtà basterebbe che i giovani «facessero una vita “normale”, socialmente gratificante, dove le sfide sono compatibili con l’adattamento sociale e non necessariamente occasioni di trasgressione. Dobbiamo puntare a questa normalità, che nei ragazzi in età adolescenziale significa mettersi alla prova e uscire dal nido, ed è ciò che li salva nella crescita», spiega Daniele Novara, pedagogista, counselor e fondatore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (CPP).

 

Dipendenza da cibo

È quella del cibo la dipendenza più diffusa: riguarda oltre un milione e 150mila ragazzi (in maggioranza di sesso femminile delle scuole superiori) e in 1 caso su 10 è in una forma considerata grave. «Le dipendenze legate agli alimenti c’entrano con la pandemia, con l’aver trascorso un periodo molto lungo chiusi in casa. Il mangiare è diventato un’attività compensativa che facciamo ancora fatica a lasciare alle spalle», puntualizza Novara che continua. «Il cervello preadolescenziale e adolescenziale è un cervello compensativo, ovvero ha un bisogno sistematico di «compensarsi» nelle aree del piacere. È un cervello che è alla ricerca continua di gratificazioni e che, per natura, è opportunistico sul piano dei compiti sociali e molto sensibile sul piano della compensazione dell’area celebrale del piacere. Qui si tratta però di riflettere su cos’è pericoloso e cosa non lo è. Per esempio, lo sport è una classica attività di compensazione che non è pericolosa, anzi positiva. Permette ai ragazzi di vivere l’età, con le sue caratteristiche, senza metterli in pericolo.
Viceversa il tipico abbassamento del senso di pericolo, che riguarda alcuni giovani, potrebbe portali ad affrontare situazioni pericolose, oppure anche il fenomeno di isolamento sociale (noto come Hikikomori ) mette i ragazzi a rischio».

 

Dipendenza da videogiochi

Al secondo posto dei comportamenti a rischio di dipendenza ci sono i videogiochi.
Il problema vede coinvolto il 12% degli studenti (con una prevalenza nei maschi delle scuole secondarie di primo grado per i quali la percentuale arriva al 18%), con effetti legati a una maggiore incidenza di depressione, aggressività e ansia sociale.
«Qui la difficoltà è generata dalla tendenza che hanno i genitori, e in parte anche gli insegnanti, alla condivisione con gli adolescenti piuttosto che all’educazione degli adolescenti», spiega Novara. «Le pratiche educative, fatte di regole e limiti, sono state sostituite dalle pratiche di cura semplice e condivisione di tempo e/o interessi e questo porta a dei problemi. Pensiamo all’utilizzo notturno dei dispositivi digitali, che è una delle abitudini più negative che ci sia, per gli esiti scolastici ma anche perché favorisce irritabilità e disturbi alimentari. Spesso i genitori anziché intervenire sono compiacenti, aspettano che sia il ragazzo a decidere di non usare più i videogiochi di notte e questo è impossibile. Una volta che il cervello si “aggancia” alle sue aree di piacere, come nel caso di utilizzo prolungato di un device, non è più in grado di avere funzioni reversibili, ossia di fare retromarcia. Per cui il problema è ancora una volta nel mondo degli adulti. Non possiamo semplicemente condividere il tempo con gli adolescenti e compiacerli, abbiamo un ruolo educativo», dice l’esperto.

 

Dipendenza da social

La dipendenza dai social media riguarda, invece, un ragazzo su 40 (con una prevalenza nelle ragazzine over 14) con conseguenze sul piano dell’ansia sociale e una maggiore incidenza di impulsività. «Il Covid ha portato un fenomeno di cui vediamo gli affetti: il prolungamento dell’accudimento materno in adolescenza.
In questa fase della crescita l’attaccamento materno, che è una forma di cura tipica dell’infanzia, diventa deleteria per i ragazzi che hanno bisogno di sentire e provare le “sfide” della vita», spiega il pedagogista. «I figli vanno accompagnati nella crescita e guidati, soprattutto nell’adolescenza. Per quanto riguarda i social, basterebbe rispettare il decreto che ne vieta l’utilizzo sotto i 14 anni. Che senso ha che dei ragazzini frequentino lo smartphone come e quanto frequentano la scuola (o anche di più)? Significa che c’è una deroga da parte delle famiglie e dei genitori che poi produce una serie di situazioni potenzialmente pericolose», dice Novara.

