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Le parole di Pietro Bordo al convegno “Le radici del futuro”, Camera dei Deputati. Presente il ministro della pubblica istruzione e del merito, Giuseppe Valditara

FONTE:

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 9 aprile 2025

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L’8 aprile 2025 alla Camera dei Deputati, Sala Tatarella, si è tenuto il convegno “Le radici del futuro”, con la presenza del ministro della pubblica istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, con il quale ho avuto l’onore di parlare in privato.

Ho avuto la possibilità di tenere un intervento, al cui video porta il seguente link

Erano presenti anche l’on.le Paola Frassinetti, sottosegretario di stato del Ministero della Pubblica Istruzione e del Merito; alcuni senatori e deputati di FdI; docenti, dirigenti ed esponenti di alto livello del mondo della scuola e della cultura.

Hanno partecipato anche i coordinatori della commissione tecnica ministeriale che ha scritto le “Nuove Indicazioni Nazionali per la Scuola”.

La Presidente della commissione tecnica ministeriale mi ha chiesto il testo del mio intervento; ed il Ministro il biglietto da visita...

Il poco tempo che ho avuto a disposizione mi ha costretto a parlare velocemente. Per questo motivo, consiglio di visualizzare i sottotitoli.

 

Testo dell’intervento

Grazie al sottosegretario Paola Frassinetti per aver organizzato questo incontro. Grazie al Governo per le nuove indicazioni nazionali, grazie a chi le ha scritte.

Ho insegnato per quarantasette anni in ogni tipo di scuola primaria esistente in Italia: parificata, privata, paritaria, pubblica.

Ho studiato tutto il testo, un gran bel lavoro.

Velocemente… benissimo per le materie orali, ho trovato le tabelline, i riassunti… che bello.

Arte ed immagine: bellissime parole, ma fra gli obiettivi io avrei evidenziato con parole inequivocabili il più importante: portare il bambino a sapersi difendere dalla pubblicità, intesa in senso lato. Anche da chi subdolamente ti vuol imporre le proprie opinioni.

Di getto mi è venuto da dire che voi ingegneri coordinatori avete migliorato moltissimo l’automobile: la carrozzeria, i sedili, il confort, il colore. Ma, da meccanico, da autista, vedo che non avete pensato molto al motore: l’auto da voi indicata invece che a passo d’uomo, come va oggi, dopo il vostro intervento potrebbe andare come una bicicletta. L’energia ottimale che serve per farla correre come una Ferrari pochissimi la usano. Questa energia, la più potente dell’universo è l’amore; con i suoi derivati.

Il carburante che serve per far andare veloce una macchina così importante sono le relazioni umane, personali, in tutte le direzioni, fra il bambino, i docenti ed i genitori. Che oggi sono affidate all’iniziativa individuale e improvvisatrice di pochissimi docenti.

Ciò che ho letto fino a pag. 13 della bozza è tutto un sogno: non accade quasi mai. Non ipotizzo, non immagino: ho un universo di riferimento di centinaia di colleghe della pubblica che venivano da tante scuole nelle mie e di centinaia di genitori, sia della privata che della pubblica. Universo esplorato per quarantasette anni, scusate, con successo documentabile. Mi chiedono periodicamente incontri i miei alunni di tutte le età, gli ultimi vicini ai cinquant’anni.

Di seguito i sogni (non ci sono nel video):

1-…la scuola accompagna bambini e adolescenti, sin dalla scuola dell’infanzia, a capire chi sono, da dove vengono…

2-… esso può esplicarsi con efficacia solo grazie all’indispensabile alleanza con le

famiglie che svolgono un ruolo complementare a quello della scuola…

3-…scuola e famiglia costituiscono, in ragione delle grandi valenze educative e affettive l’una e per l’azione sistematica e intenzionale di istruzione l’altra…, le due colonne portanti del percorso di apprendimento di bambini e adolescenti…

Tutto un sogno, non accade quasi mai ed infatti oggi il palazzo crolla (tanta violenza, tutti i giorni) perché le due colonne, famiglia e scuola, quando va bene si ignorano, quando va male, frequentemente, sono in conflitto.

Le relazioni umane per svilupparsi necessitano di contatti personali. Fra gli obiettivi dei docenti deve esserci l’impegno a realizzare una relazione almeno buona con i genitori e significativa con tutti gli alunni, fatta non solo di insegnamenti ed informazioni.

Il bambino deve capire che è accolto, accettato, amato a prescindere da qualsiasi altra considerazione

Allora il ragazzo darà il meglio di sé. Con me è sempre successo. Tutto ciò in stretta collaborazione con i genitori, con effetto sinergico sempre constatato. Ed accade ad altri docenti, pochissimi.

Il tutto si potrebbe realizzare, più o meno bene, prevedendo, nelle linee guida, un tempo scolastico da dedicare ai colloqui individuali dei docenti con gli alunni e con i genitori. Gli ultimi anni ai colloqui con i genitori io e le mie colleghe, eravamo almeno in sei, avevamo sette minuti per ogni famiglia. Ridicolo. Ma i miei colloqui individuali con ogni bambino non sono mai mancati: uscivo dall’aula approfittando della presenza dell’insegnante di sostegno.

Pag. 38: …scopo primario della scuola è insegnare a leggere, a comprendere, e a scrivere in modo corretto.

Le prove Invalsi testimoniano le carenze degli alunni, soprattutto in lingua italiana, che ha una funzione propedeutica per tutti gli apprendimenti e per lo sviluppo ottimale delle funzioni intellettive, del pensiero.

Le docenti di italiano delle superiori dicono che il 75% degli studenti che escono dalle medie hanno competenze linguistiche insufficienti o scarse.

Non c’è da stupirsi: oltre alle carenze di relazioni umane di cui ho detto prima, alla primaria nelle quaranta ore settimanali del tempo pieno le ore dedicate a lingua italiana sono sei. Sì, sei. Fa ridere; anzi, piangere. Ho provato per anni a cambiare, impossibile, dicevano le varie presidi.  Devono dirlo le indicazioni nazionali: almeno dieci-dodici ore settimanali.

Immagino numeri simili alle medie.

Riassumo. Il vostro obiettivo è migliorare la scuola italiana. E migliorerà con le ottime nuove indicazioni nazionali. Ma l’efficacia del vostro lavoro potrebbe essere infinitamente maggiore se sfruttaste l’energia più potente dell’universo: l’amore.

In concreto, se dedicaste attenzione alla metodologia relazionale fra le persone della scuola e deste indicazioni in tal senso, come ho già detto prima; se indicaste un numero minimo adeguato di ore settimanali per italiano, matematica ed inglese.

Aggiungo che buoni rapporti personali tra prof, alunni e famiglie danno un grande aiuto per disinnescare bullismo e violenza a scuola e fuori.

Non è il giorno per parlare della valutazione dei docenti, la madre delle riforme.

Grazie dell’attenzione.

Se la poesia (come diceva Montale) è inutile, perché insegnarla? “Perché è bellezza e la dimensione estetica matura la persona”

FONTE: Orizzonte Scuola

DATA: 2 aprile 2025

La scuola – dice lui – non deve occuparsi di ciò che i giovani faranno, ma innanzitutto di ciò che essi saranno”Stefano Picciano è docente di Lettere presso l’Istituto Comprensivo 1 di Riccione. Ha 44 anni, è anche musicologo e ricercatore in Storia della musica, autore di vari libri, scrive sul quotidiano Il Foglio. “È attraverso la pura dimensione estetica – prosegue il professore – che la scuola mette a fuoco il suo obiettivo principale: la maturazione della persona in quanto tale.”

Picciano è animato da una grande passione per l’educazione: “Il tema della scuola e dell’educazione – ammette – mi ha sempre appassionato”. E in particolare quello della parola, come ci aveva rivelato in una precedente intervista sull’importanza del lessicoIn una successiva conversazione c’eravamo soffermati con lui sui temi del bello e dell’utile”. Uno studente “che maturi i fondamenti della percezione estetica, l’amore per la bellezza oppure il rispetto per i tesori della cultura difficilmente maltratterà le persone o le cose. Noi cerchiamo con dei progetti di insegnare delle competenze che in realtà sono già implicite nella nostra tradizione culturale. Difficilmente un ragazzino che suona, per esempio, il pianoforte maltratterà un compagno, poiché ha una percezione fondamentale della bellezza, che è una dimensione educativa essenziale della persona”.

