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Il cattolico Babbo Natale

FONTI VARIE

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: qualche anno fa

 

 

Chi ha in mente alcune pubblicità natalizie faticherà a credere che Babbo Natale, il povero personaggio polare, era cristiano, anzi era addirittura un vescovo; e gliene è rimasta traccia nel nome scandinavo di Santa Claus (contrazione di Sanctus Nicolaus).

San Nicola, infatti, era presule di Mira (oggi Demre, in Turchia) all’inizio del IV secolo e il suo culto fu popolarissimo per tutto il Medioevo, sia in Oriente che in Occidente.

In mancanza di particolari storici sulla sua vita, furono numerose le leggende che gli attribuivano addirittura la resurrezione di morti e altri miracoli, una turbolenta partecipazione al concilio di Nicea e naturalmente il fatto generoso che fu poi all'origine del suo mito postumo: prima ancora di essere vescovo, il giovane e ricco Nicola una notte avrebbe gettato delle monete d’oro nella casa di tre ragazze, che a causa della loro povertà avevano deciso dì seguire una cattiva strada.

E il gesto cristiano, compiuto furtivamente (secondo i racconti il malloppo fu buttato attraverso la finestra o addirittura giù dal camino), è lo spunto della successiva tradizione dei doni natalizi ai bambini. Già verso la fine del XII secolo a Parigi ogni 6 dicembre uno studente travestito da San Nicola distribuiva doni agli orfani e ai figli dei poveri.

Che Santa Claus sia non solo cristianissimo, ma anche beato, del resto lo testimonia pure la circostanza che ancor’oggi in alcuni paesi (per esempio il Tirolo cattolico o certe zone della Francia) per la sua festa liturgica (il 6 dicembre) San Nicola percorra le strade di città e villaggi vestito dei paramenti sacri, con mitra e pastorale, donando dolciumi ai bambini, esattamente come il suo demonizzato alter ego Babbo Natale.

Non solo: le vesti rosse e bordate di pelliccia, nonché la barba e il cappuccio del noto personaggio natalizio non sarebbero altro che la diretta discendenza del piviale purpureo, della mitra e della fluente canizie dell’originale, l’antico presule turco.

Altro trasparente indizio del cristianesimo (anzi: cattolicesimo) di Santa Claus viene per paradosso dalla trasformazione che della sua diffusissima figura fecero per un verso i protestanti e per l'altro, l'accostamento non ha alcuna malizia, i comunisti.

I primi subito dopo la Riforma, e in opposizione al culto dei santi, soppressero la devozione natalizia di San Nicola e tentarono di sostituirlo con figure più «laiche»: per esempio, in Germania il Weihnachtsmann ("l'uomo della Notte Santa”); in Finlandia il capo degli elfi dei boschi, Joulupukin; in Norvegia Julenissen.

Anzi, a ben vedere, fu proprio Martin Lutero nel 1535 a far spostare la consuetudine dei doni familiari dal 6 al 25 dicembre, da San Nicola a Gesù Bambino. Quest’ultimo, inteso come «portatore di doni», è dunque forse più "protestante" del povero Santa Claus.

Comunque non dappertutto si smarrì la memoria del santo vescovo Nicola, che proprio allora cominciò a camuffarsi anche nel nome per rendere meno trasparenti le sue reali origine religiose.

Accadde anche nell'Urss dopo la Rivoluzione d'ottobre. Coerentemente con la loro ideologia, i bolscevichi si adoperarono infatti per scalzare la fortissima devozione degli ortodossi per San Nicola contrapponendogli il pagano Nonno Gelo: un vecchietto vestito d'azzurro ripescato da un'antica leggenda e senza alcun richiamo religioso.

Purtroppo nel frattempo Santa Claus era emigrato in America e là nel secolo scorso aveva acquistato le renne volanti, la slitta magica e soprattutto le note prerogative commerciali e consumistiche (non bisogna dimenticare che il rosso personaggio è stato il testimonial privilegiato della Coca Cola).

Di lì, appesantito da tanto fardello, nel secondo dopoguerra il Vescovo, ormai secolarizzato, è tornato a colonizzare 1’Europa. Ma ormai i cristiani non lo riconoscevano più e lo hanno abbandonato al folklore interessato dei grandi magazzini.

Tuttavia qualcosa delle sue radici cristiane potrebbe essere rimasto impigliato in quella barba tradizionalmente tempestata di ghiaccioli o nei risvolti del cappuccio.

La stessa idea del dono natalizio, per esempio, sarebbe teologicamente corretta e profondamente evangelica. Non solo per il precedente dell’oro, incenso e mirra presentati a Betlemme dai Re Magi, ma anche perché a Natale il mondo riceve da Dio il "regalo" inestimabile di suo Figlio.

Insomma, come non è affatto vero che la tradizione dell’albero di Natale sia di origine «pagana" (perché invece discende dalle sacre rappresentazioni medioevali in cui alla pianta del peccato originale veniva contrapposto l’albero salvifico della Croce), potrebbe darsi che, invece di demonizzarlo, contrapponendolo tout court all’”ortodossia” di Gesù Bambino, sia più utile strappare a Santa Claus la maschera del consumismo per cercare dì recuperarne il nucleo cristiano.

Umberto Galimberti: «Io, un padre carente. Se per i figli resta tempo solo la sera davanti alla tv, abbiamo sbagliato tutto»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORI: Maria Luisa Agnese e Greta Sclaunich

DATA: 24 marzo 2023

Intervista al filosofo: «Sono favorevole ai telefonini ai ragazzi: se fin da piccoli hai parlato molto con loro, loro continueranno a parlare con te. I nuovi padri? Li vedo abbastanza male, sono caduti nel mito del giovanilismo»

Padri di ieri e padri di oggi, a confronto: ne parla il filosofo Umberto Galimberti, saggista, psicanalista e seguitissimo protagonista di conferenze per l’Italia, che qui riflette sugli errori delle due generazioni, arrivando anche ad ammettere qualche mancanza personale, di non essere stato talvolta un buon padre per sua figlia. «Se devo seguire i miei progetti e dedicarmici tutta la giornata, e quando torno a casa ai miei figli resta solo un po’ di tempo insieme davanti alla tv, allora abbiamo sbagliato tutto»: un rimbrotto che vale per tutti i papà (e le mamme) del passato e del domani. Questo non vuol dire che persino Galimberti sia stato del tutto distratto: anche lui ha cambiato i pannolini, «ho pure pulito il sedere, queste cose qui si fanno naturalmente. Se uno non cambia un pannolino a suo figlio, dove è rimasto?».

Ma cosa è cambiato dalla sua generazione a oggi?
«Prima del ‘68 vivevamo nell’età della disciplina, il messaggio della famiglia coincideva con quello della società: se vuoi raggiungere i tuoi obiettivi lavora e sacrìficati. Dopo il ’68 questa società si è smobilitata per un anelito di libertà: il motto era Vietato vietare! Poi, su questa componente si è inserita l’importazione della cultura americana che richiedeva autoaffermazione e performance spinta. La cultura americana e la cultura del ‘68 sono confluite: le regole possono ammettere tranquillamente le deroghe, però dal lunedì al venerdì tu devi funzionare a livello di performance, competenza, velocizzazione del tempo, il sabato e domenica fai quello che vuoi».

Sclaunich: Questo ha cambiato anche il modo di fare i genitori.
«Prima i genitori erano supportati dalla società e quindi era riconosciuta l’autorità paterna, che era sostanzialmente quella della tradizione. Poi i padri sono diventati amici dei figli, sono caduti nel mito del giovanilismo, hanno ceduto alle loro dimensioni affettive calibrate sulla pura passione per cui quando finisce la passione ci si separa e si divorzia. In pratica la società ha insegnato il principio di piacere (perché la società è diventata opulenta) che si è riverberato anche nell’ambito della famiglia».