 

Difficoltà nelle relazioni

I ragazzi tra gli 11-13 anni con un rischio di “dipendenza social” dichiarano una difficoltà comunicativa con i genitori nel 75,9%, quelli che soffrono di “dipendenza da videogiochi” nel 58,6%, quelli con una “disturbo alimentare” grave nel 68,5%. Percentuale che arriva al 77,7% nei ragazzi delle scuole superiori che presentano una tendenza rischiosa al ritiro sociale. «C’è una difficoltà comunicativa nei ragazzi, è la paura di trovare una resistenza nell’altro. Ed è il tema tipico della gestione dei conflitti: cosa fare quando gli altri non fanno quello che tu desideri che facessero e capita, soprattutto, nei giovani che hanno avuto un maternage (accudimento materno) prolungato. I ragazzi hanno bisogno di affrontare le sfide, non di essere sostituiti in tutto per tutto dai genitori che, invece, dovrebbero accettare il loro allontanamento e gestirlo il meglio possibile. Se i ragazzi vogliono uscire, fare esperienze fuori dal nucleo familiare è normale, così come è giusto che in adolescenza considerino la casa un “albergo” , c’è da preoccuparsi se dovesse accadere il contrario. Il problema delle relazioni, però non riguarda solo il rapporto con i genitori ma anche quello tra pari. I giovani devono imparare a relazionarsi, a gestire frustrazioni e le comunicazioni “difficili” con i coetanei», spiega Novara.

 

Cosa deve preoccupare i genitori

I genitori si devono allarmare se vedono che il figlio tende a isolarsi, o se inizia a sottrarsi agli impegni. «Non volere andare a scuola, per esempio, è un segnale molto negativo», dice l'esperto. «Prima di guadare le dipendenze esplicite, bisognerebbe guardare se l’adolescente sta sfidando la vita o se si sottrae. Se si sottrae, prima o poi, si metterà nei guai. L’isolamento è l’anticamera delle dipendenze, per esempio dai videogiochi. I genitori di solito sono preoccupati dalle cattive compagnie ma, in realtà, il problema più grosso è la mancanza di compagnia. Le cattive compagnie ci sono, ma sono rare, la mancanza di compagnie si lega a un elemento depressivo che sta diventando molto comune tra i ragazzi e le ragazze di oggi. Se un giovane non ha interessi, si ritira, finisce in un vuoto che verrà prima o poi riempito da qualcosa, e spesso quel qualcosa sono dipendenze dannose» conclude Daniele Novara.

Il ruolo motivazionale del docente

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 16 febbraio 2023

LINK: ... era sul giornale cartaceo

Sotto l'immagine c'è il testo, per una lettura più agevole

Caro Direttore,

ho riscontrato, parlando con le mie colleghe, che la maggior parte di loro non ha mai fatto una riflessione sulle motivazioni che dovrebbero portare uno studente ad impegnarsi nello studio. E le motivazioni sono un elemento fondamentale per il successo di una qualsiasi persona, sia a scuola che nella vita.

Pur avendo io conoscenze relative alla scuola elementare, penso che le motivazioni che dovrebbero spingere un ragazzo allo studio, opportunamente adattate, siano le stesse anche per un ragazzo delle medie e del liceo. Esse dovrebbero essere condivise con i genitori nel primo incontro di inizio anno scolastico.

Un bambino di cinque anni che passa dalla scuola materna alla primaria deve accettare un cambiamento notevole della sua vita, che gli richiederà sicuramente un impegno che non gli era stato mai chiesto. Pur se, si spera, con gradualità ed in allegria; ed anche con la cura degli insegnanti a non trascurare mai la possibilità che l'apprendimento avvenga soprattutto con attività ludiche.

Perché il bambino dovrebbe accettare questo cambiamento?

Sono rari, secondo la mia esperienza, ormai decennale, i bambini di età compresa fra i sei e i dieci anni che studiano per il piacere di studiare.

Il piacere di apprendere, di migliorare, è invece determinato da alcuni fattori che ora vado ad analizzare.

 

La famiglia.