L’educazione la scuola, la bellezza. Che cosa manca? Che cosa mancava. Mancava quella cosa inutile – per dirla con Montale – che è la poesia: “Nel 1966, all’atto di ricevere il Premio Nobel – rammenta Picciano – Eugenio Montale ironicamente osservò: ‘Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile’. Proprio nei giorni scorsi, il 21 marzo, è stata celebrata la giornata mondiale della poesia ideata dall’UNESCO nel 1999: un invito a riflettere – come abbiamo scritto su queste colonne – sul potere del linguaggio e sul pieno sviluppo delle capacità creative di ogni persona.

Professor Stefano Picciano, perché dare spazio alla poesia nella scuola, se Montale la definiva inutile?

“Montale sapeva bene che ciò che appare inutile è, a ben vedere, ciò che serve di più alla crescita della persona. Imparare a memoria le poesie – come dedicare tempo ad ogni forma d’arte – libera la mente dai vincoli troppo stretti dell’utilità e della necessità e pone finalmente al centro il soggetto. La didattica non deve dimenticare di porre in primo piano la dimensione estetica, l’arte, la bellezza, liberandosi dalla miopia di una concezione di scuola che fa prevalere la dimensione professionalizzante. Come ho detto in altre occasioni, la scuola non deve occuparsi di ciò che i giovani faranno, ma innanzitutto di ciò che essi saranno. È attraverso la pura dimensione estetica che la scuola mette a fuoco il suo obiettivo principale: la maturazione della persona in quanto tale. Ha scritto Hans-Georg Gadamer: ‘Nell’incontro con l’arte vediamo attuarsi un’esperienza che realmente modifica colui che la fa’”.

Si discute molto negli ultimi tempi dell’utilità di imparare a memoria le poesie. Lo stesso ministro Valditara ha rilanciato il tema di recente. Che cosa ne pensa?

“La consuetudine di imparare a memoria le poesie – il celebre linguista Luca Serianni ne parlava come di ‘un’abitudine che non si celebrerà mai abbastanza’ – appare opportuna, come ogni attenzione alla letteratura, alla musica, all’arte, proprio perché ciò che in termini generali la poesia mette a tema è l’uomo stesso: ‘L’argomento della mia poesia, e credo di ogni possibile poesia –notava ancora Montale– è la condizione umana in sé considerata’. La scuola ha bisogno di custodire la dimensione disinteressata del puro sguardo alla bellezza come fattore capace di formare la persona: è il tempo dell’otium – in greco scholé –, quello nel quale i ragazzi cercano sé stessi, le proprie inclinazioni, la propria identità. Un domani, certo, lo studente sceglierà una professione, ma questo passo sarà posto sul terreno di una formazione fondamentale che si colloca a un livello precedente. Il periodo della scuola non deve servire a nulla se non alla crescita umana del soggetto”.

La scuola come otium

“La scuola è un tempo libero nel quale dare ai giovani ciò che pone per così dire le fondamenta della persona: è importante leggere e rileggere le grandi pagine della letteratura, le poesie, poi tornarvi e scoprire che esse svelano sempre qualcosa di nuovo, ascoltare le grandi opere musicali, dare tempo all’osservazione dell’arte e poi, naturalmente, dedicarsi alla riflessione, alla scrittura, all’argomentazione”.

Come organizzerebbe, lei, l’ora di poesia?

“Innanzitutto, semplicemente, leggendo il testo più volte. Gli studenti non possono affezionarsi ad un testo se ad essere messa in primo piano è la sua analisi: questa deve essere fatta, certo, ma solo come strada verso la familiarizzazione con l’opera in sé. La poesia è qualcosa che accade, che vive nella voce di chi la legge. Si tratta di permettere a quelle parole di accendersi nuovamente e, rivestite del tono di una espressione sempre nuova, mostrarsi a noi nel loro inesauribile significato. Ben venga, dunque, l’imparare a memoria, se è per ricordare, cioè – letteralmente – tenere nel cuore qualcosa di bello: significa custodire dentro di sé un piccolo tesoro”.

E come descriverebbe questo tesoro?

“Nella quotidianità ad un tratto un verso emerge dalla memoria e si mostra capace di illuminare ciò che viviamo. Imparare le grandi poesie a memoria permette che il segreto racchiuso in quei versi ci sorprenda, in seguito, magari nei frangenti più inaspettati, mostrandoci d’improvviso la profondità di un frammento di vita, rendendo più intenso il nostro rapporto con le cose, suggerendoci un approfondimento dello sguardo, insegnandoci a cogliere la densità di un istante, svelandoci uno stralcio di verità”.

Faccia un esempio.

“A volte gli studenti mi hanno raccontato l’esperienza di un’insoddisfazione, nei loro particolari, anche piccoli desideri, a partire da versi come quello in cui Ungaretti scrive ‘In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare’, oppure quello di Cardarelli: ‘Non so dove i gabbiani abbiano il nido / ove trovino pace. / Io son come loro / in perpetuo volo’. L’importante è fare esperienza del fatto che quei versi parlano di noi. Leggendo una poesia scopro che l’autore descrive non appena la sua vita, bensì la mia”.

La poesia che porta il lettore verso se stesso…

“Certamente. La poesia è amica del silenzio. Quel silenzio in cui l’uomo entra in rapporto con sé stesso, con la propria interiorità. Per questo essa non di rado mette a tema quella particolare nostalgia che caratterizza l’uomo. Lo stesso Montale accennò ad una strutturale mancanza che contraddistingue l’essere umano, notando l’abitudine delle persone a riempire il tempo di ‘occupazioni che colmino quel vuoto’. E aggiungeva: ‘Pochi sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto’. È impressionante, a questo proposito, il frammento concepito da Mario Luzi: ‘Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne / sei pieno? / Di che?’. Ed è significativo il fatto che questo passo sia stato scritto alla vigilia del nuovo millennio, quasi a sottolineare il fatto che l’uomo contemporaneo, apparentemente appagato dalla società dei consumi in tante esigenze superficiali, eleva ancora questo ‘tacito grido’ che scaturisce dal fondo del suo animo”.

La memorizzazione non rischia di essere solo un esercizio meccanico?

“Non bisogna cercare una fredda memorizzazione come esercizio di bravura, benché sia importante mostrare agli studenti che in genere utilizziamo pochissimo le potenzialità della memoria. Ciò che importa è una familiarizzazione con l’opera che sia carica di senso, quindi anche di ammirazione per quel verso, per quella parola che ha la capacità di avvicinarci ad una verità su noi stessi o sulle cose attorno a noi. Scrisse suggestivamente Italo Calvino: ‘E’ verso la verità che ci muoviamo, la penna ed io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo di una pagina bianca’”. È l’affascinante immagine per cui la parola è sempre una ‘ricerca’: come scrisse Eugenio Montale, la parola è ‘qualche cosa che si approssima ma non tocca’. Come possiamo interpretare queste parole? ‘Si è sempre scontenti’ – dichiarò in proposito Ungaretti – perché ‘la parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi… solo lo avvicina’. La poesia è un ambito sui generis, nel quale si potrebbe dire che le parole più vere non sono quelle scritte sulla carta ma, per usare la suggestiva espressione di John Keats, ‘quelle non dette, quelle che naufragano nei silenzi’. Qui risiede il mistero dello spazio bianco che circonda i versi: quel ‘biancore’ non è un vuoto ma, come un giorno sorprendentemente mi disse una studentessa, è ‘lo spazio in cui avviene il significato’. Fermai la lezione, che da lì in avanti non fu che un tentare di comprendere questa intuizione. È la nota esperienza di non poter fissare per iscritto ciò che si vorrebbe dire. C’è una meravigliosa espressione di Clarice Lispector che spiega questo: ‘Ciò che ti dico non è mai ciò che ti dico, bensì qualcos’altro’. La poesia è un’approssimazione ad una verità che non può essere racchiusa nelle parole che vengono scritte: il poeta Davide Rondoni ha notato che ‘la poesia appartiene a quell’esperienza della lingua in cui si prova a dire ciò che non si comprende appieno’, aggiungendo: ‘Si cercano le parole (…) per provare a mettere a fuoco quel che ci colpisce, perché il mondo chiede di essere svelato al di là delle prime apparenze’”.

Dunque la poesia nasce dalla meraviglia.