«SONO FAVOREVOLE AI TELEFONINI AI RAGAZZI: SE FIN DA PICCOLI HAI PARLATO MOLTO CON LORO, LORO CONTINUERANNO A PARLARE CON TE»

Agnese: Ora non è facile riconquistarsela, l’autorevolezza.
«Le parole dei genitori sono efficaci da zero a 12 anni. Dopo i ragazzi devono andare incontro alla separazione dal mondo genitoriale e passare dall’amore incondizionato da cui sono stati gratificati quando erano bambini, all’amore condizionato che è quello orizzontale con i propri amici. I padri di solito non parlano con i figli: nella società della disciplina incaricavano le madri ma anche dopo hanno continuato a non farlo, perché si annoiano. Le madri invece parlano sì, però sempre a livello fisico: non uscire con i capelli bagnati, mettiti la maglia, stai attento ai semafori. Mai una domanda psicologica, mai che si chieda al figlio: sei felice?».

Agnese: Lei ha fatto mai questa domanda a sua figlia, sei felice?
«Se proprio insiste, glielo dico: no. Mia moglie lavorava in maniera assidua in un laboratorio di biologia molecolare, io mi occupavo di libri perché pensavo che i figli avessero bisogno di una famiglia sana, e che sarebbero cresciuti sani, automaticamente».

Sclaunich: Quindi vale l’esempio.
«L’esempio è quello che deve funzionare dopo i 12 anni, appunto. Dopo quell’età è inutile che i genitori si lamentino perché i figli non parlano: non lo fanno perché prima i genitori gli hanno parlato pochissimo o comunque non abbastanza. E quando i figli parlano, i genitori devono ascoltarli. Ma con l’atteggiamento di chi pensa: forse io ho qualcosa da imparare da te, sono interessato alle competenze che tu hai e che io non ho. Se c’è questa disposizione, i figli ricominciano a parlare».

 

Sclaunich: Un cambio di passo, ascoltarli senza fare gli amiconi.
«I genitori oggi si vedono in quella funzione castrante che è quella di proteggerli all’infinito. Io nella scuola secondaria superiore proporrei l’abolizione della presenza dei genitori: via, radicalmente. Perché i genitori sono interessati alla promozione, non alla formazione dei loro figli. Se non sono promossi ricorrono al Tar, e cosa fanno i professori per non aver rogne? Li promuovono tutti. Evviva. E poi non consentono ai figli di impostare quel rapporto iniziatico per cui già a partire dalla prima e seconda liceo se hanno problemi ne parlino direttamente all’insegnante, non al padre che poi va dall’insegnante. Quando si emancipano questi ragazzi?».

Sclaunich: Come vede i nuovi padri?
«Li vedo abbastanza male, sono ancora peggiorati; da quando è entrata la psichiatria nella scuola sono diventati tutti disgrafici, dislessici, acalculici, asperger, autistici… è una clinica la scuola elementare! Perché i professori vogliono una ricetta per un corso scolastico privilegiato alleggerito, semplificato. Ci saranno anche disgrafici e dislessici ma non in queste proporzioni: quando io andavo alle scuole elementari qualcuno faceva fatica a leggere, si esercitava un po’, poi leggeva».

Agnese: Cos’è cambiato?
«Per leggere, per scrivere, oggi noi siamo passati da un’intelligenza sequenziale, che è quella che serve per leggere e scrivere da sinistra a destra e poi riprendi nelle righe successive, a una intelligenza simultanea che è quella dell’immagine. Quando guardo un quadro non devo passare da sinistra a destra e poi ricominciare da capo. Se io leggo c-a-n-e, cane, il mio cervello di fronte a questo segno grafico deve costruire l’immagine del cane. Se ce l’hai lì davanti l’immagine, il cervello è esonerato, ed è chiaro che poi saltano fuori disgrafici e dislessici».

Agnese: Lei introduce il tema del sacrificio. Già da piccoli bisogna fare fatica?
«Nei miei sillabari, nel 1947, non c’era neanche un’immagine e dovevamo noi costruirla a partire dalla lettura, dai segni grafici».

Agnese: Lei con i ragazzi non usa mai l’analisi o la psichiatria, ma la filosofia. Serve di più: lo sostiene anche nell’ultimo libro, Le grandi domande. Filosofia per giovani menti, scritto con Luca Mori per Feltrinelli.
«Li sollecito con le grandi domande, tipo: perché sono al mondo? Cosa significa pensare? Cosa vuol dire crisi? Dio esiste? Quello che è importante non è che i bambini studino filosofia, ma che imparino a filosofare, a porsi delle domande. Mentre noi viviamo in una cultura che cerca sempre risposte, ricette, diagnosi, per stoppare l’inquietudine della domanda. Nelle mie conferenze non accetto domande, perché le domande tengono viva la mente e le risposte la stoppano».

Sclaunich: Quindi va bene per un genitore non avere tutte le risposte?
«Certo. Ma un genitore deve capire che la domanda del bambino spesso ne nasconde una diversa. Un giorno ho sentito un bambino dire alla sua mamma che, secondo lui, Dio non esiste perché non ha una mamma: lei si è messa a ridere, ma la sua affermazione avrebbe dovuto essere presa sul serio perché il piccolo stava cercando il principio di causalità, e la mamma avrebbe dovuto spiegarglielo».

Agnese: Lei fa tutto questo con i suoi nipotini?
«Nella stessa maniera per cui sono stato carente come padre sarò ancora più carente come nonno. (Ride). Li vedo raramente perché sono sempre in giro a far conferenze. Però mia figlia ha fatto la mamma in una maniera eccezionale: tutto quello che so su come crescere i ragazzi l’ho imparato da lei».

Agnese: Cosa ha imparato da lei?
«Per esempio il fatto che con loro si deve parlare tanto, che bisogna renderli autonomi e curare questa autonomia, gratificandoli quando fanno un passo avanti e cercando di capire insieme perché ne fanno uno indietro. Solo la comunicazione frequente e assidua e l’attenzione li fanno crescere bene. Rispetto al rapporto che ha mia figlia con i miei nipoti mi rendo conto di quanto io sia stato invece carente, con lei ho parlato poco».

Sclaunich: Lei si paragona a sua figlia come se non ci fossero differenze di genere, come se il genitore “bravo” fosse indifferentemente mamma o papà.
«Certamente. Io ai genitori di oggi non do nessun consiglio, tutto dipende dalla relazione genitoriale che c’è tra moglie e marito, moglie e moglie, marito e marito. Se la relazione funziona è già una salvaguardia per il figlio, e perché funzioni è necessario che nessuno dei due consideri il suo partner “mio”. Cosa sono questi aggettivi possessivi? L’altro è, appunto, un altro e più è altro più mi incuriosisce per la novità che rappresenta. Se lo considero “mio” lo incasello in un contesto in cui è significativo solo in quanto risponde a un mio bisogno o necessità. Queste categorie del possesso ci sono in tantissime coppie genitoriali, e poi ci meravigliamo dei femminicidi. Io e mia moglie siamo stati insieme 41 anni e funzionavamo benissimo. Quando si entra nelle famiglie a volte si sente urlare, altre volte c’è quel silenzio, soprattutto nelle classi borghesi elevate, che è più freddo dell’ira. Quel gelo che si crea nella non comunicazione generale, e che i telefonini hanno amplificato: avete presente quelle famiglie al ristorante, ognuno con il suo cellulare in mano e ognuno nel suo mondo?».

 

Sclaunich: Anche qui vale l’esempio. Come facciamo a togliere i cellulari ai nostri figli se noi genitori lo abbiamo sempre in mano?
«Io in questo sono un ottimo esempio: ci sono voluti dieci anni perché ne prendessi uno e anche adesso lo lascio spesso in cucina quando devo lavorare, non mi interessa chi mi scrive o mi chiama. Però in realtà sono abbastanza favorevole al fatto che si diano i telefonini ai ragazzi. Sennò li si priva della socializzazione, che purtroppo avviene ormai solo attraverso questi schermi. Non ha nessun senso porre limiti, se non di tempo: per esempio non devono usarli a scuola».

Agnese: Quindi, sì al cellulare. Sì anche ai social?
«Non dobbiamo pensare che noi abbiamo dei pensieri e la parola serve per esprimerli: è il contrario, se le parole sono poche tu pensi poco. Come fai a pensare una cosa per la quale non hai la parola? I ragazzi sui social passano il tempo a dire come si sono vestiti e pettinati, e il loro linguaggio si limita a questo. Una volta per conoscere il mondo si usciva di casa, oggi si sta a casa con il computer e il telefonino. Tu vivi il mondo che ti hanno allestito, non quello di cui fai esperienza».

