Scuola, il ritorno del corsivo. «Obbliga a usare il cervello». A Roma un alunno su 5 ha problemi nello scrivere

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: Lorena Loiacono

DATA: 1 dicembre 2023

Scuola, il ritorno del corsivo. «Obbliga a usare il cervello». A Roma un alunno su 5 ha problemi nello scrivere

Diversi Stati Usa reintroducono per legge l’insegnamento della calligrafia. In Italia prof divisi. Lucisano (La Sapienza): «Ma per i bambini è fondamentale»

È arrivato il momento della rivincita del corsivo. Per anni è stato messo da parte, considerato fuori moda, vecchio, complicato. Superato dallo stile stampato che, tipico della scrittura digitale, è di certo più semplice e veloce da imparare. Un bambino su 5 non sa scrivere in corsivo. Ma adesso è il momento di tornare a usarlo. Lo teorizzano gli esperti e lo stanno mettendo in pratica diversi Stati americani a cominciare dalla California dove, a gennaio, entrerà in vigore una nuova legge che impone l’insegnamento del corsivo a tutti i bambini delle scuole elementari. Anche i legislatori del Michigan hanno promosso un disegno di legge per spingere le scuole a insegnare a scrivere in corsivo. Nascono anche concorsi ad hoc, come il Cursive Is Cool (“Corsivo è fico”) organizzato dalla Campaign for Cursive, un progetto dell’American Handwriting Analysis Foundation.

Un ritorno al corsivo, da parte degli Stati americani, che rappresenta un dato significativo visto che proprio negli Stati Uniti, diversi stati decisero di mettere in un angolo la scrittura in corsivo. Era il 2010 quando il Common Core State Standards, una sorta di linee guida per rendere la scuola pubblica americana uguale in tutti gli Stati, ha messo da parte l’insegnamento del corsivo dai programmi e solo alcuni Paesi americani hanno continuato ad utilizzarlo. In Italia non c’è mai stata un’abolizione ufficiale ma, di fatto, gli esercizi di calligrafia sono sparito da molti anni, in gran parte delle classi elementari.

Molte insegnanti non chiedono più ai bambini di compilare pagine intere con la singola lettera dell’alfabeto, come si faceva una volta, per imparare a scriverla correttamente con le giuste proporzioni e l’attenzione nel restare nei margini. Un esercizio che, una volta, occupava le prime settimane della prima elementare e che, di fatto, oggi è sparito. O almeno non gli viene più dato tutto quello spazio. I bambini imparano a scrivere in stampatello maiuscolo e minuscolo, magari copiando lo stampato che leggono sul tablet o sullo smartphone.

 

LA CALLIGRAFIA

Il lavoro si semplifica, ma forse troppo. Per gli esperti, infatti, imparare a scrivere con una bella calligrafia porta diversi vantaggi: «Saper tenere in mano una matita con una punta ben curata o una penna - spiega Pietro Lucisano, presidente della Sird, la Società italiana di ricerca didattica, e professore di pedagogia sperimentale dell’università La Sapienza di Roma - significa essere capaci di portare avanti un esercizio di alta concentrazione. È fondamentale perché impariamo anche dai nostri movimenti: alcune attività, che comportano l’acquisizione di uno stile, hanno un impatto diretto sul cervello. Il corsivo obbliga ad usare il cervello. Così come saper dipingere usando con consapevolezza il pennello. Scrivere in corsivo rappresenta una seria complessità per un bambino di terza elementare ma gli insegna a maneggiare la penna con la giusta delicatezza. Se togliamo la gestualità togliamo anche il controllo e l’attenzione nei movimenti sottili e questo impatta sulla capacità di apprendere. È importante tornare ad insegnare a scrivere in corsivo, anche per educare i bambini al bello che, di fatto, è alla base del made in Italy che ci distingue nel mondo».

 

Oggi una percentuale sempre più ampia di alunni mostra seri problemi nella capacità di scrivere in corsivo. Uno studio portato avanti dai ricercatori del Policlinico Umberto I e dell’Università Sapienza di Roma dimostra come un bambino delle elementari su 5 non lo sa usare. Al suo posto ci sono lo stampatello e la digitazione sugli smartphone. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Occupational therapy in health care dagli studiosi Carlo Di Brina (neuropsichiatra infantile dell’Umberto I), Barbara Caravale (università La Sapienza) e Nadia Mirante (ospedale Bambino Gesù). «Abbiamo fotografato come scrive la popolazione scolastica dei bambini romani - hanno spiegato Di Brina e Caravale - e dopo quasi due anni abbiamo visto che il 21,6% di bambini è a rischio di sviluppare un problema di scrittura. Un 10% dei bambini ha una scrittura “disgrafica” ma si tratta di molti bambini: troppi per essere un disturbo».