“Si impara a non dare per scontato ciò che si vede, come accennava Charles Peguy in riferimento a Victor Hugo: ‘Egli non vedeva il mondo con uno sguardo abituato (…). È lo stupore che conta (…). Il vecchio Hugo, amico mio, vedeva il mondo come se fosse stato appena fatto (…), come se finalmente fosse appena venuto al mondo. Egli vedeva il mondo come se esso uscisse dalle mani del fabbricante’. Anche Paul Valéry, nei suoi Cahiers, scrive un’annotazione significativa in proposito: ‘È proprio della mia natura trovarmi di colpo davanti alle cose come se fossero del tutto sconosciute’. La poesia – un po’ come la fotografia – svela il valore assoluto di ogni istante e conduce l’uomo – per usare ancora le parole di Montale – nei ‘silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto’”.

E in che cosa potrebbe consistere questo segreto?

“Innanzitutto l’essere stesso delle cose è un mistero. È suggestivo, in proposito, quanto scrive il filosofo Max Picard sull’esperienza della pura osservazione: ‘Guardo l’oggetto attentamente e quasi un po’ spaventato, poiché in fondo non l’ho mai visto, il fatto di vederlo è veramente un avvenimento e mi sembra anzi di essere un uomo che lo veda per la prima volta’. Il punto focale della poesia è forse la sua capacità di recuperare uno sguardo originale sulle cose, coglierle in una visuale che si spinge oltre l’apparenza, oltrepassare la cortina di apparenza che rende le giornate tutte uguali, superare l’illusione ‘di chi crede / che la realtà sia quella che si vede’”.

C’è anche una valorizzazione del singolo istante…

“Certamente. La poesia ci pone in una condizione – per usare un termine di Peter Handke – di intensa vigilanza, quella che permette di ‘aprirsi ogni giorno un varco verso gli spigoli luccicanti della vita’. La poesia ci accompagna insomma ad uno sguardo più profondo verso le cose, facendoci cogliere quella che Mario Luzi chiamava l’immensità dell’attimo”.

Ha già deciso quali saranno i poeti da proporre ai suoi studenti? Quali le preferenze?

“Se volessimo selezionarne tre, direi innanzitutto Giovanni Pascoli, in cui c’è una valorizzazione estrema per il dettaglio, il particolare: la campana, la culla, la neve, il ruscello, la finestra, il grano, la strada, l’aratro. Le piccole cose diventano il luogo di una vibrazione sconosciuta dell’essere, che viene innalzato ad una dimensione assoluta: come scrive la sapienza orientale, ‘in verità tutte le cose piccole sono belle’. In secondo luogo naturalmente dedicherei del tempo a Leopardi, per il modo in cui descrive agli uomini le capacità dell’animo proprio, insegnandoci che cosa sia il desiderio. Infine sceglierei Ungaretti, per il ‘peso’ inedito che dà alla parola, mettendo in luce il valore originale di ogni vocabolo, la ricerca instancabile nel mondo del lessico: ‘Io ho da dire questo, diceva; come posso dirlo con il numero minore di parole, anzi con quell’unica parola che lo dica nel modo più completo possibile?’”. Tutto sta nel portare questo tesoro letterario agli studenti in un modo che possa essere per loro affascinante. È fondamentale fare in modo che l’ora di lezione sia bella, qualcosa che il giorno dopo sia desiderabile tornare a cercare. Soprattutto nelle discipline di ambito estetico si tratta di ‘innescare’ la loro libertà, perché l’ammirazione per la bellezza è qualcosa che non si può imporre, ma solo proporre. Freud definiva l’insegnamento un’attività impossibile, perché in certa misura è sempre dipendente dalla libertà di adesione dell’allievo. Per questo l’attenzione deve essere incentrata sull’esperienza: deve essere chiaro che leggiamo quei versi perché parlano di noi. Se gli studenti capiscono di essere protagonisti, possiamo insegnare loro a custodire la ricchezza del patrimonio che il passato ci consegna”.

Sempre connessi, quali conseguenze per i figli?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Claudio Mencacci

DATA: 15 febbraio 2025

Ai genitori andrebbe ricordato che l’uso di tecnologia in loro presenza nuoce alla salute mentale dei loro bambini e raccomandato di dare esempi positivi

L’interferenza della tecnologia nelle interazioni quotidiane e nelle relazioni personali è al centro di diverse ricerche. Quali sono le conseguenze nei bambini e negli adolescenti esposti a genitori eccessivamente assorbiti dalla tecnologia? Quali conseguenze emotive, sociali, comportamentali e cognitive ciò comporta? L’uso eccessivo della tecnologia digitale può interrompere le interazioni tra genitori e figli a tutte le età, un fenomeno chiamato tecnoferenza. In particolare la tecnoferenza genitoriale ha un impatto profondo e duraturo sulla psiche dei figli con conseguenze che si protraggono nella vita adulta. Grande la sensibilità dei neonati e dei bambini dagli 1 ai 5 anni se esposti a genitori che trascorrono più di 5 ore al giorno sul loro smartphone e, per il 27% del tempo trascorso con il loro bambino, sono impegnati con il loro dispositivo digitale.

Nella prima infanzia la tecnoferenza genitoriale è associata a diminuzione del coinvolgimento genitore-figlio, a ridotta capacità di notare e soddisfare i bisogni del gioco congiunto, a turni di conversazione meno frequenti e a qualità di risposte più negative al comportamento dei bambini. Quando i bisogni emotivi e fisici dei bambini vengono costantemente ignorati, o quando si risponde in maniera inappropriata, aumentano i rischi di sviluppare patologie come depressione, ansia, iperattività e disattenzione. Genitori sottoposti a notifiche eccessive, all’uso dei social network, al controllo degli smartphone, alla paura di perdere qualcosa di importante (FOMO, fear of missing out) o che guardano il telefono mentre parlano con i figli, riducono la qualità delle interazioni facendo percepire ai bambini un interesse minore nei loro confronti. Inoltre l’eccessiva delega a tablet-smartphone e TV come baby sitter riduce ulteriormente il tempo di qualità.

La percezione da parte del bambino di una mancanza di attenzione facilita lo sviluppo di sentimenti di insicurezza e svalutazione, favorendo l’imitazione dell’uso compulsivo della tecnologia dei genitori. Sugli adolescenti i dati sono più consistenti, tanto da far dire all’autorità sanitaria USA che la crisi della salute mentale tra i giovani è un problema urgente, e i social media hanno avuto un peso importante in negativo: quando si trascorrono più di 3 ore al giorno sui social media si osserva nei giovani un raddoppio del rischio di sintomi di depressione e di ansia tanto da raccomandare etichette con la scritta, come per i pacchetti di sigarette, «nuoce alla salute». Ai genitori andrebbe ricordato che l’uso di tecnologia in loro presenza nuoce alla salute mentale dei loro bambini e raccomandato di dare esempi positivi perché i «bambini ci guardano».

* Direttore Emerito Neuroscienze Salute Mentale Asst FBF-Sacco, Milano, Co-Presidente Sinpf

Maltrattamenti domestici in famiglia, boom di casi a Milano: quando i figli terrorizzano i genitori

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Elisabetta Andreis

DATA: 25 gennaio 2025

Maltrattamenti domestici in famiglia, boom di casi a Milano: quando i figli terrorizzano i genitori

Allarme del Tribunale dei minori: impennata nei numeri. Il nodo delle comunità e il rischio «ghetto»

Ieri sera. Una coppia di genitori si presenta in lacrime alla porta della comunità La Casa del giovane. Chiede aiuto. Uno dei figli, neanche 16 anni, ha esplosioni di rabbia e grave violenza contro di loro. «I maltrattamenti domestici agiti da adolescenti e talmente gravi da finire nel penale sono aumentati in modo drammatico nel nostro distretto», fa sapere Luca Villa, procuratore capo del Tribunale per i minorenni di Milano. Fino al 2012 erano massimo sei all’anno, poi hanno iniziato a salire con un picco di 94 nel 2019, appena prima del Covid, e anche nel 2024 sono su questi livelli. È solo la punta dell’iceberg. «C’è un cambiamento antropologico complesso in atto e scarsa consapevolezza dei genitori — avverte il procuratore —. Dovremmo ragionare su molti aspetti, non ultima la diffusione degli smartphone in età precoce. I minori sono esposti a forme di dipendenza pericolosa, talvolta negli atti leggiamo descrizioni di violenze davvero raccapriccianti. Ti chiedi come possano venire certe fantasie a un 14enne».