Sclaunich: Un genitore può fare qualcosa per arginare questo fenomeno?
«Dobbiamo persuaderci che alcuni fenomeni sociali sono irreversibili. Ma torniamo sempre là: se con tuo figlio hai parlato tanto anche se lui usa social e telefonino continuerà a parlare con te».

23 marzo 2024

Cosa passa nella mente degli adolescenti?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Bidoli

DATA: 19 maggio 2024

Il loro cervello è una lente di ingrandimento sul mondo, particolarmente sensibile a cogliere gli stimoli dall’esterno e a vivere nuove esperienze, in un equilibrio precario tra potenzialità ancora inespresse e fragilità

È un periodo unico nella vita dell’individuo in cui si fanno scelte (e rinunce) che definiranno la persona che si sarà in età adulta. L’adolescenza descrive il passaggio dall’infanzia alla completa maturazione, che biologicamente avviene tra gli 11 e i 25 anni, caratterizzato dalla trasformazione corporea e dallo sviluppo dei sistemi neurobiologici (quelli che determinano l’elaborazione delle informazioni e orientano i comportamenti). Questi processi portano a una riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello che andrà a definire molte delle capacità, abilità e modalità che costituiranno il modo di agire e pensare «da grandi».

La nostra identità, come ragioniamo e ci rapportiamo con gli altri trova le sue basi in questa fase della vita ricca di potenzialità, ma anche delicatissima, in cui molto di ciò che viviamo e sperimentiamo, che è in costante rapporto «dialettico» con il nostro patrimonio genetico, ha effetti strutturali a lungo termine. L’esposizione a «fattori positivi», di tipo fisiologico (sonno, alimentazione, attività fisica), relazionale (legami affettivi ed educativi) ed esperienziale (scuola, viaggi, attività), così come quella a «fattori tossici» (utilizzo di sostanze stupefacenti, alcol, insonnia, psicopatologie non trattate) non solo orientano ma plasmano e scolpiscono il cervello. Gli stimoli ricevuti durante l’infanzia generano la formazione di reti neurali che consentono l’apprendimento delle abilità, ma è poi in adolescenza che avviene il fenomeno dell’use it or lose it in cui si sceglie che cosa rinforzare e che cosa «potare» (il fenomeno è detto pruning sinaptico), una selezione che andrà a determinare chi saremo in età adulta.

Se l’adolescenza è un passaggio fisiologico all’età adulta caratterizzato dalla trasformazione corporea e da una profonda riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello, che è particolarmente malleabile, plastico e portato all’apprendimento, quella di oggi, che riguarda la cosiddetta Generazione Z, è considerata particolarmente a rischio. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono tra il 10 e il 20% i bambini, ma soprattutto gli adolescenti, che soffrono dal punto di vista psichico, con il 75% delle patologie che esordisce prima dei 25 anni e la metà che presenta sintomi entro i 14 anni, in particolare depressione, ansia e disturbi comportamentali.

 

Perché la Generazione Z è così in crisi? Colpa della pandemia di Covid?

«Quello a cui assistiamo non dipende solo dall’esperienza vissuta durante la pandemia, che certo ha inciso negativamente sulla psiche dei ragazzi. Occorre innanzitutto riconoscere che la nostra epoca è caratterizzata da profonde trasformazioni di “tempo e spazio” a causa dello sviluppo iperbolico e rapidissimo della tecnologia, — spiega Giovanni Migliarese, psichiatra direttore SC Salute Mentale Lomellina Asst Pavia e segretario della sezione lombarda della Società Italiana di Psichiatria —. Negli ultimi anni c’è stato uno stravolgimento degli “assi cartesiani” su cui si basa la nostra esistenza e, come società, siamo ancora in piena trasformazione. Gli spazi sono diventati fluidi, non ci sono confini, il tempo è accelerato: la iper-connessione ci porta a non “staccare mai” e a essere sempre sotto stimolo. Ciò ha un impatto sulla salute psichica di tutti, ma soprattutto dei giovani. Basti pensare che il mondo in cui i ragazzi imparano, giocano e interagiscono è cambiato di più negli ultimi 15 anni che nei 500 precedenti e anche il ritmo di penetrazione dei dispositivi tecnologici è senza precedenti: 38 anni per la radio, 20 per il telefono e solo 2 anni per il tablet.

«Ciò incide particolarmente sui giovani perché le nuove tecnologie rispondono alle tipiche esigenze del periodo adolescenziale: desiderio di condivisione tra pari, volontà a essere sempre “connessi”, tendenza alla sperimentazione, ricerca delle novità. La specifica responsività adolescenziale del sistema del piacere viene costantemente stimolata da social network, giochi online, video e dagli altri prodotti digitali multisensoriali. Il rischio per il cervello è un’iperstimolazione sensoriale, mentre avrebbe bisogno di selezionare le informazioni e avere periodi di riposo (i cosidetti resting state) necessari per elaborare gli inputriorganizzare le reti neurali ed eliminare le scorie prodotte. Di solito questa attività avviene di notte, ma qui c’è un altro punto dolente: il sonno degli adolescenti, per colpa, anche dell’iper-connessione, è spesso disturbato con effetti che riguardano non solo l’aumento del livello di stress ma anche modificazioni sistemiche, tra cui alterazioni degli equilibri ormonali e immunitari», risponde lo psichiatra.

 

Di cosa ha bisogno un ragazzo in questa particolare fase della vita?

«L’adolescente deve poter sperimentare per imparare a conoscersi, per comprendere chi è, domanda centrale del suo compito evolutivo. Ma dovrebbe poter effettuare una sperimentazione reversibile, da cui possa tornare indietro. Un conto è sbagliare e poter rimediare, un conto è fare un errore con conseguenze irrimediabili. Compito dei genitori è, quindi, quello di favorire uno spazio di sperimentazione sufficientemente protetto».

«È inoltre importante che l’adolescente senta che gli si vuole bene. Va precisato che l’adolescenza non arriva all’improvviso, va “preparata prima”, creando un legame affettivo nell’infanzia che significa, molto semplicemente, avere il piacere di “fare cose” insieme e mantenere, negli anni, queste abitudini. Aver creato semplici routine che permettono la condivisione di spazi o momenti è un prezioso investimento nel tempo. Qualsiasi tradizione familiare, come per esempio vedere le partite o un film insieme, diventa un’ancora che, anche nei momenti più conflittuali, consente di “rimanere attaccati” ai figli. È un modo efficace per esserci reciprocamente, anche in quei momenti in cui è più difficile parlare perché si isolano o alzano un muro», dice Migliarese.

 

Se si isolano come si può comunicare con loro?

«Gli adolescenti sono emotivamente molto sensibili e possono avere reazioni spropositate di fronte a situazioni neutre. Quando sono all’interno di una “tempesta emotiva”, che è fisiologica, è inutile cercare di essere razionali e farli ragionare. Occorre reagire senza amplificare la crisi, lasciando che le questioni siano affrontate quando è tornata la calma. Così li si allena al contenimento emotivo, che aiuta a gestire frustrazioni ed emozioni», consiglia l'esperto.

Perché è importante prendersi cura della salute mentale degli adolescenti?

«In adolescenza l’influsso di fattori biologici, psicologici e sociali scolpisce il cervello, potenziando alcune competenze (fisiche, cognitive, relazionali, affettive ed emotive): quello che costruiamo in questi anni varrà poi per tutta la vita, per questo va considerato come un periodo su cui investire e su cui porre particolare attenzione perché è una fase di vulnerabilità neuro-psicologica. «È nel periodo adolescenziale, infatti, che esordiscono la maggior parte delle patologie psichiche che, se non riconosciute e curate, possono influenzare il percorso di vita. L’adolescenza è come la primavera: se si investe bene i fiori si rinforzeranno e durante l’estate (l’età adulta) si potranno cogliere i risultati della semina», spiega Migliarese.