La grafologa: “Scrivere a mano accende il nostro cervello, ma non dite ai bambini di scrivere come vogliono. Ecco perché”

FONTE: www.orizzontescuola.it

DATA: 12 maggio 2023

La grafologa: “Scrivere a mano accende il nostro cervello, ma non dite ai bambini di scrivere come vogliono. Ecco perché”

“Una cosa che riscontro molto e che mi fa arrabbiare è che nella scuola primaria molti insegnanti dicono ai bambini: scrivete come volete. Il fatto è che questo crea una gran confusione nei bambini, che non sono in grado di valutare ciò che è importante fare e scelgono quello che sembra più semplice.

Se vengono date delle indicazioni fin dall’inizio possiamo avere invece una scrittura funzionale”. La netta presa di posizione della grafologa Giorgia Filossi, grafologa dell’età evolutiva, prende le mosse dalla nostra intervista al professor Piero Crispianiprofessore onorario all’Università di Macerata e professore straordinario Link Campus University di Roma, da anni uno dei più convinti assertori dell’indispensabilità del corsivo per la formazione completa dell’individuo. Crispiani nell’affermare l’importanza dello scrivere in corsivo aveva aggiunto, in coda all’intervista, che “basta dare fogli e penne e far scrivere senza curare – all’inizio – la grafia, ma il senso, la destinazione, ovvero la base della umanità stessa e della cultura”, dando in parte l’idea che sia sufficiente far scrivere liberamente in corsivo, abbracciando una posizione spontaneistica, insomma lasciando ai bambini la libertà di scrivere come vogliono. “E’ una posizione che io non condivido”, ci spiega Giorgia Filossi: “Imparare a scrivere – precisa – è un apprendimento complesso che necessita di precise indicazioni”.

Giorgia Filiossi vive a Modena. E’ grafologa dell’età evolutiva e giudiziaria, educatrice del gesto grafico e rieducatrice della scrittura. Lavora come libera professionista, ha uno studio nella città geminiana, collabora con “Progetto Crescere” di Reggio Emilia, e in generale con scuole e associazioni culturali ed educative. Si occupa di bambini e ragazzi con difficoltà grafomotorie o disgrafie accompagnandoli in percorsi individuali di educazione e rieducazione del gesto grafico e della scrittura. Organizza e conduce corsi di formazione per insegnanti delle scuole d’infanzia, primarie e secondarie e laboratori per gli studenti. E’ docente di Educazione del gesto grafico alla scuola di grafologia “Arigraf Milano”. E’ consulente peritale di studi legali e promuove attività di orientamento per studenti e insegnanti delle scuole secondarie. E’ pure referente regionale per l’Emilia Romagna del Cesiog che ha tra i suoi obiettivi primari la costituzione di un albo per i grafologi e il riconoscimento del rieducatore della scrittura come professione sanitaria.

“La scrittura manuale – spiega Giorgia Filossi – è frutto dell’interazione tra sistema nervoso, sensoriale e motorio. L’uso della mano mantiene in forma il cervello: l’esercizio quotidiano della scrittura rafforza le aree cerebrali tanto che l’attività grafica è consigliata anche per rallentare gli effetti dell’invecchiamento cognitivo”. Una bella scommessa nell’epoca dei computer e delle tastiere. “Scrivendo a mano impariamo di più e più rapidamente. Ma non ne farei una battaglia ideologica tra mano e computer”, dice. “Preferisco soffermarmi sui tanti vantaggi della scrittura. I bambini, per esempio, imparano a leggere meglio se contestualmente viene insegnato loro a scrivere. Una parola scritta viene memorizzata e riconosciuta facilmente, cosa che non avviene digitandola soltanto. Vale anche per gli adulti. Nel prendere appunti, per esempio, selezioniamo le informazioni e le trascriviamo con parole nostre elaborandole in maniera personale. Scrivere a mano ci aiuta anche a sviluppare creatività e capacità di sintesi, a migliorare l’autocontrollo e la gestione delle emozioni”.

