“Non date zucchero ai vostri bambini”: vietati fino ai 2 anni dolci e bibite gasate”

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AUTORE: ELENA DUSI

DATA: 23 agosto 2016

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Le nuove linee guida "contro" lo zucchero arrivano dagli Usa. Obiettivo: combattere l'obesità e tutelare la salute di arterie e cuore

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ROMA. Infanzia e dolcezza, è tempo di scindere il connubio. In un’epoca di obesità dilagante, ai genitori oggi si consiglia di non dare zucchero ai bambini. Il bando è totale fino ai due anni di età. E anche dopo, fino a 18 anni, non bisognerebbe superare i 25 grammi al giorno: 6 cucchiaini scarsi. La direttiva arriva dall’American Heart Association, secondo la quale non è mai troppo presto per iniziare a combattere i chili di troppo, con i rischi correlati di ammalarsi di diabete, veder proliferare i grassi nel sangue e — da grandi — compromettere la salute di arterie e cuore.

 

Privare i bambini dei dolci può sembrare una misura crudele. Ma da qualche anno ormai le autorità sanitarie nel mondo sottolineano la pericolosità dello zucchero che viene aggiunto ai cibi, soprattutto biscotti, merendine e bibite gasate (una lattina ne contiene anche nove cucchiaini, fino a un paio si possono nascondere nello yogurt, circa quattro nei cereali della colazione). L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) l’anno scorso aveva rivisto le sue linee guida, raccomandando agli adulti di non superare i 50 grammi (10 cucchiaini da tè) al giorno. Subito è stata imitata dalla Food and Drug Administration americana, che ha sforbiciato anche le sue indicazioni. La scorsa settimana, infine, la Gran Bretagna ha introdotto una tassa sulle bibite zuccherate, che entrerà in vigore nel 2018 con la promessa che gli introiti saranno usati per costruire strutture sportive o promuovere stili di vita salutari. Prima di Londra, anche Messico, Francia, Belgio e paesi scandinavi avevano intrapreso la strada fiscale per ridurre il consumo di dolci. In Italia la proposta fu sollevata nel 2012, ma senza approdare a nulla.

 

Frutta e latte, dove gli zuccheri sono presenti naturalmente, sono invece esclusi dal bando. Per quanto riguarda almeno la prima, anzi, il suo consumo viene sempre consigliato. «Nel budget delle calorie che un bambino dovrebbe assumere — spiega Miriam Vos, la pediatra e nutrizionista della Emory University che ha coordinato lo studio dell’American Heart Association pubblicato oggi su Circulation — non c’è molto spazio per quel cibo-spazzatura in cui buona parte degli zuccheri aggiunti si annidano». L’accusa che i medici muovono a bevande e merendine è infatti quella di contenere “calorie vuote”, non associate cioè ad altri nutrienti benefici per l’organismo come proteine, carboidrati, vitamine, calcio.

 

«I bambini che mangiano molti prodotti zuccherati — spiega ancora la Vos — tendono a trascurare i cibi salutari come frutta, verdura, cereali integrali e derivati del latte, che fanno bene alla loro salute». Poiché i primi anni danno forma al gusto anche per il resto della vita, abituarsi fin da piccolissimi a sapori dolci renderà difficile, una volta cresciuti, “liberarsi dal vizio”.

 

Che ai troppi zuccheri nell’infanzia vada messo un argine, d’altra parte, è quanto conferma un’indagine europea chiamata Idefics e pubblicata nel 2015. Lungi dal fermarsi ai 25 grammi al giorno, i bambini italiani fra 2 e 9 anni raggiungono quota 87 grammi (pur sempre sotto la media europea di 97), pari a una quindicina di cucchiaini e al 20% del fabbisogno di calorie giornaliere. Secondo le indicazioni dei cardiologi americani, invece, non bisognerebbe superare il 5-10%. Quattro ragazzi su dieci fra 8 e 9 anni — ha confermato l’anno scorso lo studio OKkio alla Salute dell’Istituto Superiore di Sanità — bevono almeno una bibita zuccherata al giorno, mentre uno su due si tiene alla larga dalla dolcezza naturale della frutta.

Bambini: futuri uomini o futuri robot?

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 2 ottobre 2019

Questo che sta per iniziare è il mio quarantasettesimo anno di insegnamento nella scuola primaria, la scuola elementare (quattordici anni nella parificata, ventuno nella paritaria “d’elite” e dodici  nella pubblica), tutti a Roma. Con il testo che segue vorrei semplicemente evidenziare quello che è, a mio avviso, oltre alle ordinarie competenze professionali specifiche, l’elemento fondamentale per riuscire ad insegnare qualcosa ai bambini: una buona relazione significativa fra docente e discente.

 

Prima dell’inizio del mio primo anno d’insegnamento il direttore della parificata mi disse: “Ricordati che non potrai insegnare nulla ai bambini se non li amerai. Ma non basta: loro lo dovranno capire; aiutali a capirlo”.

Mi sembrava un’affermazione esagerata, ma nel corso degli anni ho sperimentato che era vera.