 

I segnali da monitorare

Come capire se certi comportamenti in età adolescenziale sono fisiologici o rientrano in un campo patologico? «Se diventano di una certa intensità e frequenza o se impattano sulla qualità della vita meglio approfondire. Un altro elemento da monitorare è quello delle “reazioni immodificabili”. Si tratta di una sorta di “loop comportamentali” che non consentono al ragazzo di trovare vie di uscita. A tutti capita di affrontare delle difficoltà ma il nostro obiettivo, con il tempo e l’esperienza, è maturare quelle capacità che ci permettono di superarle. Nel corso del nostro sviluppo, e in generale per tutta la vita, perfezioniamo il nostro modo di adattarci e trovare soluzioni alternative. Ci sono alcune difese che funzionano bene fino a un certo momento e poi non funzionano più e occorre diversificare. Se questo non avviene e i problemi si estendono a tutti ambiti è bene parlarne con uno specialista», commenta lo psichiatra.

 

A chi rivolgersi in caso di dubbi o problemi?

«In prima battuta al proprio medico di famiglia, che di solito ha una sufficiente esperienza sulle problematiche di salute mentale e ha un approccio che parte dalla valutazione dei sintomi. In generale, poi, è meglio che il percorso terapeutico abbia un approccio integrato, che possa prevedere la presenza di diverse figure (neuropsichiatra infantile, psichiatra, psicologo...), che ci sia continuità nelle cure durante la crescita e che coinvolga i genitori. Un adolescente in difficoltà riversa sull’ambiente le proprie problematiche e ha bisogno di un supporto ampio che va oltre il momento della “terapia”. E poi che ci siano degli step: avere dei tempi per valutare dove si sta andando permette ai ragazzi di sentirsi “in controllo” nel percorso di cura e ai curanti di valutare gli esiti, evitando pericolose perdite di tempo», conclude Migliarese.

«Svogliato», «disordinato», ma anche «intelligente»: le etichette influenzano lo sviluppo della personalità di un bambino

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Silvia Turin

DATA: 19 maggio 2024

Esiste un'alta probabilità che le aspettative o i giudizi degli adulti diventino «profezie che si auto-avverano»: etichettare un figlio significa bloccarlo. Perché succede e come evitarlo

Le parole hanno un impatto diretto sulla formazione dell'identità di un bambino.

I contenitori che definiscono

Quando un genitore commenta le azioni del figlio con termini che etichettano la sua persona, come «pigro», «disordinato», «monello», le parole usate (spesso sempre le medesime) possono creare involontariamente una gabbia che condizionerà l'autostima e la percezione di sé del bambino.
Il bambino si aspetterà lo stesso risultato da se stesso in situazioni simili: «Non sono bravo in matematica, quindi, so già che non capirò l’esercizio» e questo potrebbe condizionare la sua crescita riducendo le possibilità e, anzi, portandolo ad avverare quel che ci si aspetta dai giudizi su di lui, la classica «profezia che si auto-avvera».

Problemi anche con i complimenti

Le etichette sono negative, però, anche quando partono da giudizi positivi (come: «sei bravo», «sei intelligente», «sei il migliore»), perché?
Come si possono esprimere giudizi senza classificare la persona?
Abbiamo chiesto di fare chiarezza su questo tema ad Elisa Fazzi, Direttore della Neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza ASST Spedali Civili di Brescia, professore ordinario di Neuropsichiatria infantile dell'Università di Brescia e attuale presidente della Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza.

Che cosa si intende per «etichetta»?
«Sono giudizi o attribuzione di valori che i genitori (e talvolta gli insegnanti) danno ai figli e che vengono utilizzati per descrivere comportamenti, emozioni, caratteristiche dei ragazzi».

Come influiscono sulla personalità di un bambino?
«L’etichetta non è qualche cosa che può essere considerato esaustivo di una persona: non deve stigmatizzare l'individuo, ma può stigmatizzare un comportamento o, meglio, un comportamento in un contesto».

Quindi esistono etichette anche «valide»?
«Più che etichette saranno considerazioni pedagogiche: da un lato c’è un aspetto psicologico relativo alle etichette, dall'altro un aspetto educativo. Le etichette possono cristallizzare, predire, indirizzare dal lato psicologico, ma non possiamo impedire a un genitore o a un professore di formulare espressioni che abbiano una valenza pedagogica”.

Com'è possibile che alcuni giudizi condizionino addirittura la personalità?

«Perché possono innescare due meccanismi: il bambino si ribella e diventa oppositivo, oppure interiorizza l’aspetto negativo e quindi si adatta e “realizza” l’etichetta, con moltissimi problemi di insicurezza. Lo vediamo nei bambini che hanno problemi di deficit di attenzione o disturbi dell’apprendimento: la continua svalutazione ("tanto non ce la fai, tanto sei svogliato”) porta il bambino a viversi proprio in questo modo».

Come fare allora? Ad esempio per sottolineare un comportamento che consideriamo negativo?
«È esattamente questo il modo: è il comportamento a essere negativo. Non bisogna esprimere giudizi come fossero una caratteristica del soggetto, ma come una contestualizzazione legata al comportamento. “Non sei distratto, pigro o lazzarone, ma forse oggi non ti sei impegnato abbastanza, magari lo sai fare perché in altre occasioni l'hai fatto”. Non dare al rimprovero o alla sottolineatura il valore di racchiudere l'individuo, ma contestualizzarlo all’azione e quindi alla modificabilità, perché l'etichetta cristallizza e impedisce di pensare a un margine di miglioramento. “La camera è disordinata? Vediamo se saprai fare meglio domani”».

Anche fare complimenti, però, condiziona. In che senso?
«In questo caso perché non aiuta nella crescita. Sottolineare sempre aspetti positivi non corrisponde alla realtà, questa immagine di perfezione che vogliamo trasmettere ai nostri figli non lascia spazio all’errore, che invece fa parte dell'umanità e può riguardare anche il più bravo, il più dotato, il più sostenuto dei ragazzi. Ecco che allora, se il ragazzo è stato sempre accompagnato dall’idea di essere il migliore, la caduta inevitabile sarà ancora più catastrofica. Altro problema, i complimenti dopo una buona prestazione (sia un voto o una medaglia sportiva) possono portarlo a credere che un fallimento nelle prestazioni corrisponda a un suo fallimento come persona».

Come possono i genitori usare le giuste parole rispetto alle proprie aspettative e giudizi?
«Se avere aspettative sul bambino attribuendogli delle caratteristiche vuol dire pensarlo, definirlo, desiderarlo e amarlo è positivo; se invece è un attribuirgli un'etichetta che possa in qualche modo condizionarlo o limitarlo non va bene. L’etichetta inquadra e classifica, è una lapide che non si muove più, invece, parliamo di bambini che un giorno sono bravi, un giorno meno. Cerchiamo di mantenere viva la possibilità di migliorare o di accettare la caduta. I bambini per loro definizione cambiano e un'etichetta non può bloccare un essere che è in movimento per definizione».

Si può «tornare indietro» oppure, dopo una certa età, ormai «il danno» è fatto?
«Voglio togliere a queste considerazioni ogni aspetto di senso di colpa. Certo che si può tornare indietro. Il consiglio è non rinunciare a dare il proprio giudizio pedagogico, ma bisogna contestualizzarlo al qui e ora, non farlo diventare un'etichetta che impedisce il cambiamento. In pratica, quando facciamo l'osservazione negativa inseriamo la possibilità che possa andare diversamente in un'altra occasione, diamo una seconda chance. Oppure, nel momento in cui valorizziamo un aspetto positivo, ricordiamo sempre che, se un giorno dovesse andare peggio, non sarà grave».