Il problema, secondo la professionista emiliana, riguarda soprattutto bambini e ragazzi. Esistono dei criteri ben precisi per stabilire se una scrittura va rieducata: la scarsa leggibilità, la poca fluenza e rapidità e, in alcuni casi, anche l’insorgere di dolori e affaticamento: “Credo – aggiunge – sia non più differibile la formazione specifica del personale educativo, a partire almeno dalla scuola dell’infanzia, per dare ai bambini quel patrimonio fondamentale di abilità e competenze che costituiscono i cosiddetti pre-requisiti. Alla scuola primaria, poi, andrebbe dedicato più tempo all’apprendimento del gesto grafico ad oggi sottovalutato rispetto ai contenuti linguistici.

Imparare a scrivere non avviene spontaneamente, ci vuole tempo, pazienza, gradualità e una didattica corretta, aspetti oggi molto trascurati. A scuola si scrive poco. Mancano direttive chiare che favoriscano approcci corretti e univoci. Dispensare un bambino dallo scrivere oltre che penalizzante per la sua crescita è spesso inutile: noi professionisti del gesto grafico siamo al servizio di famiglie e scuole per accompagnare e dare le corrette informazioni. Non possiamo delegare ad un tablet, uno smartphone o un pc tutta la nostra attività mentale. Cogliamo il senso di un calcolo aritmetico se lo facciamo a mente, cosa che non avviene utilizzando la calcolatrice.

Usare il correttore automatico riduce la consapevolezza dell’errore ortografico. Abusare del copia e incolla ci priva della capacità di ragionare su ciò che stiamo scrivendo. Questo vale a maggior ragione nei bambini perché influisce negativamente sul cervello in piena evoluzione, finendo per provocare difficoltà di attenzione, di memoria, di concentrazione, ansia e generale declino delle capacità di apprendimento. Scrivere a mano accende il nostro cervello molto più che digitare sulla tastiera: scrivendo su carta, gli occhi e i movimenti della mano seguono la creazione della lettera. Il corsivo è un carattere sviluppato per correre sul foglio con fluidità grazie a collegamenti che favoriscono il pensiero consequenziale.

E’ l’unico carattere realmente personalizzabile perché si impregna di tutti i vissuti e gli stati d’animo, rappresentando in maniera unica e irripetibile gli aspetti intellettivi e caratteriali dello scrivente. Lo stampatello, invece, è lento e spersonalizzato perché i tratti grafici richiedono continui stacchi della penna dal foglio.Ci sono tanti modi per mantenere viva e attiva la nostra abilità scrittoria. L’importante è non privarci del piacere di scrivere: lettere, appunti, note, scarabocchi, disegni. Non deleghiamo tutto ad un computer, ma difendiamo la prerogativa di distinguerci anche attraverso il gesto grafico”.

Dottoressa Giorgia Filossi, lei non condivide l’idea che il bambino debba essere lasciato libero di imparare a scrivere in corsivo in maniera spontanea, senza regole. E’ così?

“Non condivido quando si afferma che sia sufficiente far scrivere in corsivo abbracciando una posizione spontaneistica, perché imparare a scrivere è un apprendimento complesso che necessita di precise indicazioni. Il professor Crispiani, che conosco, avendo seguito vari seminari, ribadisce questo concetto, ma nella parte finale dell’intervista fa capire che è importante che i ragazzi scrivano indipendentemente dal fatto che debbano seguire una metodologia. Io mi trovo in contrasto con questa tesi. Per il percorso duale che ho fatto, sia di studio, sia di rieducazione della scrittura, io vedo che la didattica è fondamentale, perché la scrittura si può personalizzare”.

Ci faccia capire meglio

“La scrittura attraversa tre fasi fondamentali. La prima è la pre-calligrafica, che è dedicata all’apprendimento, segue il modello presentato a scuola e dura i primi due anni. Poi c’è la fase calligrafica in cui il bambino sperimenta il modello, si rafforza e diventa sempre più abile, tanto che in virtù di questo passa alla fase post-calligrafica. Se però nelle fasi precedenti ci sono stati degli intoppi, cioè se il modello non è stato acquisito, se non sono state superate quelle difficoltà, allora non si riesce a passare alla fase della personalizzazione, perché le difficoltà non consentono l’automatizzazione della scrittura perché nel momento in cui la scrittura è automatizzata non pensiamo più a come eseguiamo i grafemi, in quel momento la nostra scrittura si impregna degli aspetti emotivi individuali della persona, segue un percorso neurologico nuovo, diventa una scrittura capace di esprimere la personalità dell’autore”.