Qualche anno dopo non mi ha stupito leggere una relazione scientifica che diceva che è praticamente impossibile insegnare qualcosa agli alunni se fra docente e discente non si instaura una relazione significativa per la quale il bambino capisce che è accolto, accettato, amato a prescindere da qualsiasi altra considerazione.

Ho imparato che per realizzare questa relazione bisogna parlare al bambino individualmente, dandogli attestati di affetto, stima e fiducia. Soprattutto bisogna saperlo ascoltare, rispettando i suoi tempi comunicativi. Ogni bambino con il quale l’ho fatto (sono ormai migliaia) ne è stato felice e successivamente lui mi ha chiesto di parlare in privato, confidandomi problemi e gioie, piccole e grandi, di scuola e di casa. Ovviamente le gioie le abbiamo condivise e per i problemi abbiamo cercato insieme le possibili soluzioni. Ed i genitori sono stati informati di questi colloqui, dai quali spesso sono venuti a sapere ciò che nemmeno immaginavano, soprattutto paure del bambino che a volte non avevano motivo razionale di esistere ma lo angosciavano.

In alcuni casi ci sono stati problemi veri. Ricordo che molti anni fa un bambino, durante un colloquio in privato, dopo che gli ebbi chiesto come andavano le cose mi disse che la notte faceva sogni molto brutti, che si svegliava urlando e la mattina seguente era agitato, angosciato. Gli chiesi di che sogni si trattasse. Me li raccontò ed io gli dissi semplicemente che come erano venuti forse se ne sarebbero andati. Il giorno dopo volle parlare in privato e sorridente mi disse che i sogni erano spariti e quella mattina si era alzato felice. E le notti successive i sogni brutti non tornarono.

Quanto detto si realizza già in prima, con i bambini di sei anni, ed il contributo alla crescita personale e culturale del bambino è straordinario. I risultati scolastici hanno sempre tratto grande beneficio da questa relazione significativa, che non fa miracoli ma aiuta molto i bambini a dare il meglio di sé, poiché li motiva fortemente, li fa sentire importanti e sicuri che c’è chi è disposto ad aiutarli, a casa ed a scuola.

Ho trovato l’ennesima conferma di quanto anche a scuola le relazioni umane siano importanti studiando, e quindi “conoscendo”, Giovanni Bollea, un umanista della neuropsichiatria, padre riconosciuto della neuropsichiatria italiana, morto nel 2011.

In effetti Bollea attribuiva una grandissima importanza all’azione educativa degli adulti (insegnanti e genitori); considerava la società e il mondo degli adulti come responsabili nel prevenire il disagio, la sofferenza e anche le psicopatologie nello sviluppo dei bambini e degli adolescenti. Giovanni Bollea aveva una concezione aperta e globale del suo stesso lavoro clinico e credeva molto in un approccio integrato tra neuropsichiatria, educazione e azione sociale. Senza trascurare una analisi dei fattori neurobiologici per comprendere il comportamento dei bambini, attribuiva tuttavia una attenzione particolare agli aspetti psico-affettivi e socio-relazionali del suo sviluppo.

Pensava che insegnanti e genitori possono fare molto per prevenire il disagio e le psicopatologie. “Le madri non sbagliano mai” e “I genitori grandi maestri di felicità” sono diventati due bestseller. Essi affrontano la questione dell’educazione dei bambini e degli adolescenti con l’ottica di prevenire il disagio e i percorsi destrutturanti della personalità.

Era convinto che lo scopo dell’educazione è “la gioia di vivere insieme”. Ciò è molto di più del semplice educare, del guidare verso uno sviluppo armonico della personalità o l’acquisizione di una buona cultura».

Bollea staccò la neuropsichiatria infantile dalla medicina pediatrica mostrando che la sofferenza del bambino non è mai del tutto riconducibile ad una base organica. Secondo lui sono le relazioni umane a curare e ad avere bisogno di essere curate; e questo anche quando la malattia ha un’origine organica e genetica. Attribuiva una grandissima importanza alle relazioni sociali e affettive in qualsiasi progetto psicoterapeutico.

Bollea credeva molto nel ruolo educativo e anche terapeutico del contesto di vita. Giovanni Bollea consiglia ai genitori, ed immagino anche ai docenti, di parlare con i ragazzi e di ascoltarli; raccomanda anche ai genitori di fare il racconto della loro vita, di creare davvero una relazione basata sul dialogo.

 

Nel mondo scolastico ormai caratterizzato da un tecnicismo esasperato (DSA, BES,…), per il quale a volta invece che di bambini mi sembra di parlare di robotini, con i relativi software (uno per ogni materia), purtroppo tanti si dimenticano che il primo e più importante lavoro si compie nel "cuore dell'uomo" e il modo con cui questi si impegna a costruire il proprio futuro, fin da bambino, dipende del rapporto instaurato con chi lo dovrebbe aiutare a crescere, sotto tutti i punti di vista, rispettando la sua libertà; e dipende anche dalla concezione che ha maturato di se stesso e del suo destino.