Il ruolo motivazionale del docente

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 16 febbraio 2023

LINK: ... era sul giornale cartaceo

Sotto l'immagine c'è il testo, per una lettura più agevole

Caro Direttore,

ho riscontrato, parlando con le mie colleghe, che la maggior parte di loro non ha mai fatto una riflessione sulle motivazioni che dovrebbero portare uno studente ad impegnarsi nello studio. E le motivazioni sono un elemento fondamentale per il successo di una qualsiasi persona, sia a scuola che nella vita.

Pur avendo io conoscenze relative alla scuola elementare, penso che le motivazioni che dovrebbero spingere un ragazzo allo studio, opportunamente adattate, siano le stesse anche per un ragazzo delle medie e del liceo. Esse dovrebbero essere condivise con i genitori nel primo incontro di inizio anno scolastico.

Un bambino di cinque anni che passa dalla scuola materna alla primaria deve accettare un cambiamento notevole della sua vita, che gli richiederà sicuramente un impegno che non gli era stato mai chiesto. Pur se, si spera, con gradualità ed in allegria; ed anche con la cura degli insegnanti a non trascurare mai la possibilità che l'apprendimento avvenga soprattutto con attività ludiche.

Perché il bambino dovrebbe accettare questo cambiamento?

Sono rari, secondo la mia esperienza, ormai decennale, i bambini di età compresa fra i sei e i dieci anni che studiano per il piacere di studiare.

Il piacere di apprendere, di migliorare, è invece determinato da alcuni fattori che ora vado ad analizzare.

 

La famiglia.

Il bambino, se sereno, felice, ha il piacere di corrispondere alle conosciute attese dei genitori relativamente al suo impegno scolastico. Naturalmente queste conosciute attese non devono essere eccessive, altrimenti potrebbero creargli ansia. Ed è importante che il bambino sappia, grazie alle parole dei genitori, di poter sbagliare, che l'impegno è l'aspetto più importante del suo lavoro, e che i risultati positivi verranno sicuramente (atteggiamento ottimistico). Inoltre accresce l'impegno del bambino anche la volontà di "diventare grande".

Qualcuno potrebbe obiettare: dipende dalla famiglia del bambino. Certo, il contributo non sarà sempre ottimale, ma sempre determinante. E queste non sono parole.

Ho insegnato anche a Tor Bella Monaca, un quartiere della periferia romana che non gode di buona nomea; anzi. Ebbene, quasi tutti i genitori dei miei alunni hanno collaborato attivamente. È bastato rivolgersi a tutti, in assemblea all’inizio dell’anno scolastico, evidenziando quanto fosse importante la nostra collaborazione per il bene del figlio; e poi trattarli con il dovuto rispetto durante i colloqui individuali.

Oltretutto così facendo si aiuta la famiglia a migliorare la propria capacità di interazione con il figlio, compito al quale nessuno l’ha preparata.

 

Rapporto con i docenti.

Se il bambino instaura un buon rapporto con i docenti, un po' studia anche per non deludere le loro aspettative.

 

Il gruppo.

Se il bambino si trova bene a scuola, con i compagni, ha il piacere di stare con loro, di identificarsi nel gruppo; e se il gruppo studia, anche lui non vuol essere da meno. È quindi importante che i docenti favoriscano buoni rapporti interpersonali fra gli studenti. Questo aiuta molto a prevenire fenomeni di violenza, bullismo e discriminazione.

 

Analogia con il lavoro dei grandi.

Al bambino piace l'idea che lui con la sua attività scolastica "lavori come la mamma o il papà". Anche questo fattore è opportuno che gli sia evidenziato con continuità.

 

Vantaggi pratici.

Il bambino si rende facilmente conto dei vantaggi concreti che gli offre lo studio: capacità di esprimersi meglio in lingua; abilità di calcolo utilissime; regali vari in occasione di voti o giudizi particolarmente positivi (lo so, quest'ultimi possono essere considerati "mezzucci"; ma sono fra quelli più efficaci, anche quando si può iniziare a proporre il fattore del quale ora parlerò).

 

Visione etica dello studio.

Questo fattore, che si comincia a proporre ai ragazzi in terza, quarta elementare, è sicuramente il più importante. Altrimenti è inutile fare lezioni di educazione civica.

Purtroppo è anche il più difficile da far germogliare nella mente e nel cuore dei ragazzi; alcuni vanno in prima media senza ancora possederlo.

Ecco allora che l'azione fondamentale del docente non può essere solo quella di insegnare all'alunno cosa e come studiare, ma soprattutto quella di persuaderlo, in stretto accordo con la famiglia, a voler studiare, avendo come fine ultimo l'acquisizione da parte dell'alunno della motivazione principale, quella etica, che lo deve spingere a studiare per poter rispondere un domani alla sua vocazione, quale essa sia, per dare il suo contributo alla società; forse all’umanità.

E per portare avanti un'azione del genere, durante la quale l'insegnante opera come un catalizzatore, che favorisce le varie "reazioni chimiche" nella mente del bambino, possibilmente senza intervenire direttamente in esse, intervenendo sui fattori positivi per lo studio, affinché l'alunno ne acquisisca consapevolezza, e rimuovendo  progressivamente quelli negativi, è a mio avviso indispensabile che  il docente e il discente non siano solo tali, ma che tra essi si stabilisca una relazione significativa tale che l'alunno sappia che è accettato, amato e rispettato prima di tutto come persona, a prescindere da ogni risultato scolastico.

Se si realizza questa relazione (se si lavora nel "cuore dell'uomo") si ha un ragazzo fortemente motivato; e se l'insegnante ha competenze professionali adeguate i risultati sono sicuri e stabili nel tempo.

E non c'è paragone con quanto si può pensare di ottenere solo instillando nell'alunno nozioni dall'esterno, come si fa nell'ammaestrare gli animali, perseguendo tante piccole mete; oppure imponendo una disciplina ferrea con atteggiamenti duri; oppure concedendo tutte le libertà, per acquisire la loro benevolenza.

Come ho già detto, la motivazione etica si comincia a proporre generalmente dalla terza elementare.

Naturalmente affinché si stabilisca questa relazione significativa è molto importante che il ragazzo stimi gli insegnanti e sappia che essi godono della totale fiducia della famiglia. Senza che quest’ultima si precluda la possibilità di valutare, anche negativamente, il lavoro degli insegnanti.