Dentro le case

Mentre per strada non aumentano i reati predatori, il discorso della violenza in casa richiama quello degli omicidi e tentati omicidi che secondo i numeri del Tribunale sono triplicati, passando nel giro di un anno da otto a 24. Ma sono i ragazzi che escono di testa o il fenomeno chiama in causa madri e padri incapaci di creare le premesse per rapporti sereni? «Nella famiglia di oggi — spiega Luigi Colombo, psicoterapeuta e giudice onorario — il genitore ha difficoltà a porsi come tale, è quasi lui che ha bisogno del figlio, e non viceversa. Quando è piccolo, nessun problema: tutto procede apparentemente bene. Sottotraccia però si sviluppa una cultura della onnipotenza con pochi limiti che si rivela nell’età adolescenziale già difficile. A volte si aggiunge l’assenza del padre a casa e questo non aiuta la costruzione di un autentico sentimento normativo mentre il rapporto con i genitori cresce su un binario facilmente rivendicativo, predatorio e aggressivo alla prima frustrazione».

Realtà sottostimata

Il fenomeno, secondo gli esperti, è ancora sottostimato: «La maggior parte dei genitori picchiati in famiglia dai figli adolescenti — osserva Carlo Trionfi, psicoterapeuta e direttore del Centro Studi famiglia — fanno fatica a denunciare. Tendono a mantenere il segreto perché temono che la denuncia possa danneggiare il figlio e distruggere definitivamente quello che resta del loro rapporto in crisi invece che risolvere il problema. Non è la regola imposta dal padre a fare arrabbiare i figli, più spesso è lo sguardo deluso del genitore che provoca rabbia e aggressione».

Gestione e criticità

La gestione del fenomeno sul territorio è complessa. Trovare le comunità richiede spesso mesi e nel frattempo i ragazzi continuano a stare forzatamente in casa, ammette il Procuratore: «Viene da domandarsi se possa essere utile accorparli in comunità socio-terapeutiche da creare ad hoc, con équipe specializzate, o se invece collocarli in uno stesso luogo sarebbe invece disfunzionale». Il ghetto è proprio il contrario di quello che serve, risponde Simone Feder, educatore e psicologo: «Sono ragazzi cresciuti a patatine e Iphone che diventano padroni di casa senza che i genitori siano capaci di accorgersene — dice Feder —. Delegare la responsabilità genitoriale agli specialisti medici è inutile, bisogna seguire un modello diverso, metterli a contatto stretto con adolescenti che hanno disagio di crescita ma un rapporto ben integrato in casa». Secondo don Claudio Burgio della comunità Kayros «la maggior parte degli episodi sono legati al bisogno di soldi per le sostanze stupefacenti e a volte anche a debiti accumulati dai ragazzi per auto-medicare il loro disagio». I ragazzi chiedono soldi, i genitori cercano di negarli senza che ci sia un vero dialogo e a quel punto esplode la violenza. «Tante volte si tratta di genitori che rappresentano un modello (sia lavorativo sia di vita) in cui i figli non riescono a riconoscersi. Eppure colpisce sempre l’attaccamento alle figure genitoriali. Non di raro, anche subito dopo le violenze, mi sento dire “A loro voglio molto bene”».

Instaurare buoni rapporti tra prof, alunni e famiglie per disinnescare bullismo e violenza in classe

FONTE: Il Sole 24 ORE

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 17 febbraio 2025

Instaurare buoni rapporti tra prof, alunni e famiglie per disinnescare bullismo e violenza in classe

Il rapporto personale fra l'uomo docente e le persone genitori col futuro uomo, l'attuale ragazzo, rappresentano la vera soluzione dei tanti problemi della scuola e, di conseguenza, della società

di Pietro Bordo*

3' di lettura

La maggior parte dei docenti dice apertamente che non sanno cosa fare relativamente agli episodi, ormai quotidiani, di bullismo e di altri atti di violenza degli studenti. Eppure una soluzione c'è: quella che prevede una particolare metodologia relazionale scolastica, sperimentata con successo da me e centinaia di docenti in varie scuole d'Italia. Essa ridurrebbe drasticamente nelle scuole la violenza, gli episodi di bullismo, i casi di insuccesso scolastico e porterebbe molti altri benefici ai ragazzi, alle loro famiglie e quindi alla società.
Conosco bene la scuola elementare poiché è stato per decenni il mio luogo di lavoro quotidiano, dove ho avuto grandi soddisfazioni; e so, confortato da tanti colleghi, che anche alle medie ed alle superiori i fattori più importanti per riuscire ad aiutare significativamente i ragazzi sono gli stessi delle elementari.
Per cambiare sul serio la scuola tutti i docenti e gli operatori scolastici dovrebbero ricordarsi che ogni alunno è prima di tutto una persona, con tutti i suoi problemi; che quando entra in aula non lascia fuori della porta. Il rapporto personale fra l'uomo docente e le persone genitori col futuro uomo, l'attuale ragazzo, rappresentano la vera soluzione dei tanti problemi della scuola e, di conseguenza, della società.

Tre fattori specifici

Ecco di seguito i tre fattori specifici che, nel medio termine, concretamente, possono migliorare radicalmente la situazione nella scuola primaria e negli altri ordini di grado.
1° fattore: Migliorare di molto la collaborazione scuola-famiglia, che produrrebbe effetti sinergici incredibili sulla crescita del ragazzo. Scuola e famiglia si devono scambiare informazioni, formulare diagnosi, progettare interventi mirati per ogni singola necessità del bambino. È evidente, ineludibile, che tocca ai docenti creare un buon rapporto con le famiglie, a qualsiasi costo. Un rapporto stretto, possibilmente cordiale, con i genitori. Soprattutto con quei genitori con i quali possa sembrare impossibile il solo parlare. Credetemi: si può fare! Sono riuscito a farlo anche a Tor Bella Monaca, quartiere di Roma che non gode di buona fama. E io non sono né un genio, né un santo.
2° fattore: Impegno dei docenti a realizzare una relazione significativa con tutti gli alunni, fatta non solo di insegnamenti ed informazioni, ma di comprensione ed accoglienza, quelle vere. Il bambino deve capire che è accolto, accettato, amato a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Nei miei colloqui periodici, in privato, con i bambini è emerso di tutto, che i genitori spesso non sapevano.
Giovanni Bollea, padre della neuropsichiatria infantile italiana, ma anche un umanista, diceva che le relazioni umane curano. Se ci pensate, anche voi ne avete esperienza. Le relazioni significative di cui sopra durano nel tempo. Io mi vedo con continuità, a tu per tu ed in gruppo, con miei ex alunni, con età compresa fra i 16 ed i 50 anni.
3° fattore: Sforzo che devono fare i genitori per trovare il tempo di parlare con i figli. Il terzo fattore per migliorare radicalmente la situazione nella scuola primaria, e anche negli altri ordini di grado, è la comunicazione genitori-figli. I genitori devono essere aiutati dai docenti a capire che devono fare qualsiasi sforzo per trovare il tempo di parlare con i figli, tutti i giorni, possibilmente, anche solo cinque-dieci minuti. Ciò per conoscerli, quindi capire i loro problemi appena insorgono ed aiutarli. Anche parlandone con i docenti e collaborando con loro per un aiuto maggiore. Quanti degli episodi gravissimi di cronaca degli ultimi anni si sarebbero potuti evitare se i figli si fossero confidati con i genitori di quanto stava capitando loro.