19 maggio 2024

Quale attività sportiva scegliere per i figli?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Daina

DATA: 11 settembre 2024

Quali sono gli sport più indicati a seconda dell'età, quanto tempo dedicare, come organizzare le giornate tra studio e svago. I consigli dell'esperta

Ricominciato l'anno scolastico tante famiglie si stanno per cimentare con la scelta dell’attività sportiva a cui iscrivere i figli. «Educare sin da piccoli i bambini ad avere uno stile di vita attivo significa promuovere il loro benessere fisico e mentale e prevenire in adolescenza e da adulti chili in eccesso, obesità e altre patologie croniche come diabete e disturbi cardiovascolari» sottolinea Giulia Cafiero, medico del servizio di medicina dello sport dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Qualsiasi tipo di attività va bene purché bambini e ragazzi non restino sedentari e non siano lasciati davanti agli schermi per troppo tempo durante il giorno. «Non è necessario frequentare un corso presso un centro sportivo, fare movimento vuol dire anche giocare al parco, fare delle partite a calcio, basket o pallavolo con gli amici, andare a scuola in bicicletta o a piedi. L’importante è che tutti i giorni bambini e adolescenti pratichino attività fisica» puntualizza la dottoressa.

La sedentarietà tra i più giovani nel nostro Paese è una brutta piaga. Secondo il sistema di sorveglianza Passi dell’Istituto superiore di sanitàtra i bambini di 8-9 anni quasi due su dieci sono in sovrappeso e circa uno su dieci è obeso. Una prevalenza tra le più alte in Europa. Il ministero della Salute nelle linee d’indirizzo sull’attività fisica raccomanda: almeno tre ore al giorno di movimento spontaneo ai bambini di età compresa tra 1 e 2 anni (il che vuol dire non lasciarli seduti sul passeggino e farli giocare liberamente nello spazio); idem a quelli di 3-4 anni, ma per almeno un’ora dovrebbero avere la possibilità di compiere attività motoria più energica, come correre, saltare, salire e scendere dallo scivolo; e, dai 5 ai 17 anni, una media di 60 minuti di attività fisica quotidiana di intensità moderata-vigorosa, con esercizi di rafforzamento muscolare almeno tre volte a settimana. La dottoressa Cafiero, specialista in medicina dello sport, descrive per ciascuna fascia di età quali sono le attività sportive più indicate.

In età prescolare

«I bambini piccoli hanno ancora difficoltà di coordinazione motoria e non riescono a svolgere gesti tecnici. Fino a 4-5 anni l’attività fisica va proposta sotto forma di gioco. Per aiutarli ad acquisire consapevolezza del proprio corpo nello spazio e le abilità motorie di base si può iscriverli a corsi propedeutici di atletica, danza o nuoto. Possono, per esempio, imparare a fare le bolle sott’acqua e a stare a galla, a saltare piccoli ostacoli, fare le capriole».

Da 5 a 11 anni

«Crescendo il bambino ha innanzitutto bisogno di strutturare il movimento. Molti genitori sono convinti che non appena il figlio inizia la scuola elementare vada iscritto a uno sport di squadra per imparare a relazionarsi con i coetanei. In realtà, è meglio che il bambino prima rafforzi le sue capacità motorie attraverso esercizi individuali, praticati comunque insieme a un gruppo di coetanei. È importante che impari a lanciare e calciare correttamente la palla, a correre, a camminare con andature diverse, a saltare. Solo se è in grado di coordinare bene i movimenti dei vari distretti corporei, mantenendo l’equilibrio, riuscirà a passare la palla al compagno e a coordinare le azioni con il resto della squadra. Fino agli 8 anni si consiglia, quindi, di iscriverlo a corsi sportivi di gruppo che diano una preparazione fisica completa per aumentare agilità e reattività. Vanno bene attività come atletica leggera, ginnastica artistica e ritmica, danza, arti marziali, nuoto, pattinaggio, anche il tennis, lo scherma e la scuola calcio, a patto che i corsi prevedano esercizi di consolidamento dei singoli movimenti e non si concentrino solo sull’affinamento del gesto tecnico richiesto dalla specifica disciplina. Una volta acquisiti i movimenti di base il bambino sarà pronto ad affrontare uno sport di squadra: dalla pallavolo al basket e al calcio, o attività più impegnative come l’equitazione e il canottaggio».

Quale attività scegliere

«Quella che più piace e incuriosisce il bambino, tenendo conto dell’offerta di infrastrutture sportive nella propria città. Va trovato un compromesso tra gli interessi del figlio e la facilità di raggiungimento della struttura, altrimenti se gli orari sono poco compatibili con gli impegni della famiglia e il centro è troppo lontano, nel giro di pochi mesi si abbandona l’attività per troppo stress».

A quanti corsi iscrivere il figlio?

«Se il bambino dorme e mangia in modo adeguato, ha le energie sufficienti per dedicarsi a più attività contemporaneamente e sostenere allenamenti quotidiani. Si consiglia al massimo la frequentazione di due discipline sportive diverse per consentire al bambino di coltivare anche altri interessi, come un corso di musica, fumetto, teatro o lingua straniera. Le attività extrascolastiche non sottraggono tempo allo studio, ma anzi favoriscono una migliore organizzazione del tempo, una concentrazione maggiore nei compiti e una più alta resa scolastica».

Cosa fare se il bambino vuole interrompere l’attività?

«Se ovviamente non subentrano esigenze o difficoltà incompatibili con la frequentazione dell’attività, bisogna incentivare il bambino a concludere il corso, ormai pagato, perché la passione potrebbe svilupparsi anche dopo qualche mese e serve un po’ di tempo per acquisire con scioltezza il gesto tecnico. Quando il bambino impara a muoversi meglio, ottiene più soddisfazione dall’allenamento e si diverte di più».

In adolescenza

«C’è un grande problema di drop out sportivo (cioè di abbandono, ndr) nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Per evitare che il ragazzo smetta di fare sport è importante che venga incoraggiato a praticare un’attività di suo interesse e che non venga forzato a fare quello che piace soltanto ai genitori. Inoltre, per stare in movimento l’adolescente non deve necessariamente iscriversi a un corso in palestra o a un centro sportivo. Può svolgere attività fisica liberamente, andando in bicicletta, sullo skateboard, correndo, nuotando, giocando a calcio, tennis o padel con gli amici, ricordandosi di fare esercizio fisico per almeno un’ora tutti i giorni».

Perché è importante fare sport a tutte le età?

«L’attività motoria eseguita con regolarità fin da quando si è bambini previene sovrappeso e obesità e riduce i fattori di rischio delle malattie croniche, da quelle cardiovascolari e metaboliche al cancro, in età adulta. Anche un bambino o ragazzo magro ma sedentario, rispetto ai coetanei attivi, avrà sempre una probabilità maggiore di ammalarsi in futuro. Lo sport, inoltre, migliora l’umore, poiché comporta il rilascio di vari ormoni, tra cui endorfine, serotonina e dopamina, che funzionano da antidepressivi naturali. E aumenta l’autostima: superare i limiti e raggiungere obiettivi a livello sportivo aiuta ad avere fiducia in se stessi e a essere più performanti in classe. L’attività sportiva, non da ultimo, insegna al rispetto delle regole e del prossimo e ad avere costanza per conquistare nuovi traguardi».

Bambini e ragazzi con malattie croniche

Anche il minore affetto da patologie croniche, come cardiopatia, diabete, asma, deve essere spronato a fare esercizio fisico. «In generale - sottolinea la dottoressa Cafiero - non ci sono controindicazioni all’attività motoria. Ci deve essere l’autorizzazione da parte del medico specialista che lo ha in cura per la patologia, che può eventualmente valutare di modificare la terapia a seconda dello sforzo fisico richiesto. Poi il pediatra o ancora meglio il medico di medicina dello sport potranno indicare l’attività fisica più adatta alle sue condizioni. Il movimento è una medicina anche per i malati cronici, poiché previene le complicanze e aiuta a tenere sotto controllo i sintomi» conclude la dottoressa del Bambino Gesù.

Il certificato di idoneità sportiva

Per praticare una qualsiasi attività sportiva (presso un centro di una società o associazione dilettantistica affiliata alla Federazione sportiva nazionale o a un ente di promozione sportiva) è sempre necessario presentare un certificato di idoneità sportiva non agonistica, rilasciato dal medico o pediatra di famiglia, dagli specialisti di medicina dello sport o quelli tesserati alla Federazione medico sportiva italiana, dopo una visita e l’esecuzione di un’elettrocardiogramma a riposo. Mentre per chi fa sport a livello agonistico è obbligatorio il certificato medico per il tipo di attività agonistica scelta, che può essere richiesto solo ai medici specialisti in medicina dello sport (presso i servizi di medicina dello sport dell’Asl o ambulatori privati autorizzati). Per valutare l’idoneità alla disciplina, l’atleta verrà sottoposto a una serie di accertamenti cardio-respiratori e ad altri controlli medici in base alla specifica attività che dovrà svolgere.