Il bambino, se sereno, felice, ha il piacere di corrispondere alle conosciute attese dei genitori relativamente al suo impegno scolastico. Naturalmente queste conosciute attese non devono essere eccessive, altrimenti potrebbero creargli ansia. Ed è importante che il bambino sappia, grazie alle parole dei genitori, di poter sbagliare, che l'impegno è l'aspetto più importante del suo lavoro, e che i risultati positivi verranno sicuramente (atteggiamento ottimistico). Inoltre accresce l'impegno del bambino anche la volontà di "diventare grande".

Qualcuno potrebbe obiettare: dipende dalla famiglia del bambino. Certo, il contributo non sarà sempre ottimale, ma sempre determinante. E queste non sono parole.

Ho insegnato anche a Tor Bella Monaca, un quartiere della periferia romana che non gode di buona nomea; anzi. Ebbene, quasi tutti i genitori dei miei alunni hanno collaborato attivamente. È bastato rivolgersi a tutti, in assemblea all’inizio dell’anno scolastico, evidenziando quanto fosse importante la nostra collaborazione per il bene del figlio; e poi trattarli con il dovuto rispetto durante i colloqui individuali.

Oltretutto così facendo si aiuta la famiglia a migliorare la propria capacità di interazione con il figlio, compito al quale nessuno l’ha preparata.

 

Rapporto con i docenti.

Se il bambino instaura un buon rapporto con i docenti, un po' studia anche per non deludere le loro aspettative.

 

Il gruppo.

Se il bambino si trova bene a scuola, con i compagni, ha il piacere di stare con loro, di identificarsi nel gruppo; e se il gruppo studia, anche lui non vuol essere da meno. È quindi importante che i docenti favoriscano buoni rapporti interpersonali fra gli studenti. Questo aiuta molto a prevenire fenomeni di violenza, bullismo e discriminazione.

 

Analogia con il lavoro dei grandi.

Al bambino piace l'idea che lui con la sua attività scolastica "lavori come la mamma o il papà". Anche questo fattore è opportuno che gli sia evidenziato con continuità.

 

Vantaggi pratici.

Il bambino si rende facilmente conto dei vantaggi concreti che gli offre lo studio: capacità di esprimersi meglio in lingua; abilità di calcolo utilissime; regali vari in occasione di voti o giudizi particolarmente positivi (lo so, quest'ultimi possono essere considerati "mezzucci"; ma sono fra quelli più efficaci, anche quando si può iniziare a proporre il fattore del quale ora parlerò).

 

Visione etica dello studio.

Questo fattore, che si comincia a proporre ai ragazzi in terza, quarta elementare, è sicuramente il più importante. Altrimenti è inutile fare lezioni di educazione civica.

Purtroppo è anche il più difficile da far germogliare nella mente e nel cuore dei ragazzi; alcuni vanno in prima media senza ancora possederlo.

Ecco allora che l'azione fondamentale del docente non può essere solo quella di insegnare all'alunno cosa e come studiare, ma soprattutto quella di persuaderlo, in stretto accordo con la famiglia, a voler studiare, avendo come fine ultimo l'acquisizione da parte dell'alunno della motivazione principale, quella etica, che lo deve spingere a studiare per poter rispondere un domani alla sua vocazione, quale essa sia, per dare il suo contributo alla società; forse all’umanità.

E per portare avanti un'azione del genere, durante la quale l'insegnante opera come un catalizzatore, che favorisce le varie "reazioni chimiche" nella mente del bambino, possibilmente senza intervenire direttamente in esse, intervenendo sui fattori positivi per lo studio, affinché l'alunno ne acquisisca consapevolezza, e rimuovendo  progressivamente quelli negativi, è a mio avviso indispensabile che  il docente e il discente non siano solo tali, ma che tra essi si stabilisca una relazione significativa tale che l'alunno sappia che è accettato, amato e rispettato prima di tutto come persona, a prescindere da ogni risultato scolastico.

Se si realizza questa relazione (se si lavora nel "cuore dell'uomo") si ha un ragazzo fortemente motivato; e se l'insegnante ha competenze professionali adeguate i risultati sono sicuri e stabili nel tempo.

E non c'è paragone con quanto si può pensare di ottenere solo instillando nell'alunno nozioni dall'esterno, come si fa nell'ammaestrare gli animali, perseguendo tante piccole mete; oppure imponendo una disciplina ferrea con atteggiamenti duri; oppure concedendo tutte le libertà, per acquisire la loro benevolenza.