È opportuno però che la famiglia parli di eventuali problemi con l'insegnante, mai con il bambino o davanti a lui.

È questa una "conditio sine qua non" per realizzare la relazione significativa fra gli insegnanti e l'alunno, indispensabile per ottenere risultati positivi. Un altro elemento molto importante per buone relazioni in classe è l’allegria. L’angolo della barzelletta, previsto tutti i giorni verso la fine della giornata scolastica, vi ha sempre contribuito molto.

Tocca ai docenti creare un buon rapporto con le famiglie

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 16 maggio 2022

Il patto educativo: cari professori, tocca a noi creare un buon rapporto con le famiglie

di Pietro Bordo, maestro elementare

Con rispetto e comprensione si risolvono anche le situazioni più complicate. Ma ci vuole la collaborazione di tutti. E negli ultimi anni la situazione è migliorata

A proposito della discussione sui rapporti tra genitori e studenti e sulla fine di fatto del patto educativo nelle scuole, per me, rispetto agli anni ’80, quando ho iniziato ad insegnare, sono migliorati. In quegli anni genitori e docente (c’era il docente unico alle elementari) comunicavano pochissimo, solo in occasioni particolari o straordinarie. Con alcuni genitori dei miei alunni non ho mai parlato! Oggi per il team della classe sono periodicamente previsti incontri con i genitori di ogni bambino ed incontri in assemblea con tutti i genitori della classe. Nei colloqui individuali si parla ovviamente di ciò che riguarda il singolo alunno, anche se non di alcuni argomenti importanti della sua vita; nelle assemblee della vita della classe, in generale. E soprattutto in quest’ultime spesso arrivano contributi positivi da parte dei genitori.

Il ruolo del prof

Un docente per avere un buon rapporto con i genitori, conditio sine qua non per svolgere un lavoro veramente efficace, è fondamentale che abbia chiari alcuni concetti. Ciò che i genitori pensano del docente dipende da come lui si comporta in classe con il proprio figlio e da come lui si rapporta con i genitori nei colloqui individuali ed in assemblea. Se il bambino capisce che fra lui ed il docente c’è una relazione significativa, per la quale egli è accolto, accettato, amato (sì!) a prescindere dai risultati, il bambino riferirà positivamente a casa e soprattutto sarà stimolato ad impegnarsi sempre di più in tutte le attività scolastiche. Ed accetterà anche rimproveri e voti non belli, se è reso consapevole che sicuramente migliorerà in tutto. Se i genitori nei rapporti con i docenti vedono rispetto e comprensione, ed il docente non si mostra saccente ed arrogante, difficilmente si contrappongono ed accettano, nella mia esperienza è così, ciò che viene loro detto e proposto. E se sorgono dei problemi è fondamentale che il docente resti calmo e sereno, ricordando che lui è un professionista della formazione ed i genitori no. Inoltre loro stanno parlando del loro figlio, di ciò che hanno di più prezioso, quindi hanno un coinvolgimento emotivo enorme e meritano comprensione e rispetto, anche se sbagliassero. Ovviamente in caso di posizioni inconciliabili (generalmente sulle valutazioni singole o quadrimestrali) il docente deve spiegare bene che tutto è stato fatto nell’interesse del bambino. E successivamente, nella mia esperienza decennale è così, i genitori capiscono.

Il riconoscimento

In un caso mi è successo che mi sia stata riconosciuta la giustezza del mio operato parecchi anni dopo. La situazione si può complicare, una sola volta mi è capitato, in oltre quarant’anni, se i genitori in disaccordo con il docente si rivolgono alla preside e questa non è equilibrata e getta benzina sul fuoco. Dopo, ricucire i rapporti richiede tempo e fatica. Ma ci sono riuscito. Seguendo i criteri sopra esposti, posso affermare senza tema di smentita che ho sempre avuto rapporti ottimi con tutte le famiglie. Anche se in qualche rarissimo caso ho dovuto faticare all’inizio per conquistarlo, consapevole che senza questa situazione il docente non può fare il massimo per aiutare il bambino. Anzi, può fare poco. Posso aggiungere che quasi tutte le colleghe dei miei team hanno condiviso quanto sopra detto, poiché ne abbiamo parlato molto ad ogni inizio di anno scolastico dandoci vicendevolmente dei consigli e studiando come rapportarci con genitori particolarmente difficili già conosciuti. Ovviamente nonostante tutto sono capitati alcuni momenti e situazioni di non facile gestione; ma tutti risolti. Il fatto che qualsiasi genitore dei miei ex alunni incontri, anche dopo qualche decina di anni, mi saluti con atteggiamento molto cordiale ed affettuoso è la prova che quanto scritto sopra non sono solo parole. Concludo: se il docente si impegna al massimo riesce a realizzare ed attuare un patto educativo con i genitori, nel reciproco rispetto e riconoscimento dei ruoli; e ciò dà grandi benefici alla crescita umana e culturale del bambino.

Figli sconosciuti per molti genitori: come evitarlo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 25 febbraio 2022

I consigli di Pietro Bordo ai genitori che «non riescono più a gestire i propri figli». Non comprate la loro gratitudine, ascoltateli, già quando sono piccoli.

Sempre più frequentemente si sentono papà e mamme dire “Non li gestiamo più”. Infatti dall’adolescenza in poi tanti genitori non riescono più a gestire, controllare i propri figli. Tale situazione è la drammatica conseguenza di comportamenti inadeguati da loro tenuti, con la colpevole complicità della scuola, nella fascia d’età della scuola elementare e media. Certi comportamenti negativi dei ragazzi dipendono soprattutto dalla cultura dell’impunità, che si sviluppa in tenera età in famiglia e nella società, soprattutto a scuola. La scuola in passato educava come oggi ai valori positivi comuni, ma senza il buonismo e la tolleranza eccessivi attuali, che consentono a tanti bambini di fare tutto senza praticamente averne conseguenze significative.