Un po’ come nella lettura?

“No. Mentre la lettura è un apprendimento che può avvenire spontaneamente, qui questo non succede: qui ci vuole un insegnamento, che significa dare delle regole di esecuzione che riguardano il punto di partenza, la direzione, i collegamenti tra le lettere e dove eseguire gli stacchi. Tutto questo però va fatto secondo un criterio, altrimenti, se lasciato al caso, succede che la scrittura viene eseguita come se si trattasse di un disegno. Solo se diamo delle regole iniziali possiamo ottenere poi una scrittura funzionale. Che non significa bella. Significa scorrevole, significa avere una scrittura che non crea fatica, che non crea dolore in chi scrive, che sia leggibile”.

Le scuole, secondo lei, sono consapevoli di questa necessità?

“Una cosa che riscontro molto e che mi fa arrabbiare è che nella scuola primaria molti insegnanti dicono: scrivete come volete. Ma questo crea una gran confusione nei bambini, che non sono in grado di valutare ciò che è importante fare ma scelgono quello che sembra più semplice. Se vengono date delle indicazioni fin dall’inizio possiamo avere una scrittura funzionale”.

Ci sono però dei bambini che presentano evidenti difficoltà

“E’ vero, ci sono dei bambini che hanno delle oggettive difficoltà. Ma a quel punto, quando sono stati individuati, abbiamo ripulito il quadro facendo una netta distinzione tra quelli che hanno una didattica corretta e hanno imparato e quelli che nonostante la didattica corretta hanno delle difficoltà. In questi casi è doveroso fare una valutazione di disgrafia, perché significa che il bambino ha delle caratteristiche a livello neurobiologico che rendono difficile raggiungere un livello funzionale di scrittura”.

E a quel punto quanto si può fare per questi bambini?

“Diciamo che oggi ci sono moltissimi bambini che hanno difficoltà. Ci sono quelli che non hanno avuto una didattica adeguata – aggiungiamoci anche i problemi causati dal Covid – e poi ci sono quelli che hanno delle difficoltà che sono superabili. Con tutti si riesce ad avere risultati, ma alcuni non riusciranno ad avere una scrittura funzionale nonostante i miglioramenti. Questi avranno bisogno di un’attenzione diversa e misure dispensative e compensative”.

Quanto conta avere frequentato la scuola giusta, da questo punto di vista?

“Io vedo una differenza tra bambini che hanno avuto la fortuna di fare un percorso scolastico buono – e in questo caso si vede che il bambino ha una buona gestione dello spazio del foglio, adotta delle direzioni funzionali nello scrivere – e bambini che sono completamente disorientati del tutto. Che non si sanno muovere nello spazio del foglio. Ad esempio non rispettano le righe e i quadretti, con il risultato di avere un foglio molto confuso. Il sapersi muovere male nello spazio del foglio ha sempre come corrispettivo una difficoltà di muoversi nello spazio in cui ci si muove normalmente”.

Che cosa vuol dire?

“La partenza dell’apprendimento dovrebbe partire nella scuola dell’infanzia, con il muoversi nell’ambiente circostante come prerequisito per muoversi sul foglio”.

Lo si fa?

“Lo si fa in maniera poco consapevole. Si fanno tante attività casuali e non sempre consapevoli. Ma il lavoro che si fa all’infanzia è fondamentale per poter lavorare bene alla primaria. Prendiamo ad esempio il problema dell’impugnatura: questo è un aspetto che non viene considerato, e invece andrebbe impostato già dalla scuola dell’infanzia, ma non solo insegnando al bambino come si fa ma facendo fare attività che gli rendano naturale impugnare in maniera corretta, si apprende attraverso l’esperienza”.

Lei ritiene che occorra iniziare a scrivere nell’età della scuola dell’infanzia?

“No, a quell’età occorre creare i prerequisiti per arrivare alla scuola primaria con un bagaglio valido, in modo che diventi più semplice. Invece oggi i bambini non sanno più usare le mani perché nel frattempo non giocano fuori, fanno giochi tecnologici e tocca poi a chi fa rieducazione farglieli fare. Occorrere praticare giochi di manipolazione che rendano le mani più abili, fare dei nodi o anche semplicemente strappare lo scotch con le dita ma non lo sanno fare. Il bambino inoltre viene spesso imboccato dalle mamme. E invece è importante imparare a impugnare correttamente una posata. Se non s’insegna a impugnare bene una posata un bambino non saprà impugnare una matita. Un po’ il genitore si sostituisce al bambino per motivi di fretta o di timore, i genitori sono apprensivi e questo fa sì che il bambino sperimenti sempre meno cose”.