Qualità della vita a scuola

Utilizzando i tre fattori suddetti si può migliorare molto la qualità della vita degli studenti, sia a scuola che a casa; si possono migliorare i loro apprendimenti, la loro crescita umana e culturale; si possono ridurre drasticamente gli episodi di abbandono scolastico e di bullismo. Lo so che posso sembrare arrogante, ma ho i risultati di una carriera decennale a confortarmi; ed anche quelli di molti miei colleghi. Ovviamente, nei casi più complessi l'aiuto di uno psicologo è stato importante. Il ministro ha fatto tanti cambiamenti utili, ma niente di significativo, “rivoluzionario”.
Io spero che tutti gli episodi terribili accaduti negli ultimi anni non siano stati vani e spingano il ministro ad esplorare una strada diversa da quelle percorse da sempre, tutte “parallele”, senza risultati. Servirebbe una grande riforma, una coraggiosa innovazione come quella che ho proposto. Che è sicuramente migliorabile.
Jannik Sinner dopo una partita di doppio vinta ha detto che «…l'amicizia fra due giocatori migliora la prestazione sportiva». L'amicizia fra alunno e docente migliora molto il comportamento ed il rendimento del ragazzo. L'ho sperimentato, sempre con successo. Vi chiederete: «Ma perché non ne parla col ministro?». Da due anni chiedo periodicamente al ministro di esporre quanto suddetto; gli ho detto che basterebbero quindici minuti. Ma ha altro da fare, mi dicono dalla sua segreteria.

Scuola+

21 febbraio 2025

Ritratto del buon docente: Basilio Ioppolo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Massimo Gramellini

DATA: 7 dicembre 2024

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Basilio Ioppolo, professore

Se entri in classe e sorridi, anche quando non ne hai voglia. Se sai essere severo, quando è necessario, e magnanimo quando se lo meritano, come quella volta che uno di loro azzeccò la coniugazione di un verbo greco e tu gli facesti un applauso. Se ti sforzi di capire il loro punto di vista e, quando pensi che abbiano ragione, li incoraggi a farla valere. Se non ti offendi alle loro battute, ma replichi con un’altra battuta. Se, quando li vedi stanchi, chiudi i tuoi amatissimi libri e racconti un aneddoto. Se provi ad aggiustare la bici di uno studente e non ci riesci, e ci riprovi. Se cerchi di proteggerli dai fallimenti, ma permetti loro di sbagliare. Se trasmetti passione per le materie che insegni, riuscendo a essere di stimolo e di conforto. Se butti le braccia al collo dei più fragili e chiedi loro «Come va la vita?» anche se la tua, di vita, sta andando a sbattere contro un verdetto intollerabile: ad appena 39 anni, trascorsi tra Capo d’Orlando e Milano, dove insegni al liceo Beccaria.

Se tu fossi solo la metà delle cose che i tuoi ragazzi hanno scritto di te, saresti l’adulto che tutti dovremmo essere e l’insegnante che tutti avremmo voluto avere. Puoi anche andartene all’improvviso e lasciare un vuoto devastante: diventi comunque immortale. Perché poi succede che studenti e colleghi facciano una colletta per realizzare un’aula dedicata allo studio e al relax che porterà per sempre il tuo nome e il senso della tua breve missione su questo pianeta: Basilio Ioppolo, professore.

Allarme da Oxford: anche lì i ragazzi non leggono più. Causa: programmi scolastici semplificati e uso smartphone

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Luigi Ippolito

DATA:  9 ottobre 2024

In una delle università più prestigiose e con studenti rigidamente selezionati fra i più bravi d’Inghilterra e del mondo c'è il problema dell'incapacità dei giovani di concentrarsi sui libri. La diminuita capacità di lettura è dovuta a una minore durata dell’attenzione, conseguenza a sua volta all’uso degli smartphone

 

L’allarme per il decadimento della lettura fra i giovani è arrivato perfino nella città delle guglie sognanti, Oxford: il professore Sir Jonathan Bale, che lì insegna letteratura inglese, ha lamentato alla Bbc che una volta era in grado di dire ai suoi studenti «questa settimana facciamo Dickens, leggete per favore Grandi Speranze, David Copperfield e La Casa Desolata», tutti in una volta, mentre oggi, invece di tre romanzi in una settimana, i ragazzi a stento riescono a finirne uno in tre settimane. Il professor Bale attribuisce questa diminuita capacità di lettura a una minore durata dell’attenzione, dovuta a sua volta all’uso degli smartphone, con i loro «video di sei minuti su Youtube e le iniezioni istantanee di dopamina su TikTok».

È una tesi che è stata ampiamente sostenuta nell’ormai bestseller di Jonathan Haidt «La generazione ansiosa», ma quello che colpisce è che gli effetti si vedano anche in quel tempio del sapere che è Oxford, università frequentata da giovani rigidamente selezionati fra i più bravi d’Inghilterra e del mondo. E non è un fenomeno solo britannico: un recente articolo sulla rivista The Atlantic ha denunciato come i ragazzi americani arrivino all’università incapaci di leggere perché non sanno più come farlo, dato che a scuola lavorano ormai soprattutto su riassunti. E anche il professor Bale addossa in parte la colpa ai programmi scolastici semplificati, che vedono ad esempio in Inghilterra preferire come testo canonico «Uomini e topi» di Steinbeck invece di «Furore», perché è più corto.

Ma le conseguenze di tutto ciò vanno ben al di là della letteratura: come sintetizza magistralmente sempre il professor Bale, «l’intensa, pensosa, tranquilla lettura dei grandi libri fa bene alla salute mentale e fa molto bene allo sviluppo delle capacità di concentrazione e di pensiero critico: e se tutto ciò viene meno, diventa problematico per la società e per gli individui». Un monito che vale per tutti.

9 ottobre 2024

Ocse-Piaac: i laureati italiani sanno meno dei diplomati finlandesi. Un adulto su 3 comprende solo testi brevi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Gianna Fregonara e Orsola Riva

DATA: 10 dicembre 2024

Ennesima doccia fredda, ennesima tempesta in un bicchiere: dall'Invalsi alla rilevazione Ocse-Pisa, non c'è indagine nazionale o internazionale sulle competenze di base da cui non usciamo con le ossa rotte. Segue, in genere, qualche giorno di pianto greco e poi più nulla. Sarà così anche questa volta?

La notizia è questa: un adulto su tre in Italia - e non parliamo solo degli studenti, ma di tutta la popolazione adulta dai 16 ai 65 anni - dispone di capacità linguistiche o matematiche scarse o molto scarse, comunque insufficienti. Può comprendere al massimo testi brevi, dai quali non sia troppo impervio estrarre le necessarie informazioni, ed è in grado di compiere solo operazioni semplici, con numeri interi o decimali, ma già davanti a una proporzione arranca. Per non dire del problem solving, la capacità logica di risolvere questioni complesse: quasi la metà degli adulti è insufficiente. Certo, in generale, c'è chi va peggio di noi - come il Portogallo - ma tutti gli altri vanno meglio (Spagna, Francia e, fuori dall'Europa, gli Stati Uniti) o molto meglio di noi (Germania  e tutto il Nord Europa). Non solo abbiamo pochi laureati ma quei pochi che abbiamo ottengono un punteggio medio inferiore ai finlandesi che si sono fermati alla maturità. Le capacità acquisite a scuola in Italia invecchiano in fretta, più in fretta che negli altri Paesi e i percorsi di formazione continua (il cosiddetto lifelong learning) non è ancora diventato una realtà. Tutto questo restringe le opportunità lavorative dei singoli e rallenta il progresso della società nel suo insieme.

 

La rilevazione Piaac

Sono questi solo alcuni dei dati della nuova rilevazione Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell'Ocse che misura lo stato della popolazione adulta nei Paesi di tutto il mondo. Rispetto alla scorsa edizione i risultati sono lievemente peggiorati, con un aumento del 7 per cento (dal 28 al 35) di coloro che non arrivano al livello sufficiente.  Raggiungere e mantenere un buon livello di compentenze nel leggere, scrivere e far di conto non aiuta soltanto a trovare lavoro (92 per cento di occupazione contro il 60 per cento di chi ha un livello insufficiente) e a guadagnare meglio (oltre 12 euro all'ora di differenza media), ma si traduce anche in un maggior benessere, in una condizione di miglior integrazione nella società e nell’economia del proprio Paese: possedere le adeguate competenze in «literacy», «numeracy» e «problem solving» (sono queste le tre competenze indagate dall'indagine Piaac) è la condizione indispensabile per poter partecipare ai processi legati all’innovazione senza subirli o peggio: senza restare tagliati fuori.

 

L'allarme

Secondo il Piaac - che si è svolto nel 2022-23 su un campione di popolazione tra i 16 e i 65 anni in 31 Paesi e in Italia in particolare con un campione di 4847 adulti, rappresentativi di circa 37,4 milioni di persone -i risultati del nostro Paese sono al di sotto della media Ocse. Se a questo si aggiunge che quasi un adulto su due (40 per cento) ha un'occupazione che non c'entra niente con quello per cui ha studiato e che il 18 per cento è sotto-qualificato per il lavoro che fa (la media Ocse è 9 per cento) e un altro 15 è troppo qualificato (media Ocse 23 per cento) ce ne è abbastanza per lanciare l'allarme.