Ciò che più produce danni nei ragazzi e nei docenti è l’acquisizione della consapevolezza della quasi impunità, qualunque sia il loro comportamento, poiché pochi se ne occupano sul serio, anche perché non hanno strumenti per farlo. E tanti “9” e “10”, praticamente a tutti, consentono a genitori, che hanno tanto da fare e sono distratti, ed agli insegnanti, che poco vogliono fare, o non vogliono problemi con i genitori, di vivere felici e tranquilli. La causa principale per la quale chi abdica al proprio ruolo non riesce più a gestire i ragazzi sta nel fatto che genitori (e anche insegnanti) non conoscono più, o non hanno mai fatto lo sforzo di conoscere, i propri figli, o alunni, di osservarli e di dialogare con loro. Un fattore diseducativo molto importante è l’abitudine di tanti genitori di superare il senso di colpa derivante dalla consapevolezza di stare poco con i figli “comprando” la loro gratitudine, abituandoli quindi ad avere subito, a prescindere dall’averli meritati, tanti oggetti materiali, spesso costosi ed inutili.

Molti genitori stanno poco con i figli. Peccato che il tempo che loro non danno ai propri figli è ciò che essi più desiderano. I bambini crescendo, a volte soprattutto o soltanto fisicamente, potranno sempre avere tutto? Penso appaia evidente l’importantissimo, direi vitale, ruolo dei genitori e dei docenti, che dovrebbero insieme collaborare, con sicuro effetto sinergico, per educare ed istruire i bambini.

Per provare ad ovviare ai problemi sopra esposti un piccolo consiglio che, lo so per esperienza riferitami da tanti genitori dei miei ex-alunni, ha quasi sempre funzionato. Anche il papà o la mamma più impegnati possono trovare dieci minuti, possibilmente ogni giorno, o anche a giorni alterni, da dedicare ad un colloquio individuale, a quattr’occhi, col figlio. Durante questo colloquio il genitore ed il bambino si raccontano vicendevolmente, ad esempio, il fatto più bello e meno bello della giornata trascorsa; ed altro. Se ciò accade quando il bambino è piccolo, l’ideale è iniziare dai sei anni, egli si abitua a questo rapporto e quando, dall’adolescenza, il mondo esterno gli offrirà opportunità rischiose o “strane” c’è la concreta possibilità che prima di compiere una scelta pericolosa possa chiedere un parere al genitore, in quei dieci minuti. Credete, le mie parole non sono teoria ma la descrizione di quanto accaduto in tanti casi, quando il genitore ha pensato al futuro del figlio. Inoltre, me lo hanno detto tanti genitori, quei dieci minuti sono uno dei momenti più belli di qualsiasi giornata.

Scuola ideale e scuola reale

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Pietro Bordo

DATA:  26 agosto 2021

Il titolo (Scuola, rientro in classe: perché la scuola italiana non è adatta al digitale) ed il “catenaccio” del mio articolo pubblicato sul Corriere li ha decisi e quindi scritti la caporedattrice del “Corriere”.

Il mio titolo è "Scuola ideale e scuola reale"

Aule senza connessione, docenti impreparati: non bastano i fondi, ma ci vuole un progetto di didattica che privilegi la presenza e il ruolo dei docenti

Ho letto con interesse l’articolo del professor Paolo Ferri sulla prospettiva che le innovazioni che il digitale ha portato nelle scuola durante i mesi della Dad vadano perse se si torna semplicemente alla scuola in presenza come è stata fino a prima della chiusura per Covid. A me che insegno da tanto tempo in una scuola primaria risulta difficile immaginare come si possa ridurre la «socialità in presenza», che tanti studi scientifici considerano ormai fondamentale per lo sviluppo non solo relazionale, ma anche intellettivo di un ragazzo. Tutti gli studi scientifici sulla relazione significativa fra docente e discente concordano che essa è «conditio sine qua non» per un apprendimento significativo. Anche se realizzarla non è facile, richiede molta empatia e conoscenze tecniche per rapportarsi bene con il bambino; e soprattutto la vicinanza fisica.

 

Le difficoltà

Riguardo alla necessità di rendere permanente e definitiva la digitalizzazione e l’innovazione metodologico-didattica nella formazione concordo con Ferri anche se questo approccio richiederebbe che prima tutte le scuole italiane fossero come quella che lui immagina. Nella mia scuola, elementari e medie, semiperiferia di Roma, le aule a volte sono dipinte dai genitori e le finestre hanno ancora gli infissi di settanta anni fa. Ogni volta che tento di aprire o chiudere una finestra allontano i bambini per paura che qualche vetro si rompa. Per mesi in circa cinquanta docenti abbiamo avuto a disposizione un solo bagno; e la situazione potrebbe ripetersi in qualsiasi momento. Il collegamento internet è solo una speranza ogni volta che si tenta di effettuarlo. Alcune volte ho dovuto usare il mio cellulare come hot spot. Prima della chiusura della scuola di marzo 2020 causa Covid, a gennaio abbiamo fatto gli ultimi scrutini con la presenza fisica dei docenti in un’unica aula. Abbiamo ovviamente usato il registro elettronico, quindi online, con un portatile vecchissimo il cui sistema operativo era addirittura Windows XP. E la Lim non è in tutte le aule. Meno male che la mia scuola ha un’animatrice digitale che sta cercando con successo di attenuare i problemi facendo miracoli, con fantasia e una grande dedizione al suo lavoro, dedicandogli molto più del tempo di quanto previsto dal contratto.

 

Il rebus del digitale

Da quello che mi dicono le mie colleghe di altre scuole di Roma e del Lazio, la situazione negativa descritta sopra è diffusissima. Nella mia scuola, e non solo, molti bambini e ragazzi hanno fatto la Dad con il cellulare del genitore. Molti non hanno potuto avere alcun aiuto da genitori del tutto impreparati, tecnologicamente abili solo a chattare su WhatsApp. Inoltre, i docenti non possono passare tutto il giorno ad insegnare. Anche poiché a volte ricevono richieste di restare ancora a scuola, oltre l’orario di servizio, per «coprire» classi senza docente. Il digitale non ha aumentato le opportunità dell’apprendimento a scuola. In realtà l’unica cosa che ha aumentato molto è la già notevole differenza fra gli alunni, quelli con famiglia colta e benestante alle spalle e quelli senza. Per quanto riguarda l’utilizzo di strumenti digitali di «aumento» della didattica posso affermare che né io né tutti i colleghi ai quali ne ho chiesto notizia li conoscono. Conoscono invece tutti i problemi dei device inadeguati, delle connessioni precarie, delle assenze degli alunni dalle lezioni. Un mio collega ed amico dell’istituto tecnico mi ha riferito di assenze dell’ordine del 30%. So per certo che tanti genitori hanno impedito ai bambini di esprimersi liberamente durante la Dad standogli a fianco, fuori dal campo della webcam. Ad un genitore durante una lezione a distanza ho dovuto addirittura dire di non tenere il bambino, di otto anni, sulle ginocchia e di lasciarlo da solo.