Sport e disabilità

Lo sport può essere d’aiuto a tutti, inclusi i bambini e i ragazzi con disabilità motoria, intellettiva e comportamentale, che devono essere esortati a svolgere attività fisica al pari degli altri. «La famiglia può mettersi in contatto con una delle sedi territoriali del Centro sportivo italiano o del Comitato italiano paralimpico, per una valutazione clinica delle capacità motorie del bambino e individuare la disciplina sportiva adattata più idonea. Lo stesso servizio viene offerto anche dall’unità di neuroriabilitazione e attività sportiva adattata del Bambino Gesù di Roma - spiega Gessica Della Bella, responsabile del servizio dell’ospedale romano -. Tra gli sport adattati più comuni ci sono: il tiro con l’arco, il tennis da tavolo, il basket in carrozzina e il baskin (la versione con persone normodotate, ndr), il ciclismo, l’handbike e il nuoto. Ai bambini con disabilità comportamentale, affetti per esempio da un disturbo dello spettro autistico, potranno essere consigliati la corsa, il nuoto, l’equitazione, il surf, lo scherma per migliorare il loro benessere psicofisico».

Il libro “Il maestro Pietro ed i suoi alunni”, per dare fiducia ed ottimismo a genitori e docenti

FONTE:  personale

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 10 settembre 2024

LINK: 

 

Il libro “Il maestro Pietro ed i suoi alunni”, per dare fiducia ed ottimismo a genitori e docenti

Dopo tanti mesi di lavoro finalmente è stato pubblicato il mio libro: “Il maestro Pietro ed i suoi alunni”.

Mi chiedo quanti miei alunni e quanti loro genitori si riconosceranno, nei diversi racconti del libro, come protagonisti di quell’episodio un po’ particolare della scuola elementare; che forse hanno dimenticato.

Ovviamente ho cambiato i nomi di tutti i protagonisti.

La più importante motivazione a scrivere è stata la volontà di trasmettere esperienze concrete vissute in tanti anni d’insegnamento per dimostrare come a volte con un po’ di fantasia e di coraggio, e soprattutto con tanto amore e determinazione, si possono risolvere problemi dei bambini apparentemente irrisolvibili se si usano solo le nozioni imparate durante gli studi e l’esperienza scolastica ordinaria.

Questo è il link per la mia intervista sul libro: https://www.youtube.com/watch?v=AqztjdCFnzE

Se vuoi leggere il libro e non ti va di andare in libreria, puoi acquistarlo on line. Ad oggi il miglior prezzo è quello di Feltrinelli: in tutto 20,66€, comprese le spese di spedizione. Sotto il link per arrivarci

https://www.ibs.it/maestro-pietro-ed-suoi-alunni-libro-pietro-bordo/e/9791256592197

Se condividessi o inoltrassi questo messaggio potresti dare un’iniezione di fiducia ed ottimismo a qualche genitore.

Paolo Crepet sulla strage di Paderno Dugnano: «Famiglia perfetta? C’erano per forza segnali, che nessuno ha visto. Questo deve spaventare»

FONTE: Corriere della Sera e Messaggero

AUTORE: Tommaso Moretto

DATA: settembre 2024

Genitori e fratello minore uccisi a 17 anni da Riccardo nel Milanese, lo psichiatra: «Perchè lo ha fatto? Va chiesto all'Onnipotente ma parlare di ragazzo per bene è la controfirma di una società ormai sfaldata. Non ci parliamo più, non conosciamo l'altro: il vicino ma neppure chi vive con noi»  

 

Un ragazzo di 17 anni a Paderno Dugnano, Comune della città metropolitana di Milano, ha ucciso con un coltello da carne il fratello di 12 anni e i genitori nella notte tra sabato e domenica. Ha confessato tutto davanti agli inquirenti, dicendo «non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi, mi sentivo oppresso». Paolo Crepet, 72 anni, psichiatra, sociologo e saggista, in passato pro-rettore dell’Università di Padova, invita a riflettere sulla nostra «comunità sfaldata».

Cos’è passato per la testa di questo ragazzo, si è dato una spiegazione?
«Va chiesta all’Onnipotente. Criminologi e psicologi che rispondono ad una domanda del genere sono dei fanfaroni. Quello che mi spaventa invece è come mai non se n’è accorto nessuno».

Secondo lei c’erano per forza dei segnali?
«È ovvio, un ragazzino di 17 anni prende in mano un coltello e fa una strage e non ci sono segnali? Stiamo scherzando?».

Il vicino di casa ha detto che era una famiglia tranquilla, che non aveva notato nulla di strano.
«Questo è bestiale, è la controfirma di una civiltà morta. Chi dice che era una persona meravigliosa uno che ha fatto una strage perché lo dice? Ci è andato a bere un caffè alle otto? E cosa pensava gli dicesse, tra dieci minuti ammazzo tutti?»

È una società dove non ci si conosce più?
«Non ci parliamo più, io non conosco nessuno dei miei condomini. È una comunità sfaldata, una volta tra vicini ci si aiutava».

La famiglia massacrata viveva in una zona di villette.
«Perché Turetta dove abitava? Nel Bronx? Smettiamo di parlare di “famiglie per bene”, aboliamo questa dicitura».

Questo ragazzo non pensava che sarebbe stato scoperto e quindi che sarebbe finito in carcere?
«Non gliene frega niente. Un’altra cosa che ci è sfuggita da Novi Ligure ad oggi, e son passati più di vent’anni, è la questione social. All’epoca di Novi Ligure sono stato preso per i fondelli dicevano che banalizzo soltanto perché chiedevo se in quelle famiglie - e all’epoca non c’erano i social - alla sera, a cena, ci si chiede anche come va. Figuriamoci oggi con i social».

I social network peggiorano la situazione?
«Di un milione di volte. Chi dice di no è in malafede. Un ragazzino di 17 anni che si mette la “vision pro” sugli occhi è più o meno isolato? Ci vuol Marconi per capirlo?».

Comunque, dall’isolamento ai triplici omicidi resta un passaggio difficile da capire.
«Mica tanto, quella è la punta di un iceberg. Lui l’ha fatto, mille altri ci hanno pensato. E poi comunque questi casi non sono così rari».

Perché scatta il meccanismo della violenza?
«Perché siamo tutti violenti, questa è una società violentissima. A Torino hanno massacrato un signore che faceva le bolle di sapone alla stazione, non è follia, è odio. È odio anche andare a 200 chilometri l’ora in auto con la propria fidanzata e finire contro un albero, se ami la tua ragazza vai a 65 orari e le accarezzi la mano. Ai 200 all’ora si è indifferenti alla vita dell’altro, è ovvio».

È possibile un parallelo con quanto appena successo a Sharon Verzeni?
«Anche lì, odio. Ogni evento ha un suo perché e una sua declinazione, non possiamo metterli nello stesso posto. Ma in comune ci sono l’odio e l’indifferenza per la vita altrui».

La prospettiva del carcere non è un deterrente?
«Non gliene frega niente, zero. Siamo bombardati da mesi con quaranta morti al giorno in televisione per le guerre, è un continuo richiamo alla morte. E poi l’ergastolo non lo faranno. Questo ragazzo di 17 anni si farà 15 anni, ci sono già i periti al lavoro, poi è minorenne».

Il suo recupero psicologico è possibile?
«Lo sarebbe se si volesse ma andrebbe cambiato il carcere minorile. Bisognerebbe ci fossero persone con capacità di intervento, non neolaureati».

Non ci sono?
«Ma per carità. Noi evitiamo questi argomenti perché ci riguardano, ora per distrarci parleremo dell’Ultradestra in Germania».