I risultati degli adulti nel nostro Paese

Per quanto riguarda la «literacy», cioè la capacità di comprendere un testo, un adulto su tre (il 35%) ha ottenuto un punteggio pari o inferiore al livello 1 - la media Ocse è del 26 per cento - il che significa che «è in grado di comprendere testi brevi ed elenchi organizzati, quando le informazioni sono indicate chiaramente, e può individuare informazioni specifiche e identificare collegamenti rilevanti all'interno di un testo» (livello 1) o che «è in grado di comprendere, al massimo, frasi brevi e semplici» (sotto il livello 1). Se invece consideriamo gli adulti che hanno le competenze adeguate (livello 4 o 5 della scala Ocse), in Italia sono solo il 5 per cento contro una media internazionale del 12 per cento.

 

La matematica

Anche in «numeracy», intesa come la capacità di calcolo, un adulto su tre (il 35%) è «low performer», cioè fermo al livello 1 o anche sotto. La media dei Paesi Ocse è invece del 25 per cento. Queste persone sanno soltanto «fare calcoli di base con numeri interi o con il denaro, comprendere i decimali e identificare ed estrarre singole informazioni da tabelle o grafici, ma possono avere difficoltà con compiti che richiedono più passaggi (es. risolvere una proporzione). Quanti sono al di sotto del livello 1 sono in grado di sommare e sottrarre numeri piccoli». Gli «high performer» (livello 4 e 5) in Italia sono soltanto il 6 per cento, meno della metà della media dei Paesi Ocse che si attesta al 14 per cento.

Il problem solving

Infine nell’ambito del «problem solving» quasi la metà degli italiani è totalmente insufficiente (46 per cento sotto o pari al livello 1 contro una media Ocse del 29 per cento): i risultati sono inferiori anche a quelli del Portogallo. Coloro che si trovano in questa situazione hanno «difficoltà con problemi che presentano più passaggi o che richiedono il monitoraggio di più variabili». Circa l'1% degli adulti invece ha ottenuto un punteggio di livello 4 o 5: un risultato molto inferiore alla media Ocse che è del 5 per cento.

 

Il contesto 

Ma il dato più drammatico è quello che riguarda gli adulti che non ottengono la sufficienza in nessuna di queste tre competenze fondamentali e che, in quanto tali, sono ad alto rischio di esclusione economica e sociale. Da noi sono il 26 per cento (contro il 20 per cento della Francia e il 15 della Germania): un cittadino italiano su quattro. Non solo: mentre in quasi tutti gli altri Paesi la fascia d'età in assoluto più qualificata è quella dei giovani fra i 25 e i 34 anni, da noi il declino delle competenze comincia già dopo i 24 anni e le opportunità di lifelong learning restano ancora pochissime. Anche i titoli di studio premiano meno che altrove: un laureato italiano ottiene in media solo 19 punti in più di un semplice diplomato nella prova di «literacy» (contro una media Ocse di +33 punti) e il diplomato a sua volta ottiene 35 punti in più di chi ha in tasca solo la terza media (contro una media Ocse di +43 punti). In compenso il raddoppio degli stranieri rispetto alla precedente rilevazione ha avuto un impatto relativo: gli immigrati di prima generazione da noi ottengono un punteggio inferiore di 30 punti in «literacy» che si riduce a 13 punti se si confrontano con i cittadini italiani dello stesso livello socioeconomico. In Francia e Germania lo svantaggio è molto più netto: rispettivamente - 58  e -74.  Quanto agli immigrati di seconda generazione e ai nuovi italiani ottengono invece risultati in linea con quelli di chi è nato in Italia da genitori italiani.

10 dicembre 2024 ( modifica il 10 dicembre 2024 | 11:37)© RIPRODUZIONE RISERVATA

Umberto Galimberti: «Io, un padre carente. Se per i figli resta tempo solo la sera davanti alla tv, abbiamo sbagliato tutto»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORI: Maria Luisa Agnese e Greta Sclaunich

DATA: 24 marzo 2023

Intervista al filosofo: «Sono favorevole ai telefonini ai ragazzi: se fin da piccoli hai parlato molto con loro, loro continueranno a parlare con te. I nuovi padri? Li vedo abbastanza male, sono caduti nel mito del giovanilismo»

Padri di ieri e padri di oggi, a confronto: ne parla il filosofo Umberto Galimberti, saggista, psicanalista e seguitissimo protagonista di conferenze per l’Italia, che qui riflette sugli errori delle due generazioni, arrivando anche ad ammettere qualche mancanza personale, di non essere stato talvolta un buon padre per sua figlia. «Se devo seguire i miei progetti e dedicarmici tutta la giornata, e quando torno a casa ai miei figli resta solo un po’ di tempo insieme davanti alla tv, allora abbiamo sbagliato tutto»: un rimbrotto che vale per tutti i papà (e le mamme) del passato e del domani. Questo non vuol dire che persino Galimberti sia stato del tutto distratto: anche lui ha cambiato i pannolini, «ho pure pulito il sedere, queste cose qui si fanno naturalmente. Se uno non cambia un pannolino a suo figlio, dove è rimasto?».

Ma cosa è cambiato dalla sua generazione a oggi?
«Prima del ‘68 vivevamo nell’età della disciplina, il messaggio della famiglia coincideva con quello della società: se vuoi raggiungere i tuoi obiettivi lavora e sacrìficati. Dopo il ’68 questa società si è smobilitata per un anelito di libertà: il motto era Vietato vietare! Poi, su questa componente si è inserita l’importazione della cultura americana che richiedeva autoaffermazione e performance spinta. La cultura americana e la cultura del ‘68 sono confluite: le regole possono ammettere tranquillamente le deroghe, però dal lunedì al venerdì tu devi funzionare a livello di performance, competenza, velocizzazione del tempo, il sabato e domenica fai quello che vuoi».

Sclaunich: Questo ha cambiato anche il modo di fare i genitori.
«Prima i genitori erano supportati dalla società e quindi era riconosciuta l’autorità paterna, che era sostanzialmente quella della tradizione. Poi i padri sono diventati amici dei figli, sono caduti nel mito del giovanilismo, hanno ceduto alle loro dimensioni affettive calibrate sulla pura passione per cui quando finisce la passione ci si separa e si divorzia. In pratica la società ha insegnato il principio di piacere (perché la società è diventata opulenta) che si è riverberato anche nell’ambito della famiglia».

«SONO FAVOREVOLE AI TELEFONINI AI RAGAZZI: SE FIN DA PICCOLI HAI PARLATO MOLTO CON LORO, LORO CONTINUERANNO A PARLARE CON TE»

Agnese: Ora non è facile riconquistarsela, l’autorevolezza.
«Le parole dei genitori sono efficaci da zero a 12 anni. Dopo i ragazzi devono andare incontro alla separazione dal mondo genitoriale e passare dall’amore incondizionato da cui sono stati gratificati quando erano bambini, all’amore condizionato che è quello orizzontale con i propri amici. I padri di solito non parlano con i figli: nella società della disciplina incaricavano le madri ma anche dopo hanno continuato a non farlo, perché si annoiano. Le madri invece parlano sì, però sempre a livello fisico: non uscire con i capelli bagnati, mettiti la maglia, stai attento ai semafori. Mai una domanda psicologica, mai che si chieda al figlio: sei felice?».

Agnese: Lei ha fatto mai questa domanda a sua figlia, sei felice?
«Se proprio insiste, glielo dico: no. Mia moglie lavorava in maniera assidua in un laboratorio di biologia molecolare, io mi occupavo di libri perché pensavo che i figli avessero bisogno di una famiglia sana, e che sarebbero cresciuti sani, automaticamente».

Sclaunich: Quindi vale l’esempio.
«L’esempio è quello che deve funzionare dopo i 12 anni, appunto. Dopo quell’età è inutile che i genitori si lamentino perché i figli non parlano: non lo fanno perché prima i genitori gli hanno parlato pochissimo o comunque non abbastanza. E quando i figli parlano, i genitori devono ascoltarli. Ma con l’atteggiamento di chi pensa: forse io ho qualcosa da imparare da te, sono interessato alle competenze che tu hai e che io non ho. Se c’è questa disposizione, i figli ricominciano a parlare».