 

L’importanza dei docenti

Sull’importanza della didattica frontale vorrei evidenziare che qualsiasi attività primaria dell’uomo, non solo quella scolastica, da sempre è stata soprattutto frontale. Solo che c’è stata quella fatta male e quella fatta bene. La differenza a scuola non la fa il metodo, ma l’uomo, il docente. La comunicazione verbale veicola una minima parte delle comunicazioni che si scambiano due persone fisicamente presenti nello stesso ambiente; figuriamoci se le due persone si relazionano tramite computer. L’opinione che un passato migliore non è mai esistito mi pare perlomeno azzardata. E tutte le menti brillanti che popolano il nostro Paese, o che hanno portato la loro intelligenza all’estero, hanno studiato nel futuro? O su un altro pianeta? O forse alla scuola privata? Ecco, quest’ultima opzione mi sembra la meno lontana dalla realtà, non dimenticando che anche nella scuola pubblica tanti docenti hanno svolto un ottimo lavoro, nonostante le notevoli difficoltà. Sono molto d’accordo che il capitale d’esperienza va valorizzato e messo a sistema, non demonizzato. Ma prima bisogna che le scuole frequentate dalle persone che non possono spendere seimila euro l’anno per l’iscrizione di un figlio (la maggioranza assoluta delle persone) siano messe almeno in sicurezza (non solo per il covid), con un’igiene minima garantita quotidianamente (dovreste sapere quanto tempo hanno i collaboratori per pulire un’aula…) e con la presenza di un numero adeguato di docenti. Quante volte l’anno scorso qualche classe era scoperta, soprattutto il venerdì pomeriggio; e non posso dirvi la soluzione attuata; una volta anche io l’ho fatto per non lasciare soli i bambini di una classe. Non serve a niente dire «diamo due miliardi alla scuola»; serve che vengano spesi bene ed in fretta.

26 agosto 2021 (modifica il 26 agosto 2021 | 17:30)

 

La scuola elementare a.C. e d.C. (ante covid e durante il covid)

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 27 maggio 2021

IL RACCONTO

Scuola e Covid, come si misura la fatica dei bambini alle prese con le nuove regole?

La scuola elementare a.C. e d.C. (ante covid e durante il covid)

Un maestro elementare: silenzio in mensa, sanificazione delle mani e mascherine. Educazione motoria al banco: quando si potrà tornare alle vecchie abitudini?

di Pietro Bordo*

*maestro in una scuola elementare di Roma

Come è cambiata la scuola elementare con il Covid? Che cosa abbiamo imparato in questi mesi in cui gli istituti per i più piccoli sono rimasti comunque aperti, ma con regole di sicurezza contro la pandemia che hanno modificato radicalmente la vita in classe. Ecco la testimonianza sul campo di Pietro Bordo, maestro elementare.

(A.C., Ante Covid) Fino a febbraio 2019 i bambini entravano nell’edificio scolastico da soli e andavano verso l’aula tutti insieme, salendo le scale con un parlottare vivace, allegro; sorridendo e scherzando.
(D. C., Dopo Covid) La maestra (la presenza maschile statisticamente è quasi insignificante in Italia) aspetta la sua classe all’ingresso; l’unica classe ad entrare in quel momento. Fra i bambini c’è sempre allegria, ma il continuo «distanza!» pronunciato dalla maestra la smorza. E la mascherina ne limita la visibilità. Eppure annullare la distanza fisica fra di loro, l’«appiccicarsi» è una delle azioni che più naturalmente i bambini vorrebbero fare. Nessuno scherza.

 

Le nuove regole, ognuno per sé

a.C Dopo aver camminato, a volte corso, per i corridoi, vociando allegramente, lasciavano i giubbotti fuori dell’aula, disfacevano lo zaino e andavano a sedersi, attendendo l’inizio delle lezioni. Con tanti che si avvicinavano ai compagni e raccontavano nell’orecchio chissà quali segreti, con certi sguardi…
d.C. Camminano nei corridoi in fila, con la maestra; parlando, ma non con l’allegria di prima. Davanti all’aula si celebra il rito della sanificazione: la maestra distribuisce il liquido miracoloso, che dovrebbe tranquillizzare tutti ma in realtà tiene vivo il pensiero del pericolo Covid ed intristisce i bambini. I giubbotti si portano in aula e si mettono sullo schienale della propria sedia. E da ora nessuno può più muoversi. Fuori orario, si può andare al bagno solo in casi eccezionali.

 

Tutti chiusi al proprio banco

a.C. Era bello ed educativo per i bambini durante le lezioni scambiarsi gli oggetti di uso comune o prestarsi quelli mancanti o dimenticati a casa: libri personali, matite, penne, gomme per cancellare, fogli di carta.

d.C. È vietatissimo: ognuno «chiuso» nel suo banco, senza nemmeno poter condividere il libro con chi se l’è scordato e quindi non può seguire la lezione. E se qualcuno ha dimenticato l’astuccio il problema è irrisolvibile. a.C. La maestra girava tra i banchi, si avvicinava a chi era in difficoltà e gli sussurrava una parola d’incoraggiamento all’orecchio; e c’era una carezza, un contatto fisico, con tutti. I bambini ne hanno un grande bisogno.

d.C. Teoricamente non si può fare nulla di quanto appena detto, io lo faccio, ed il bambino sente la lontananza della maestra e la carenza di una modalità di rapporto alla quale è sempre stato abituato e che gli è innata. E, dicono gli psicologi e lo vedono le maestre nei loro occhi, ne soffrono tanto e ne sono destabilizzati.

a.C. Durante la ricreazione in aula era bellissimo vedere il formarsi, con continue variazioni, di gruppetti di bambini che giocavano, si scambiavano confidenze, programmavano e realizzavano giochi fantastici, si mostravano disegni fantasiosi. E all’aperto, nonostante gli ampi spazi, spesso c’erano gruppi vari di bambini a distanza ravvicinata; oltre che intenti a giocare a rincorrersi.

d.C. Teoricamente dovrebbero stare seduti anche durante la ricreazione, ma io e gli altri docenti del mio team li facciamo alzare, a patto di stare ognuno dietro la sua sedia. Che tristezza infinita. Ed alcuni bambini si igienizzano ripetutamente le mani con il liquido portato da casa.