E perché li evitiamo?
«Perché ci riguardano. Le famiglie non funzionano, la scuola è abbandonata a sé stessa. Negli Stati Uniti ogni mese esce un libro sull’impatto della tecnologia digitale sui nostri figli ma non facciamo niente perché ci sono le Lobby che portano a cena un senatore e sono a posto».

DOMANDE SULLO STESSO ARGOMENTO SUL MESSAGGERO

Cosa intende per disfacimento della famiglia? E perché è avvenuto tutto questo?
«Semplicemente non c'è più un regola. Ed è avvenuto perché non parliamo più. Abbiamo scambiato i soldi con le parole. Una volta si parlava e non c'erano i soldi. Oggi ci sono i soldi ma non si parla più. Un padre non sa dove è suo figlio di 14 anni. Sabato sera c'era mezza Italia che non sapeva dove si trovasse il proprio figlio. Ne aveva una idea molto, molto vaga. Un padre non sa cosa fa il proprio figlio di 14 anni, non sa quanti shot stia bevendo, non sa se consuma cocaina, non sa se fa sesso con una tredicenne. Semplicemente non lo sa. Sa di cosa sanno i genitori?»

Di cosa?
«Di padel, della partita, del prossimo viaggio quando magari si parte sposati e si torna separati. Poi mi dicono "lei è pessimista". No, sono gli ottimisti che sono male informati».

Questa descrizione va contro quello che era il luogo comune dei genitori italiani eccessivamente protettivi. Uno stereotipo che sembrava inattaccabile.
«Sì, ma i genitori italiani sono troppo protettivi nel momento in cui non dovrebbero esserlo. Sono protettivi per la scuola. Vai a discutere se tuo figlio ha preso un brutto voto, se ha preso 5? Ma cosa ti interessa se tuo figlio ha preso 5? Saranno cavoli suoi. Lascialo di fronte alle sue responsabilità. I genitori italiani non sono protettivi quando dovrebbero esserlo, vale a dire a partire dalle 9 di sera. Sono protettivi in modo sbagliato, ecco che non ci sono più i voti a scuola. Guardi, è stato fatto tutto il contrario di ciò che sarebbe intelligente fare. Forse non siamo un popolo così intelligente».

Come si migliora la situazione?
«Mettendo un punto. Possiamo cambiare la scuola, prima di tutto. In maniera rivoluzionaria. Non funziona nulla. Prima di tutto bisogna cominciare a 5 anni e non a 6, finire a 18 e non a 19. Bisogna rimettere i voti come si è sempre fatto. Bisogna avere la scuola a tempo pieno e dare più soldi agli insegnanti. Ma lei pensa che ci sia un politico che pensa a queste cose? Però ho ragione io, me lo faccia dire».

Psicologa Nastri: “L’uso precoce e massiccio di smartphone modifica la massa bianca del cervello…

FONTE: Orizzonte Scuola

AUTORE:  Andrea Carlino

DATA: 2 maggio 2024

Psicologa Nastri: “L’uso precoce e massiccio di smartphone modifica la massa bianca del cervello. Scuola e famiglia per costruire un rapporto sano con la tecnologia”.

A Orizzonte Scuola interviene Federica Nastri, psicologa, criminologa, pedagogista e mediatrice familiare, per un’approfondita analisi del rapporto tra bambini e tecnologia.

Nell’era digitale, l’esposizione precoce e spesso incontrollata agli schermi pone serie questioni sullo sviluppo psicofisico dei più piccoli. La psicologa Nastri ci guida alla scoperta dei segnali di un uso problematico della tecnologia, delle conseguenze a lungo termine e di strategie efficaci per genitori ed educatori.

La maggior parte dei bambini oggi entra in contatto con i dispositivi digitali già nei primi anni di vita, creando una sorta di “prolungamento” degli arti. Questo rende difficile distinguere tra un uso normale e uno problematico, poiché il problema spesso nasce dall’adulto che fornisce il dispositivo al bambino.

Come si accompagna un bambino per strada, così bisogna accompagnarlo nel mondo digitale, educandolo alla prevenzione dei rischi. Condividere esperienze personali e aprire un dialogo basato sulla fiducia può aiutare i bambini a comprendere i pericoli senza spaventarli eccessivamente. Educare i bambini alla gestione del tempo fin dalla tenera età è fondamentale per un uso sano e responsabile della tecnologia. Far sperimentare la noia e l’attesa aiuta a sviluppare la creatività, l’intelligenza emotiva e la capacità di vivere nel mondo reale.

La dipendenza digitale può influenzare negativamente il rendimento scolastico, distogliendo l’attenzione dagli obiettivi e creando difficoltà cognitive e comportamentali. La scuola, in collaborazione con professionisti della salute mentale, può promuovere un uso sano della tecnologia attraverso programmi specifici e attività che stimolino la sfera emozionale, il contatto con la natura e le persone, lo sport e l’affettività.

Dottoressa Nastri, quali sono i segnali di un’esposizione eccessiva agli schermi in bambini così piccoli? Come possono i genitori distinguere tra un uso normale e uno problematico?

Secondo gli studi più recenti, sulle abitudini in ambito tecnologico dei bambini dai 6 mesi ai 4 anni, risulta che il 96,6% utilizza media device e molti di loro iniziano a usarli già nel primo anno di vita.  Comprendiamo quindi che, a oggi, per la maggioranza dei bambini, i dispositivi elettronici rappresentano un vero e proprio “prolungamento” dei loro arti: nascono con loro, crescono con loro, si evolvono con loro inducendoli a una involuzione sotto ogni punto di vista. Fino a un decennio fa potevamo parlare dei “segnali” fondamentali affinché i genitori potessero monitorare l’uso o abuso della tecnologia; ora che l’età di utilizzo è scesa vertiginosamente ai pochi mesi, ahimè, capiamo quanto il problema non dipenda più dal bambino fin troppo piccolo per scegliere individualmente di impiegare il suo tempo muovendo le dita su uno smartphone ma dell’adulto che glielo consegna. Perciò, il tempo trascorso dai bambini molto piccoli davanti agli schermi risulta associato al modo in cui i loro stessi caregiver utilizzano la tecnologia. Pertanto, diviene complicato stabilire già per gli adulti un proprio autocontrollo all’uso, e che ne stabilisca un “uso normale o problematico”. Sicuramente, i primissimi campanelli d’allarme a cui prestare attenzione sono: reazioni spropositate di rabbia e frustrazione, costanti sbalzi d’umore, impulsi incontrollabili nel “controllare” il dispositivo, sintomi d’astinenza nel distacco dall’oggetto vissuto come indispensabile.

Quali sono le conseguenze a lungo termine di un’esposizione precoce e incontrollata agli schermi sullo sviluppo psicofisico del bambino?

Il mondo digitale, rimanda al modello stimolo-risposta, nonché qualcosa di astratto rispetto a un pensiero concreto di qualsiasi cosa. L’utilizzo precoce e massiccio di queste tecnologie, cambia il modo di organizzare la conoscenza del bambino così radicalmente da modificare la struttura della massa bianca del cervello e alterare le aree fondamentali per lo sviluppo del linguaggio, delle capacità di alfabetizzazione e delle funzioni esecutive (memoria, attenzione, inibizione, flessibilità cognitiva, pianificazione). Se il bambino impara a usare questi strumenti prima ancora di iniziare a parlare, il rischio è di focalizzare la conoscenza sullo stimolo specifico, piuttosto che sulle relazioni e interazioni tra oggetti, ciò potrà implicare anche ritardo nello sviluppo motorio, aumento di disturbi alimentari, disturbi del sonno, disturbi dell’apprendimento e disturbi comportamentali, depressione infantile, ansia, psicosi, disturbi della personalità, autismo e infine aumento dell’aggressività e violenza.

Come possono i genitori riconoscere i segnali di dipendenza digitale nei loro figli?

L’uomo è un essere sociale, geneticamente programmato per sopravvivere aggregandosi con la comunità e la tecnologia più si presta per soddisfare il bisogno di connessione degli esseri umani. Come? Estraniandoli e isolandoli. Sembrerebbe un controsenso, eppure l’isolamento, il disinteresse e la dissociazione rappresentano i segnali più profondi di una dipendenza digitale, susseguiti, come dicevamo dalla necessità di trascorrere un numero sempre più cospicuo di ore in connessione, sono sintomi depressivi o ansiosi, agitazione psicomotoria in caso di riduzione o interruzione, riduzione della vita reale e degli interessi lontani dal digitale.