Come ho già detto, la motivazione etica si comincia a proporre generalmente dalla terza elementare.

Naturalmente affinché si stabilisca questa relazione significativa è molto importante che il ragazzo stimi gli insegnanti e sappia che essi godono della totale fiducia della famiglia. Senza che quest’ultima si precluda la possibilità di valutare, anche negativamente, il lavoro degli insegnanti.

È opportuno però che la famiglia parli di eventuali problemi con l'insegnante, mai con il bambino o davanti a lui.

È questa una "conditio sine qua non" per realizzare la relazione significativa fra gli insegnanti e l'alunno, indispensabile per ottenere risultati positivi. Un altro elemento molto importante per buone relazioni in classe è l’allegria. L’angolo della barzelletta, previsto tutti i giorni verso la fine della giornata scolastica, vi ha sempre contribuito molto.

«Lo smartphone? E’ come la cocaina e gli studenti italiani sono decerebrati»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORI: Gianna Fregonara e Orsola Riva

DATA: 20 dicembre 2022

«Lo smartphone? E’ come la cocaina e gli studenti italiani sono decerebrati».

Ecco il documento che ha ispirato Valditara

di Gianna Fregonara e Orsola Riva

La relazione del senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sui danni fisici, psicologici e mentali dello smartphone è stata allegata alla circolare sul divieto di cellulari in classe

«Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica». Non è un libro di fantascienza distopica, è la relazione presentata a giugno dell’anno scorso dal senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sull’impatto del digitale sugli studenti (leggi qui il testo integrale) che il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha allegato alla sua circolare sullo stop all’uso del telefonini in classe. Un’indagine che paragona l’uso e abuso dello smartphone (chissà perché solo da parte dei giovani) alla tossicodipendenza. «Niente di diverso dalla cocaina - scrive Cangini nella relazione mandata da Valditara alle scuole -. Stesse, identiche, implicazioni chimiche,neurologiche, biologiche e psicologiche».

 

La Corea del Sud

A sostegno di questa tesi vengono portate le opinioni raccolte da neurologi, psichiatri, psicologi, pedagogisti, grafologi ed esponenti delle Forze dell’ordine «auditi» nel corso dell’indagine conoscitiva portata avanti da Cangini. Si cita il caso limite della Corea del Sud dove «il 30 per cento dei giovani tra i dieci e i diciannove anni è classificato come «troppo dipendente» dal proprio telefonino: vengono disintossicati in sedici centri nati apposta per curare le patologie da web». In Cina, scrive ancora Cangini, « i giovani “malati” sono ventiquattro milioni. Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, naturalmente concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti oltre quattrocento». Sempre per restare nell’Estremo Oriente si fa anche un riferimento en passant agli hikikomori giapponesi: ragazzi che «vegetano chiusi nelle loro camerette perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà. Un milione di zombi».

Il mondo nuovo

La conclusione non è meno apocalittica: lo smartphone, dice Cangini, atrofizza il cervello e «non è esagerato dire che decerebrando le nuove generazioni». «Tutte le ricerche internazionali citate nel corso del ciclo di audizioni - è scritto nella relazione - giungono alla medesima conclusione: il cervello agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e l’uso di dispositivi digitali (social e videogiochi), così come la scrittura su tastiera elettronica invece della scrittura a mano, non sollecita il cervello. Il muscolo, dunque, si atrofizza. Detto in termini tecnici, si riduce la neuroplasticità, ovvero lo sviluppo di aree cerebrali responsabili di singole funzioni». Pleonastico a questo punto anche scomodare Aldous Huxley come fa Cangini evocando la «dittatura perfetta» da lui vaticinata nei suoi libri di fantascienza: «Una prigione senza muri in cui i prigionieri non sognano di evadere. Un sistema di schiavitù nel quale, grazie al consumismo e al divertimento, gli schiavi amano la loro schiavitù». Quella dittatura, conclude Cangini, è già realtà. I nostri figli, i nostri nipoti, in una parola il nostro futuro sono già «giovani schiavi resi drogati e decerebrati». Questo sono gli studenti italiani.

20 dicembre 2022 (modifica il 20 dicembre 2022 | 18:16)

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