 

A pranzo come i monaci

a.C. e d.C      I trenta minuti del pranzo sono più o meno gli stessi. La differenza fondamentale è che sconsigliamo ai bambini di parlare quando sono senza mascherina e le distanze fra i commensali sono maggiori di prima, quando erano tutti molto vicini, a pochi centimetri; come in un pollaio. Per chi passa tante ore al giorno con i bambini è facile immaginare quanto soffrano del distanziamento fisico, che per fortuna non è «sociale», come ignorantemente (nel senso etimologico) detto da tanti da ormai più di un anno. E la scienza lo conferma: secondo uno studio dell’Università della California, c’è una prospettiva psicodinamica che vede nella creazione dei legami sociali ravvicinati una delle condizioni indispensabili per permettere l’evoluzione del pensiero e, soprattutto, della personalità.

 

Il gioco dell’oca

Qualche giorno fa, poiché non possono spostarsi dal loro banco neanche durante la ricreazione, ho inventato il gioco del salto: tutti dietro la loro sedia a saltellare e chi si ferma per ultimo ha vinto. A loro piace moltissimo. Ovviamente appena vedo il primo che sta per fermarsi fermo tutti: tutti vincitori. Poi si inizia di nuovo. Così fanno «motoria» e si distraggono. E la mascherina per otto ore è un vero sacrificio per tutti. Lo è anche per me, che al massimo la devo portare per sei ore, un giorno alla settimana. Non voglio immaginare fra poco, quando nelle aule la temperatura salirà di molto… Quante volte devo dire, con mio grande dispiacere, «tira su la mascherina». Mi fanno una tenerezza infinita. Qualche giorno fa evidenziavo l’importanza delle misure per uscire dalla pandemia e una bambina di otto anni mi ha detto: «Ma se è passato più di un anno e siamo tornati al punto di partenza, come nel gioco dell’oca!». Non so se questa frase sia stata «farina del suo sacco», ma di certo mi ha fatto molto riflettere.

27 maggio 2021 (modifica il 27 maggio 2021 | 09:16)

 

 

I miei poveri piccoli alunni ancora senza banco individuale

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE:  Pietro Bordo

DATA: 24 novembre 2020

Caro Corriere,

                               non so se lo sai, ma i banchi individuali, che dovevano essere disponibili all’inizio dell’anno scolastico, «al massimo alla fine di ottobre», ancora non ci sono; sicuramente nelle tre classi della scuola primaria nelle quali insegno io, ed in tutte quelle che ho visto passando nel corridoio del mio piano (plesso Piccinini dell’Ic A. Fraentzel Celli). E manca poco a dicembre. Per i bambini è un disagio notevole stare sul lato corto del banco e la distanza di sicurezza in aula non è garantita.

E da poco al disagio per i banchi individuali mancanti si è aggiunto quello per le mascherine, da portare per sette ore! Io dopo tre ore entro in sofferenza. Poveri bambini, che tenerezza mi fanno.

Tu, caro Corriere, puoi segnalarlo a chi di dovere? Grazie.

La giusta distanza a scuola dovrebbe già esserci (per legge)

FONTE: Il Sole 24 ORE

AUTORE:  Pietro Bordo

DATA:  16 aprile 2020

In ognuna delle mie due aule di scuola primaria dove insegno (oggi quasi tutti i maestri hanno almeno due classi) ci sono 22 bambini ed il rapporto superficie/alunno è 1,5mq.
Per legge dello Stato italiano (Dm del 18 dicembre 1975, recante norme tecniche relative all'edilizia scolastica, ancora in vigore in quanto richiamate dall'articolo 5 comma 3 della legge 23/96) dovrebbe essere non inferiore a 1,8. Quindi 1,8 x 22=39,6mq: la mia aula dovrebbe avere una superficie di 39,60 metri quadrati.
Invece è di 33mq circa, una bella differenza. E in aule uguali alla mia ci sono ancora più alunni.

In un'aula a norma di legge i miei bambini potrebbero stare, ipotizzando un'aula di dimensioni 6,3 x 6,4 (superficie circa 40mq), tranquillamente alla distanza di un metro l'uno dall'altro, ovviamente se anche i banchi fossero singoli, come invece non sono.
Sono consapevole che i miei dati sono relativi e parziali, ma so, da quello che mi dicono tante giovani colleghe che annualmente sono state spostate in varie scuole, che la situazione è più o meno simile in altri edifici scolastici.

A mensa il problema della distanza si acuisce. I miei bambini mangiano quasi spalla a spalla fra di loro e dietro, a pochi centimetri, hanno quelli di un'altra classe.
Sarebbe bello se qualcuno avesse dati su base nazionale e mi potesse smentire. Ne sarei felice. Ma mi pare un'eventualità poco concreta.

In ogni caso la legalità non è un fattore statistico: tutti i bambini hanno diritto a classi vivibili ed a mangiare non come in un pollaio.
Se qualcuno avesse osservato le leggi in passato, e se qualcuno fosse intervenuto quando non accadeva, potremmo avere gli alunni al distanziamento imposto dal Coronavirus; anzi, maggiore, senza problema alcuno. E soprattutto avremmo sempre avuto ambienti scolastici vivibili per i bambini.

* docente

Bambini: futuri uomini o futuri robot?

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 2 ottobre 2019

Questo che sta per iniziare è il mio quarantasettesimo anno di insegnamento nella scuola primaria, la scuola elementare (quattordici anni nella parificata, ventuno nella paritaria “d’elite” e dodici  nella pubblica), tutti a Roma. Con il testo che segue vorrei semplicemente evidenziare quello che è, a mio avviso, oltre alle ordinarie competenze professionali specifiche, l’elemento fondamentale per riuscire ad insegnare qualcosa ai bambini: una buona relazione significativa fra docente e discente.

 

Prima dell’inizio del mio primo anno d’insegnamento il direttore della parificata mi disse: “Ricordati che non potrai insegnare nulla ai bambini se non li amerai. Ma non basta: loro lo dovranno capire; aiutali a capirlo”.