Come possono i genitori parlare ai loro figli dei pericoli online in modo che li comprendano senza spaventarli eccessivamente?

Lascereste mai un bambino da solo per strada? Come gli direste che non può starci da solo? Le infinite vie di internet si snodano tra curve a gomito, discese vertiginose e salite ripidissime, e devono essere ormai considerate come un mondo “reale” e pericoloso in cui un bambino si accompagna e si sostiene. Perciò avviare alla tecnologia (preferibilmente dopo almeno i 4/5 anni) abituando al controllo costante di qualcuno e magari attraverso le app dedicate alle attività di sviluppo sarebbe già un buon modo per indirizzare ed educare alla prevenzione di rischi. Non esiste il discorso perfetto per spiegare la sicurezza informatica ai bambini ma è fondamentale che siano a conoscenza di quanto il mondo virtuale possa nascondere pericoli reali. “Sai, hanno provato a rubarmi l’identità, ed io ho…”, oppure: “Una volta mi hanno preso in giro sul web, così ne ho parlato con la mia famiglia e…”, ecc.. ecc.. questi esempi di dialogo possono rappresentare una modalità di apertura all’argomento attraverso l’immedesimazione e la fiducia reciproca, dando così non solo spiegazione delle problematiche ma anche informazioni su come difendersi.

Come si può aiutare un adolescente a gestire autonomamente il tempo trascorso online e a trovare un equilibrio sano tra vita digitale e vita reale?

È importante partire dall’infanzia ancor prima che dall’adolescenza, in modo tale da fornire già al bambino piccolo, futuro uomo, quegli strumenti adatti a fronteggiare i passaggi di crescita tanto delicati quanto fondamentali della sua vita. L’educazione al “tempo”, alla dimensione del tempo, alla gestione del tempo e all’impiego di questo sono il principio di ogni sfera umana: individuale, familiare, sentimentale, relazionale e professionale. Far sperimentare la “noia”, senza riempire il “buco”. Far godere dell’attesa, senza azzerarla uccidendo il desiderio. Spronare così alla creatività e indipendenza, sviluppare l’intelligenza emotiva, la possibilità di trasformazione, l’opportunità di evoluzione. II bambino abituato al modello stimolo-risposta avrà difficoltà a gestire il suo tempo di noia e di attesa, avvertito come “vuoto”. D’altra parte perderà il suo tempo in quanto estraniato in un mondo virtuale. Educare alla realtà, e quindi a questo “tempo reale”, è il primo passo per l’educazione alla vita digitale e a quell’equilibrio tra l’essere e il non-essere, esistere e scomparire.

Coma cambia il rendimento scolastico in giovani con dipendenza digitale? Può la scuola contribuire a promuovere un uso sano e responsabile della tecnologia tra gli studenti?

Qualsiasi tipo di dipendenza, e in questo caso nello specifico quella digitale, distrae dall’obiettivo inibendo il raggiungimento dei traguardi. Perciò un dipendente dalla tecnologia avrà come priorità estrema un mondo virtuale lontano dalla realtà e quindi lontano anche dall’interesse per le cose, le persone, le relazioni, lo studio e l’apprendimento. Sarà privato della curiosità proprio perché abituato ad un modello stimolo-risposta che è opposto alla conoscenza profonda e autentica. A ciò si aggiungono le difficoltà cognitive, comportamentali e delle funzioni esecutive alimentate dall’abuso dei dispositivi digitali che implicano disturbi dell’apprendimento e di conseguenza un abbassamento del rendimento scolastico. In particolar modo, le evidenze scientifiche dimostrano come il disturbo di attenzione e iperattività (ADHD) sia correlato a tale dipendenza. Affinchè venga fronteggiata una situazione di emergenza simile, è necessario che la scuola collabori innanzitutto con professionisti della salute mentale creando percorsi specifici per genitori/figli, genitori/figli/istituzione scolastica. Solo un costante e collaborativo monitoraggio e potenziamento della sfera emozionale, delle attività a contatto con la natura e le persone, dello sport, e della stimolazione affettiva possono promuovere non solo un uso sano e responsabile della tecnologia, ma di tutta l’intera vita dell’individuo.

Il tipo di colazione incide sul rendimento scolastico della giornata degli studenti

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Silvia Turin

DATA: 3 maggio 2024

Una ricerca in Australia ha dimostrato che chi sceglie cibi malsani ha meno concentrazione e punteggi più bassi nei test, pari a chi non mangia nulla la mattina

La colazione è il carburante di cui il cervello e il corpo hanno bisogno per iniziare le proprie attività e funzionare al meglio durante la giornata.
Molti studi si sono concentrati su quale sia la colazione ideale e se sia necessario farla sempre.

Lo studio

Una nuova ricerca condotta da team prevenienti da tre diverse Università australiane e pubblicata da poco sul Journal of School Psychology, ha voluto mostrare i differenti impatti di tre tipi di colazione sulla motivazione degli studenti ad apprendere e sul loro rendimento, «scattando» in pratica un’istantanea di una giornata nella vita degli studenti.
Gli alunni presi in esame erano 648 australiani di scuola superiore provenienti da cinque istituti privati del Nuovo Galles del Sud. Due di queste scuole erano scuole maschili, due femminili e una mista. Gli studenti avevano un’età media di 13-14 anni.
Le abitudini alimentari messe a confronto hanno esaminato tre tipi di colazione:

  • una colazione definita «sana» secondo le linee guida dietetiche australiane pubblicate dal National Health;
  • una «malsana»;
  • una colazione totalmente saltata.

I test su scienze 

La colazione sana era composta, ad esempio, da pane tostato integrale con uova o carne magra, o yogurt a basso contenuto di grassi e a basso contenuto di zucchero, o yogurt naturale, muesli di avena con latte magro o frutta. L’opzione malsana era composta perlopiù da cibi e snack confezionati ricchi di grassi saturi, cibi e bevande ad alto contenuto di zucchero (ad esempio prodotti da forno dolci e bevande energetiche o zuccherate) o di sale.

I risultati scolastici sono stati valutati il giorno stesso della colazione durante le lezioni di scienze con questionari sulla motivazione, compreso quanto i ragazzi fossero sicuri nello svolgere i compiti di scienze, quanto apprezzassero la materia e quanto si concentrassero sull'apprendimento. Gli studenti hanno anche svolto un test basato sui contenuti del programma di scienze (in precedenza i ricercatori erano stati informati dei risultati precedenti degli alunni nella stessa materia).

I risultati

L’analisi ha riscontrato che gli studenti che avevano fatto una colazione sana la mattina dello studio avevano poi dimostrato livelli più elevati di motivazione e risultati.
Gli studenti che non avevano fatto colazione avevano avuto livelli più bassi. Più sorprendente: gli studenti che avevano l’abitudine di una colazione malsana avevano avuto risultati altrettanto bassi di coloro i quali non avevano mangiato nulla.

 

Le linee guida italiane 

Fare colazione è considerato uno stile di vita salutare tanto che è raccomandato in tutte le linee guida per una sana alimentazione, tra cui quelle italiane.
Una precedente revisione della letteratura scientifica su effetti cognitivi e performance scolastica associati alla prima colazione aveva mostrato in genere migliori risultati per memoria visiva, logica e creatività in presenza di apporti energetici per la prima colazione maggiori del 20% dell’energia totale della giornata (ne abbiamo parlato QUI).

La Società Italiana di Nutrizione Umana e quella di Scienze della Alimentazione hanno proposto alcuni esempi di colazioni equilibrate adatte ai bambini/ragazzi:

  1. una tazza di latte con un cucchiaino di cacao, biscotti frollini oppure cereali da prima colazione, un frutto fresco;
  2. uno yogurt, cereali da prima colazione, frutta fresca e frutta secca a guscio;
  3. una tazza di latte, un toast, un frutto;
  4. una spremuta di frutta fresca, una fetta di pane con ricotta e pomodoro.