 

Sclaunich: Un cambio di passo, ascoltarli senza fare gli amiconi.
«I genitori oggi si vedono in quella funzione castrante che è quella di proteggerli all’infinito. Io nella scuola secondaria superiore proporrei l’abolizione della presenza dei genitori: via, radicalmente. Perché i genitori sono interessati alla promozione, non alla formazione dei loro figli. Se non sono promossi ricorrono al Tar, e cosa fanno i professori per non aver rogne? Li promuovono tutti. Evviva. E poi non consentono ai figli di impostare quel rapporto iniziatico per cui già a partire dalla prima e seconda liceo se hanno problemi ne parlino direttamente all’insegnante, non al padre che poi va dall’insegnante. Quando si emancipano questi ragazzi?».

Sclaunich: Come vede i nuovi padri?
«Li vedo abbastanza male, sono ancora peggiorati; da quando è entrata la psichiatria nella scuola sono diventati tutti disgrafici, dislessici, acalculici, asperger, autistici… è una clinica la scuola elementare! Perché i professori vogliono una ricetta per un corso scolastico privilegiato alleggerito, semplificato. Ci saranno anche disgrafici e dislessici ma non in queste proporzioni: quando io andavo alle scuole elementari qualcuno faceva fatica a leggere, si esercitava un po’, poi leggeva».

Agnese: Cos’è cambiato?
«Per leggere, per scrivere, oggi noi siamo passati da un’intelligenza sequenziale, che è quella che serve per leggere e scrivere da sinistra a destra e poi riprendi nelle righe successive, a una intelligenza simultanea che è quella dell’immagine. Quando guardo un quadro non devo passare da sinistra a destra e poi ricominciare da capo. Se io leggo c-a-n-e, cane, il mio cervello di fronte a questo segno grafico deve costruire l’immagine del cane. Se ce l’hai lì davanti l’immagine, il cervello è esonerato, ed è chiaro che poi saltano fuori disgrafici e dislessici».

Agnese: Lei introduce il tema del sacrificio. Già da piccoli bisogna fare fatica?
«Nei miei sillabari, nel 1947, non c’era neanche un’immagine e dovevamo noi costruirla a partire dalla lettura, dai segni grafici».

Agnese: Lei con i ragazzi non usa mai l’analisi o la psichiatria, ma la filosofia. Serve di più: lo sostiene anche nell’ultimo libro, Le grandi domande. Filosofia per giovani menti, scritto con Luca Mori per Feltrinelli.
«Li sollecito con le grandi domande, tipo: perché sono al mondo? Cosa significa pensare? Cosa vuol dire crisi? Dio esiste? Quello che è importante non è che i bambini studino filosofia, ma che imparino a filosofare, a porsi delle domande. Mentre noi viviamo in una cultura che cerca sempre risposte, ricette, diagnosi, per stoppare l’inquietudine della domanda. Nelle mie conferenze non accetto domande, perché le domande tengono viva la mente e le risposte la stoppano».

Sclaunich: Quindi va bene per un genitore non avere tutte le risposte?
«Certo. Ma un genitore deve capire che la domanda del bambino spesso ne nasconde una diversa. Un giorno ho sentito un bambino dire alla sua mamma che, secondo lui, Dio non esiste perché non ha una mamma: lei si è messa a ridere, ma la sua affermazione avrebbe dovuto essere presa sul serio perché il piccolo stava cercando il principio di causalità, e la mamma avrebbe dovuto spiegarglielo».

Agnese: Lei fa tutto questo con i suoi nipotini?
«Nella stessa maniera per cui sono stato carente come padre sarò ancora più carente come nonno. (Ride). Li vedo raramente perché sono sempre in giro a far conferenze. Però mia figlia ha fatto la mamma in una maniera eccezionale: tutto quello che so su come crescere i ragazzi l’ho imparato da lei».

Agnese: Cosa ha imparato da lei?
«Per esempio il fatto che con loro si deve parlare tanto, che bisogna renderli autonomi e curare questa autonomia, gratificandoli quando fanno un passo avanti e cercando di capire insieme perché ne fanno uno indietro. Solo la comunicazione frequente e assidua e l’attenzione li fanno crescere bene. Rispetto al rapporto che ha mia figlia con i miei nipoti mi rendo conto di quanto io sia stato invece carente, con lei ho parlato poco».

Sclaunich: Lei si paragona a sua figlia come se non ci fossero differenze di genere, come se il genitore “bravo” fosse indifferentemente mamma o papà.
«Certamente. Io ai genitori di oggi non do nessun consiglio, tutto dipende dalla relazione genitoriale che c’è tra moglie e marito, moglie e moglie, marito e marito. Se la relazione funziona è già una salvaguardia per il figlio, e perché funzioni è necessario che nessuno dei due consideri il suo partner “mio”. Cosa sono questi aggettivi possessivi? L’altro è, appunto, un altro e più è altro più mi incuriosisce per la novità che rappresenta. Se lo considero “mio” lo incasello in un contesto in cui è significativo solo in quanto risponde a un mio bisogno o necessità. Queste categorie del possesso ci sono in tantissime coppie genitoriali, e poi ci meravigliamo dei femminicidi. Io e mia moglie siamo stati insieme 41 anni e funzionavamo benissimo. Quando si entra nelle famiglie a volte si sente urlare, altre volte c’è quel silenzio, soprattutto nelle classi borghesi elevate, che è più freddo dell’ira. Quel gelo che si crea nella non comunicazione generale, e che i telefonini hanno amplificato: avete presente quelle famiglie al ristorante, ognuno con il suo cellulare in mano e ognuno nel suo mondo?».

 

Sclaunich: Anche qui vale l’esempio. Come facciamo a togliere i cellulari ai nostri figli se noi genitori lo abbiamo sempre in mano?
«Io in questo sono un ottimo esempio: ci sono voluti dieci anni perché ne prendessi uno e anche adesso lo lascio spesso in cucina quando devo lavorare, non mi interessa chi mi scrive o mi chiama. Però in realtà sono abbastanza favorevole al fatto che si diano i telefonini ai ragazzi. Sennò li si priva della socializzazione, che purtroppo avviene ormai solo attraverso questi schermi. Non ha nessun senso porre limiti, se non di tempo: per esempio non devono usarli a scuola».

Agnese: Quindi, sì al cellulare. Sì anche ai social?
«Non dobbiamo pensare che noi abbiamo dei pensieri e la parola serve per esprimerli: è il contrario, se le parole sono poche tu pensi poco. Come fai a pensare una cosa per la quale non hai la parola? I ragazzi sui social passano il tempo a dire come si sono vestiti e pettinati, e il loro linguaggio si limita a questo. Una volta per conoscere il mondo si usciva di casa, oggi si sta a casa con il computer e il telefonino. Tu vivi il mondo che ti hanno allestito, non quello di cui fai esperienza».

Sclaunich: Un genitore può fare qualcosa per arginare questo fenomeno?
«Dobbiamo persuaderci che alcuni fenomeni sociali sono irreversibili. Ma torniamo sempre là: se con tuo figlio hai parlato tanto anche se lui usa social e telefonino continuerà a parlare con te».

23 marzo 2024

Cosa passa nella mente degli adolescenti?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Bidoli

DATA: 19 maggio 2024

Il loro cervello è una lente di ingrandimento sul mondo, particolarmente sensibile a cogliere gli stimoli dall’esterno e a vivere nuove esperienze, in un equilibrio precario tra potenzialità ancora inespresse e fragilità

È un periodo unico nella vita dell’individuo in cui si fanno scelte (e rinunce) che definiranno la persona che si sarà in età adulta. L’adolescenza descrive il passaggio dall’infanzia alla completa maturazione, che biologicamente avviene tra gli 11 e i 25 anni, caratterizzato dalla trasformazione corporea e dallo sviluppo dei sistemi neurobiologici (quelli che determinano l’elaborazione delle informazioni e orientano i comportamenti). Questi processi portano a una riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello che andrà a definire molte delle capacità, abilità e modalità che costituiranno il modo di agire e pensare «da grandi».