Mi sembrava un’affermazione esagerata, ma nel corso degli anni ho sperimentato che era vera.

Qualche anno dopo non mi ha stupito leggere una relazione scientifica che diceva che è praticamente impossibile insegnare qualcosa agli alunni se fra docente e discente non si instaura una relazione significativa per la quale il bambino capisce che è accolto, accettato, amato a prescindere da qualsiasi altra considerazione.

Ho imparato che per realizzare questa relazione bisogna parlare al bambino individualmente, dandogli attestati di affetto, stima e fiducia. Soprattutto bisogna saperlo ascoltare, rispettando i suoi tempi comunicativi. Ogni bambino con il quale l’ho fatto (sono ormai migliaia) ne è stato felice e successivamente lui mi ha chiesto di parlare in privato, confidandomi problemi e gioie, piccole e grandi, di scuola e di casa. Ovviamente le gioie le abbiamo condivise e per i problemi abbiamo cercato insieme le possibili soluzioni. Ed i genitori sono stati informati di questi colloqui, dai quali spesso sono venuti a sapere ciò che nemmeno immaginavano, soprattutto paure del bambino che a volte non avevano motivo razionale di esistere ma lo angosciavano.

In alcuni casi ci sono stati problemi veri. Ricordo che molti anni fa un bambino, durante un colloquio in privato, dopo che gli ebbi chiesto come andavano le cose mi disse che la notte faceva sogni molto brutti, che si svegliava urlando e la mattina seguente era agitato, angosciato. Gli chiesi di che sogni si trattasse. Me li raccontò ed io gli dissi semplicemente che come erano venuti forse se ne sarebbero andati. Il giorno dopo volle parlare in privato e sorridente mi disse che i sogni erano spariti e quella mattina si era alzato felice. E le notti successive i sogni brutti non tornarono.

Quanto detto si realizza già in prima, con i bambini di sei anni, ed il contributo alla crescita personale e culturale del bambino è straordinario. I risultati scolastici hanno sempre tratto grande beneficio da questa relazione significativa, che non fa miracoli ma aiuta molto i bambini a dare il meglio di sé, poiché li motiva fortemente, li fa sentire importanti e sicuri che c’è chi è disposto ad aiutarli, a casa ed a scuola.

Ho trovato l’ennesima conferma di quanto anche a scuola le relazioni umane siano importanti studiando, e quindi “conoscendo”, Giovanni Bollea, un umanista della neuropsichiatria, padre riconosciuto della neuropsichiatria italiana, morto nel 2011.

In effetti Bollea attribuiva una grandissima importanza all’azione educativa degli adulti (insegnanti e genitori); considerava la società e il mondo degli adulti come responsabili nel prevenire il disagio, la sofferenza e anche le psicopatologie nello sviluppo dei bambini e degli adolescenti. Giovanni Bollea aveva una concezione aperta e globale del suo stesso lavoro clinico e credeva molto in un approccio integrato tra neuropsichiatria, educazione e azione sociale. Senza trascurare una analisi dei fattori neurobiologici per comprendere il comportamento dei bambini, attribuiva tuttavia una attenzione particolare agli aspetti psico-affettivi e socio-relazionali del suo sviluppo.

Pensava che insegnanti e genitori possono fare molto per prevenire il disagio e le psicopatologie. “Le madri non sbagliano mai” e “I genitori grandi maestri di felicità” sono diventati due bestseller. Essi affrontano la questione dell’educazione dei bambini e degli adolescenti con l’ottica di prevenire il disagio e i percorsi destrutturanti della personalità.

Era convinto che lo scopo dell’educazione è “la gioia di vivere insieme”. Ciò è molto di più del semplice educare, del guidare verso uno sviluppo armonico della personalità o l’acquisizione di una buona cultura».

Bollea staccò la neuropsichiatria infantile dalla medicina pediatrica mostrando che la sofferenza del bambino non è mai del tutto riconducibile ad una base organica. Secondo lui sono le relazioni umane a curare e ad avere bisogno di essere curate; e questo anche quando la malattia ha un’origine organica e genetica. Attribuiva una grandissima importanza alle relazioni sociali e affettive in qualsiasi progetto psicoterapeutico.

Bollea credeva molto nel ruolo educativo e anche terapeutico del contesto di vita. Giovanni Bollea consiglia ai genitori, ed immagino anche ai docenti, di parlare con i ragazzi e di ascoltarli; raccomanda anche ai genitori di fare il racconto della loro vita, di creare davvero una relazione basata sul dialogo.

 

Nel mondo scolastico ormai caratterizzato da un tecnicismo esasperato (DSA, BES,…), per il quale a volta invece che di bambini mi sembra di parlare di robotini, con i relativi software (uno per ogni materia), purtroppo tanti si dimenticano che il primo e più importante lavoro si compie nel "cuore dell'uomo" e il modo con cui questi si impegna a costruire il proprio futuro, fin da bambino, dipende del rapporto instaurato con chi lo dovrebbe aiutare a crescere, sotto tutti i punti di vista, rispettando la sua libertà; e dipende anche dalla concezione che ha maturato di se stesso e del suo destino.

 

Per comprendere il bullismo bisogna saper guardare alle radici

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 7 giugno 2018

I recenti fatti di cronaca, docenti oltraggiati da ragazzi, ripropongono con forza il tema del bullismo, che si manifesta ormai verso ogni persona ritenuta debole, adulto o minore.
La maggioranza assoluta di commenti sono di persone che dell'albero del bullismo vedono solo le foglie, e propongono soluzioni ad esse rivolte. Ignorano completamente le radici, mentre è proprio lì che bisogna agire, prima che la pianticella diventi un albero.

Queste persone non godono dell'osservatorio privilegiato che ho io: da quarantaquattro anni trascorro ventidue ore settimanali insegnando nella scuola primaria, dove nascono e crescono le radici della pianta del bullismo. E quante volte vedo atteggiamenti e comportamenti di bambini della fascia sei-dieci anni che, se non corretti, non è difficile prevedere che sfoceranno in atti di bullismo.