Servirebbe una cultura diffusa su questi temi

“Come associazione professionale dei grafologi, il Cesiog, stiamo lavorando sul fronte dell’informazione ai docenti e ai genitori. E anche sul fronte del lavoro di rieducazione della scrittura. La nostra è una professione spesso sconosciuta mentre ci sarebbero le possibilità di recupero di tante difficoltà evitando tante diagnosi di disgrafia, che invece lievitano. Dopo la diagnosi di disgrafia spesso si dice: scrivete come volete, usate il pc…Tante volte sarebbe sufficiente invece fare un recupero e un potenziamento della scrittura e ci sarebbero meno costi sociali perché appena ci sono delle difficoltà vengono attivate le visite presso la Neuropsichiatria.

Ma anche in quell’ambito la nostra figura non viene riconosciuta e allora che succede?”

Che cosa succede?

“Il bambino viene visitato da uno psicologo, viene fatta la diagnosi ma la figura non solo non viene coinvolta ma nemmeno viene suggerita. La professione viene riconosciuta, certo, ma non è vista come una professione sanitaria. La nostra associazione da anni si batte perché venga istituito un albo dei grafologi, mentre in altri ambiti come quello forense la professione è riconosciuta e apprezzata”.

Il tutto si inserisce in un’epoca che vede come protagonisti i pc, le tastiere, gli schermi, le tecnologie sempre più sofisticate…

“E’ ovvio che l’utilizzo del pc è per tutti fondamentale, ma questo non significa che il pc debba sostituire la scrittura. Il fatto è che dobbiamo far usare meno schede, meno penne cancellabili e dobbiamo invece fare usare strumenti più idonei. Nella scuola dell’infanzia ci vogliono meno pennarelli perché non aiutano a imparare la gestione della pressione e l’accuratezza del gesto. I bambini colorano senza stare attenti al rispetto dei bordi: con degli strumenti più idonei si sarebbe un aiuto maggiore ai bambini anche perché alla primaria non ci sono indicazioni sui quaderni da usare, nel senso che ci sono insegnanti che insegnano lo stampato sulla riga e il corsivo nel quadretto perché non ci sono delle direttive”.

All’università queste cose vengono insegnate?

“All’università non ci sono esami che riguardino la didattica della scrittura e questo ce lo dicono le insegnanti che sono preparate sul tema”.

Proviamo a dare un paio di consigli utili ai genitori

“Innanzitutto occorrerebbe dare ai bambini l’opportunità di fare le cose da soli in funzione dell’età. Un bambino deve imparare ad allacciare le scarpe con gradualità, diamo il tempo di mangiare da soli, di infilare il bottone nell’asola, ci sono tanti giochi che sviluppano anche l’intelligenza, anche il gioco della palla va bene, occorre insegnare al bambino a diventare via via più autonomo. Pelare la frutta sarebbe importante ma non so quanti bambini lo sappiano fare. Certo è che nel momento in cui un bambino si sa muovere bene a livello spaziale nel proprio ambiente, acquisisce la capacità di sapersi muovere nei testi che legge e nello studiare in maniera più efficace”.

MIO COMMENTO: Lo dice anche Microsoft…      Potete trovare su questo blog l’articolo “Microsoft: la penna batte la tastiera, se scrivi a mano impari di più” nella categoria “Apprendimento”

Microsoft: la penna batte la tastiera, se scrivi a mano impari di più

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Antonella De Gregorio

DATA: 12 settembre 2016

I risultati di una ricerca neuropsicologica: l’utilizzo della penna (anche digitale) per prendere appunti, stimola le capacità cerebrali e l’apprendimento più della tastiera.

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Scrivere a mano aiuta a imparare. Più che «smanettare» su una tastiera. Lo dice una ricerca di Microsoft Italia, che ha condotto uno studio neuro-scientifico con il supporto di ricercatori della Norwegian University of Science and Technology di Trondheim.