La nostra identità, come ragioniamo e ci rapportiamo con gli altri trova le sue basi in questa fase della vita ricca di potenzialità, ma anche delicatissima, in cui molto di ciò che viviamo e sperimentiamo, che è in costante rapporto «dialettico» con il nostro patrimonio genetico, ha effetti strutturali a lungo termine. L’esposizione a «fattori positivi», di tipo fisiologico (sonno, alimentazione, attività fisica), relazionale (legami affettivi ed educativi) ed esperienziale (scuola, viaggi, attività), così come quella a «fattori tossici» (utilizzo di sostanze stupefacenti, alcol, insonnia, psicopatologie non trattate) non solo orientano ma plasmano e scolpiscono il cervello. Gli stimoli ricevuti durante l’infanzia generano la formazione di reti neurali che consentono l’apprendimento delle abilità, ma è poi in adolescenza che avviene il fenomeno dell’use it or lose it in cui si sceglie che cosa rinforzare e che cosa «potare» (il fenomeno è detto pruning sinaptico), una selezione che andrà a determinare chi saremo in età adulta.

Se l’adolescenza è un passaggio fisiologico all’età adulta caratterizzato dalla trasformazione corporea e da una profonda riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello, che è particolarmente malleabile, plastico e portato all’apprendimento, quella di oggi, che riguarda la cosiddetta Generazione Z, è considerata particolarmente a rischio. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono tra il 10 e il 20% i bambini, ma soprattutto gli adolescenti, che soffrono dal punto di vista psichico, con il 75% delle patologie che esordisce prima dei 25 anni e la metà che presenta sintomi entro i 14 anni, in particolare depressione, ansia e disturbi comportamentali.

 

Perché la Generazione Z è così in crisi? Colpa della pandemia di Covid?

«Quello a cui assistiamo non dipende solo dall’esperienza vissuta durante la pandemia, che certo ha inciso negativamente sulla psiche dei ragazzi. Occorre innanzitutto riconoscere che la nostra epoca è caratterizzata da profonde trasformazioni di “tempo e spazio” a causa dello sviluppo iperbolico e rapidissimo della tecnologia, — spiega Giovanni Migliarese, psichiatra direttore SC Salute Mentale Lomellina Asst Pavia e segretario della sezione lombarda della Società Italiana di Psichiatria —. Negli ultimi anni c’è stato uno stravolgimento degli “assi cartesiani” su cui si basa la nostra esistenza e, come società, siamo ancora in piena trasformazione. Gli spazi sono diventati fluidi, non ci sono confini, il tempo è accelerato: la iper-connessione ci porta a non “staccare mai” e a essere sempre sotto stimolo. Ciò ha un impatto sulla salute psichica di tutti, ma soprattutto dei giovani. Basti pensare che il mondo in cui i ragazzi imparano, giocano e interagiscono è cambiato di più negli ultimi 15 anni che nei 500 precedenti e anche il ritmo di penetrazione dei dispositivi tecnologici è senza precedenti: 38 anni per la radio, 20 per il telefono e solo 2 anni per il tablet.

«Ciò incide particolarmente sui giovani perché le nuove tecnologie rispondono alle tipiche esigenze del periodo adolescenziale: desiderio di condivisione tra pari, volontà a essere sempre “connessi”, tendenza alla sperimentazione, ricerca delle novità. La specifica responsività adolescenziale del sistema del piacere viene costantemente stimolata da social network, giochi online, video e dagli altri prodotti digitali multisensoriali. Il rischio per il cervello è un’iperstimolazione sensoriale, mentre avrebbe bisogno di selezionare le informazioni e avere periodi di riposo (i cosidetti resting state) necessari per elaborare gli inputriorganizzare le reti neurali ed eliminare le scorie prodotte. Di solito questa attività avviene di notte, ma qui c’è un altro punto dolente: il sonno degli adolescenti, per colpa, anche dell’iper-connessione, è spesso disturbato con effetti che riguardano non solo l’aumento del livello di stress ma anche modificazioni sistemiche, tra cui alterazioni degli equilibri ormonali e immunitari», risponde lo psichiatra.

 

Di cosa ha bisogno un ragazzo in questa particolare fase della vita?

«L’adolescente deve poter sperimentare per imparare a conoscersi, per comprendere chi è, domanda centrale del suo compito evolutivo. Ma dovrebbe poter effettuare una sperimentazione reversibile, da cui possa tornare indietro. Un conto è sbagliare e poter rimediare, un conto è fare un errore con conseguenze irrimediabili. Compito dei genitori è, quindi, quello di favorire uno spazio di sperimentazione sufficientemente protetto».

«È inoltre importante che l’adolescente senta che gli si vuole bene. Va precisato che l’adolescenza non arriva all’improvviso, va “preparata prima”, creando un legame affettivo nell’infanzia che significa, molto semplicemente, avere il piacere di “fare cose” insieme e mantenere, negli anni, queste abitudini. Aver creato semplici routine che permettono la condivisione di spazi o momenti è un prezioso investimento nel tempo. Qualsiasi tradizione familiare, come per esempio vedere le partite o un film insieme, diventa un’ancora che, anche nei momenti più conflittuali, consente di “rimanere attaccati” ai figli. È un modo efficace per esserci reciprocamente, anche in quei momenti in cui è più difficile parlare perché si isolano o alzano un muro», dice Migliarese.

 

Se si isolano come si può comunicare con loro?

«Gli adolescenti sono emotivamente molto sensibili e possono avere reazioni spropositate di fronte a situazioni neutre. Quando sono all’interno di una “tempesta emotiva”, che è fisiologica, è inutile cercare di essere razionali e farli ragionare. Occorre reagire senza amplificare la crisi, lasciando che le questioni siano affrontate quando è tornata la calma. Così li si allena al contenimento emotivo, che aiuta a gestire frustrazioni ed emozioni», consiglia l'esperto.

Perché è importante prendersi cura della salute mentale degli adolescenti?

«In adolescenza l’influsso di fattori biologici, psicologici e sociali scolpisce il cervello, potenziando alcune competenze (fisiche, cognitive, relazionali, affettive ed emotive): quello che costruiamo in questi anni varrà poi per tutta la vita, per questo va considerato come un periodo su cui investire e su cui porre particolare attenzione perché è una fase di vulnerabilità neuro-psicologica. «È nel periodo adolescenziale, infatti, che esordiscono la maggior parte delle patologie psichiche che, se non riconosciute e curate, possono influenzare il percorso di vita. L’adolescenza è come la primavera: se si investe bene i fiori si rinforzeranno e durante l’estate (l’età adulta) si potranno cogliere i risultati della semina», spiega Migliarese.

 

I segnali da monitorare

Come capire se certi comportamenti in età adolescenziale sono fisiologici o rientrano in un campo patologico? «Se diventano di una certa intensità e frequenza o se impattano sulla qualità della vita meglio approfondire. Un altro elemento da monitorare è quello delle “reazioni immodificabili”. Si tratta di una sorta di “loop comportamentali” che non consentono al ragazzo di trovare vie di uscita. A tutti capita di affrontare delle difficoltà ma il nostro obiettivo, con il tempo e l’esperienza, è maturare quelle capacità che ci permettono di superarle. Nel corso del nostro sviluppo, e in generale per tutta la vita, perfezioniamo il nostro modo di adattarci e trovare soluzioni alternative. Ci sono alcune difese che funzionano bene fino a un certo momento e poi non funzionano più e occorre diversificare. Se questo non avviene e i problemi si estendono a tutti ambiti è bene parlarne con uno specialista», commenta lo psichiatra.

 

A chi rivolgersi in caso di dubbi o problemi?

«In prima battuta al proprio medico di famiglia, che di solito ha una sufficiente esperienza sulle problematiche di salute mentale e ha un approccio che parte dalla valutazione dei sintomi. In generale, poi, è meglio che il percorso terapeutico abbia un approccio integrato, che possa prevedere la presenza di diverse figure (neuropsichiatra infantile, psichiatra, psicologo...), che ci sia continuità nelle cure durante la crescita e che coinvolga i genitori. Un adolescente in difficoltà riversa sull’ambiente le proprie problematiche e ha bisogno di un supporto ampio che va oltre il momento della “terapia”. E poi che ci siano degli step: avere dei tempi per valutare dove si sta andando permette ai ragazzi di sentirsi “in controllo” nel percorso di cura e ai curanti di valutare gli esiti, evitando pericolose perdite di tempo», conclude Migliarese.