“Fai proprio schifo, sei ‘na pippa; nun te volemo più in squadra!”
Queste parole, dette con veemenza verbale, mimica e gestuale, non sono pronunciate da un ragazzo terribile di una borgata romana, ma da un bel bambino di una cosìddetta buona famiglia, generalmente educato e gentile, che sta giocando a pallone con i compagni di scuola. La sua classe è la prima primaria, quindi ha appena sei anni.
Tante volte ho sentito pronunciare queste frasi, o simili, durante i miei quarantaquattro anni d'insegnamento.
E non è l'estrazione sociale la causa di certi comportamenti che, se non osservati, o se trascurati e non curati, degenereranno successivamente nel bullismo.

Cerchiamo di capire perché accadono certi episodi e le conseguenze che ne possono derivare in funzione delle varie risposte degli adulti.
Prendendo in esame un gruppo di venti bambini che si affacciano al primo anno di scuola primaria, dal punto di vista caratteriale statisticamente possiamo notare che generalmente ve n'è un terzo eccessivamente timido e tranquillo, un terzo disinibito ed esuberante, un terzo “normale”.
Gli appartenenti al secondo gruppo sono quelli che vogliono dominare i compagni, che vogliono sempre imporre i loro giochi preferiti, che voglio sempre aver ragione durante il gioco. Se non litigano fra di loro per il predominio individuale, si coalizzano contro tutti gli altri per imporre la loro volontà.
Quelli del gruppo dei timidi e tranquilli soccombono subito tutti, senza praticamente reagire. Quindi non “divertono” i dominanti, che raramente infieriscono su di loro.
Gli altri, quelli del gruppo dei “normali”, reagiscono secondo la loro caratteristica individuale, qualcuno con forza. Sono quelli che danno maggiore soddisfazione ai dominanti, che si esaltano nel branco.

Perché un bambino esuberante si comporta così?
Innanzi tutto per una sua componente caratteriale genetica. Ma soprattutto perché non è stato aiutato negli anni precedenti.
Il primo aiuto è la presenza nei primi anni di vita di persone competenti che gli vogliano veramente bene, che lui senta vicine, e che non lo seguano solo per una remunerazione o perché non possono rifiutarsi di farlo. Persone quindi desiderose di educarlo, che siano preparate allo scopo, che quindi non lo assecondino in comportamenti capricciosi o prepotenti.
Quanti bambini passano con le tate, spesso del tutto inadeguate ad educarli, molto più tempo di quello che passano con i genitori! Oppure quanti passano tanto tempo con altre persone, ad esempio i nonni, che non hanno alcuna consapevolezza educativa e prendono decisioni senza valutarne le conseguenze. Quelle che poi si notano subito i primi giorni di scuola. O quanti bambini, ancora peggio, passano interi pomeriggi ad alimentarsi di violenza giocando con videogame che istigano ai peggiori comportamenti; oppure giocando, incontrollati, per strada ad imitare i comportamenti peggiori dei ragazzi più grandi e degli adulti, quei comportamenti dei quali la televisione riferisce con ricchezza di casi e dovizia di particolari.

Ma anche se il bambino passa tanto tempo con i genitori ma essi non educano, se trascorre i primi anni di vita prevalente con la mamma, ma essa non è preparata ad educare e segue solo il suo istinto, le conseguenze negative per la crescita sociale del bambino sono quasi sempre deleterie.
La saggezza popolare dice infatti che fare i genitori è sì il più bel lavoro del mondo, ma anche il più difficile, poiché nessuno ti insegna sul serio a farlo.

Il secondo aiuto è la presenza, sin dai primi anni di vita sociale (asilo, scuola primaria), di insegnanti motivati, preparati sul serio, non sulla carta, autorevoli e consapevoli dell'importanza della loro azione sul futuro dei bambini loro affidati.

Limitandoci al problema del bullismo, è fondamentale che l'insegnante i primi giorni di scuola spieghi serenamente, col sorriso, ma chiaramente ai bambini che a scuola ci sono delle regole; che chi non le rispetta avrà delle conseguenze negative; che la regola principale è il rispetto delle persone.

Ma tutto ciò non serve a niente se l'insegnante non sa che egli deve presenziare attivamente ad ogni attività che svolgono i bambini, soprattutto durante i momenti di gioco.
Specialmente durante la ricreazione, quanti insegnanti si riposano conversando amabilmente con i colleghi e lasciando i bambini praticamente liberi di fare e dire ciò che vogliono. Se un bambino tende ad assumere atteggiamenti negativi, l'insegnante, che vigila stando in mezzo a loro, deve subito intervenire, prima che la situazione degeneri in liti o si sviluppino situazioni di bullismo, spiegando al gruppo cosa non va, perché ed eventuali conseguenze future in caso di ripetizione dell'azione negativa. E se il fatto si ripete, deve sanzionarlo; serenamente, senza esagerare, con gradualità e progressività, ma inflessibilmente. Il bambino così acquisisce l'abitudine a controllarsi ed a rispettare i compagni.

Ovviamente per far ciò il docente deve contare sull'accordo con i genitori, sulla loro fiducia, elementi non sempre presenti.

Immaginiamo un bambino che nei primi anni di vita fa il prepotente in famiglia ed all'asilo. Arriva alla primaria dove tutti i giorni, per anni, impone ai compagni in ogni maniera la sua volontà, incrementando di anno in anno la sua forza, imparando che gode dell'impunità. Passando alle medie e poi alle superiori questo ragazzo penserà di non avere più limiti, di poter fare impunemente ciò che vuole.
Accadranno allora tutti i fenomeni di cui si occupa la cronaca; ed anche quelli meno eclatanti, ma più diffusi e dannosi come gli altri.
Non dimentichiamoci che gli interventi sui bambini più tardi si fanno e maggiore forza richiedono (ed hanno minor probabilità di successo).
In sintesi: i bambini diventano bulli se adulti impreparati ad educarli non li aiutano preventivamente.

È la cultura dell’impunità che genera le baby gang

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Pietro Bordo*

DATA: 9 febbraio 2018

Ancora più della repressione, manca un’educazione adeguata e per i ragazzi gli elementi diseducativi sono i preferiti, in quanto molto attraenti. I genitori e la scuola si rivelano molto spesso incapaci di rispondere al proprio ruolo.

Il problema delle bande di bambini, in questi giorni all'attenzione della cronaca, non ha nella repressione l'elemento risolutivo fondamentale, che è invece l'eliminazione, o l'attenuazione, della cultura dell'impunità.

La cultura dell'impunità si sviluppa in tenera età in famiglia e nella società, soprattutto, a scuola. Il ministro Minniti ne ha parlato qualche giorno fa a Napoli, ma con una visione teorica, non concreta, in quanto non è il suo lavoro sapere cosa accade nelle scuole e quanto ciò che accade nella società influenza i ragazzi.

Tutti in Italia potremmo scrivere un elenco infinito di comportamenti negativi tenuti con la quasi certezza dell'impunità, o della prescrizione. Ecco alcuni di quelli che tutti i giorni attirano la nostra attenzione, dai più gravi a quelli apparentemente meno, passando per quelli incredibili.

I politici, i dirigenti o i funzionari ad ogni livello che chiedono esplicitamente o meno percentuali o altre dazioni per favori di ogni genere, a danno della collettività.
Il cittadino che butta la spazzatura fuori dei cassonetti, anche se non sono pieni; parcheggia come gli pare e butta carta o altro per strada.
I padroni dei cani che lasciano sui marciapiedi gli escrementi del loro animale.
Gli evasori fiscali che non solo non pagano la loro parte per i servizi che ricevono dai vari enti, ma ottengono “precedenze” in vari servizi pubblici rispetto a chi dichiara onestamente tutto. Caso tipico: il figlio dell'evasore va all'asilo pubblico, quello del vicino di casa onesto (che conosce bene lo stile di vita dell'altro) no.
Gli automobilisti che non lasciano passare i pedoni sulle strisce (in Spagna, ad esempio, non devi avvicinarti alla strada, altrimenti si fermano tutti pensando che tu debba attraversare).
E così via…
Uno dei motivi che determinano tale situazione è che la nostra società è ormai abituata alla mancanza di rispetto per le regole.

Perché? Ancor più della repressione, manca un'educazione adeguata e per i ragazzi (che poi diventano uomini) gli elementi diseducativi sono i preferiti, in quanto molto attraenti.

Fino a circa cinquant'anni fa erano presenti nella società, in generale, vari fattori educativi positivi.
Nell'ambito familiare, c'era almeno un genitore sempre molto presente in casa. Il ragazzo non era quasi mai da solo. Anche i nonni erano molto presenti, ed anche altri parenti. E quasi tutti educavano. Oggi i ragazzi sono spesso soli, con il cellulare ed il computer.
Un genitore presente in casa il pomeriggio è oggi un sogno per tanti ragazzi. Considerando che fino a cinquant'anni fa tale condizione è stata la norma per gli esseri umani per milioni di anni, è facilmente comprensibile come tale situazione alteri in maniera deleteria il loro equilibrio affettivo, togliendo loro serenità.

I nonni sono presenti in poche famiglie. I contatti con zii ed altri parenti sono molto limitati, rispetto al passato. Alcuni bambini sono abituati a trattare alla pari gli adulti con cui sono in contatto o che lavorano per la famiglia, pensando poi di poter esportare tale comportamento con gli altri adulti con i quali entrano in rapporto (ad esempio con i docenti).
Ed evidenziamo che i padri, per troppo lavoro, o ignoranza, spesso trascurano l'educazione dei figli e si interessano poco alla loro istruzione.
Quasi tutti si dimenticano che ciò che più vogliono i ragazzi è l'amore dei genitori, accompagnato dalla loro presenza fisica.
Nella società, molti adulti, per strada ed altrove, fino a non molti decenni fa si preoccupavano di controllare ed eventualmente rimproverare chi sbagliasse.

Oggi sono presenti vari fattori diseducativi.
Nella società, la TV, la diseducatrice per eccellenza, che quando reca poco danno intorpidisce la mente ed il cuore, generalmente propone modelli tremendamente affascinanti e vincenti, che portano i ragazzi a considerare come obiettivi fondamentali della loro vita il successo, il denaro ed il sesso, da ottenere a qualsiasi prezzo. Ovviamente se i bambini sono soli per ore a casa, o in compagnia di baby-sitter che se ne disinteressano o di nonni incapaci di gestirli, ne vedono quanta vogliono.
Internet, oggi ancor più “educante” della TV, un mare infinito, dove insieme ad informazioni utili puoi trovare, mi dicono, quanto di peggio si possa immaginare, ed anche di più. Ed immaginiamo dove la curiosità possa portare anche il migliore dei bambini, magari solo per ore ed ore a casa.

La scuola in passato educava come oggi ai valori positivi comuni, ma senza il buonismo e la tolleranza eccessivi attuali, che consentono a tanti bambini di fare tutto senza praticamente averne conseguenze significative. Oltretutto questo frustra quelli che rispettano le regole e li induce, o almeno stimola, a non farlo.
A scuola (i dati che uso li ho ottenuti dai miei nipoti; da centinaia di colleghe e da altre centinaia di alunni e genitori di varie scuole; dalle mie osservazioni dirette, poiché insegno nella scuola primaria da quarantatrè anni) i ragazzi vedono spesso cattivi esempi dei compagni e la mancanza di un intervento adeguato affinché tutti rispettino le regole positive.
Ciò che più produce danni nei ragazzi e nei docenti è l'acquisizione della consapevolezza della quasi impunità, qualunque sia il loro comportamento, poiché pochi se ne occupano sul serio, anche perché non hanno strumenti per farlo. E tanti “9” e “10” consentono a genitori, che hanno tanto da fare, ed agli insegnanti, che poco vogliono fare, o non vogliono problemi con i genitori, di vivere felici e tranquilli.

Un altro fattore diseducativo è l'abitudine di tanti genitori di superare il senso di colpa derivante dalla consapevolezza di stare poco con i figli “comprando” la loro gratitudine, abituandoli quindi ad avere subito, a prescindere dall'averli meritati, oggetti materiali, spesso costosi ed inutili. Molti genitori stanno poco con i figli per ignoranza, altri perché non possono proprio farlo, dovendo lavorare per sopravvivere. Peccato che il tempo che loro non danno ai propri figli è ciò che essi più desiderano. I bambini crescendo, a volte soprattutto o soltanto fisicamente, potranno sempre avere tutto?
Penso appaia evidente l'importantissimo, direi vitale, ruolo dei genitori e dei docenti, che dovrebbero insieme collaborare, con sicuro effetto sinergico, per educare ed istruire i bambini.

*docente scuola primaria