Penna o tastiera

Ispirandosi a studi precedenti da cui risulta che prendere appunti scrivendo a mano comporta una maggiore elaborazione e selezione delle informazioni, gli esperti - Audrey van der Meer e Ruud van der Weel - hanno coinvolto un gruppo di studenti in un progetto di ricerca di due mesi, con l’obiettivo di individuare eventuali differenze nell’attività cerebrale dovute all’uso di una tastiera rispetto alla presa di appunti con la penna (anche elettronica) e le implicazioni sulla capacità di apprendimento del soggetto. Venti studenti hanno partecipato a compiti di digitazione, scrittura e di disegno, e hanno completato i lavori utilizzando i dispositivi «Microsoft Surface Pro 4» - che prevedono l'utilizzo sia della tastiera che della penna digitale - e indossando degli speciali copricapi muniti di circa 250 sensori per il rilevamento dei segnali cerebrali avanzati, per sondare le zone del cervello attivate nel corso dei compiti.

Cervello più attivo

Lo studio ha confermato che quando i soggetti utilizzavano la penna digitale si «accendevano» più parti del cervello rispetto a quando utilizzavano la tastiera. Inoltre, secondo la ricerca l’utilizzo della penna attiva aree del cervello più profonde, e questo ha effetti positivi sulla memoria e sull’apprendimento.

«La penna non deve sparire»

In un’epoca in cui sempre più studenti utilizzano ormai solamente il portatile con la tastiera per prendere appunti, gli studiosi ora consigliano di reintrodurre la presa di appunti a mano nelle scuole di tutto il mondo: «Prendere appunti a mano rende il cervello molto più efficace nell’elaborare l’apprendimento - ha dichiarato Audrey van der Meer, docente di neuropsicologia presso il Dipartimento di Psicologia della NTNU -. Spero sinceramente che questa ricerca contribuisca a riportare nelle classi l’uso della penna durante le lezioni». «Le implicazioni di questo studio sono fondamentali per gli educatori e per chi lavora nel campo dell’istruzione - ha dichiarato Alexa Joyes, Direttore di Policy, Teaching & Learning, Worldwide Education Microsoft -. Ci sarà perdonato l’errore commesso qualche anno fa, quando si pensava che la penna potesse scomparire dal nostro mondo ossessionato dalla tastiera: in realtà, è evidente che si tratta di uno strumento tuttora indispensabile, così come lo è stato per molte generazioni prima di noi».

Conta più «cosa» si impara di «quanto» si sta a scuola

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Giovanni Brugnoli

DATA: 25 agosto 2017

La scuola lascia un segno profondo nella vita dei singoli e in quella della comunità, influenzandone le qualità e le possibilità civili ed economiche.

Le nuove tecnologie, la robotizzazione e i processi di digitalizzazione della società e dell’economia, pongono alla scuola nuove sfide. Servono nuovi saperi e maggiori competenze in ambiti scientifici. In Italia occorre disseminare questi saperi sin dai primi gradi della scuola per dare, ad un numero crescente di studenti, la possibilità di affrontare quei percorsi scolastici e universitari di natura tecnico-scientifica che offrono maggiori opportunità di occupazione. Non solo materie scientifiche ma serve tornare ad insegnare la logica. Le tecnologie, infatti, ci hanno permesso di affidarla alle macchine, ai computer, e così, la generazione dei nativi digitali rischia, paradossalmente, di perdere la capacità di ragionare che è, invece, da sempre il motore del progresso. Del resto non è un caso che i test di ingresso delle migliori scuole, italiane e straniere, siano proprio basati sulla valutazione della capacità logiche e di ragionamento. Dobbiamo, rapidamente, portare la scuola italiana su questa strada, investendo sul merito degli insegnanti e mettendo finalmente gli studenti al centro delle nostre attenzioni.

Occorre evitare alle future generazioni e alla nostra società le conseguenze di un drammatico mismatch fra ciò che si sa, o si è in grado di imparare e ciò che serve sapere o saper fare. Un’economia globalizzata, infatti, muove investimenti e crea lavoro in quei territori che offrono le migliori opportunità e, non vi è dubbio, che nuove produzioni e nuovi servizi richiederanno saperi, competenza e talento. La questione, dunque, non riguarda certo il “quanto” si sta a scuola, ma, piuttosto, il “cosa” vi si impara. Se il “cosa” non diventa utile ad affrontare il futuro, stare in classe fino a 18 anni non servirà a granché. In questa ottica, non risolve, ma certo aiuta, costruire una relazione virtuosa ed equilibrata fra scuola e mondo del lavoro.

La seconda questione riguarda la riduzione da 5 a 4 anni della durata della scuola superiore. L’idea non è di oggi. Nella maggior parte dei Paesi europei, infatti, il percorso scolastico dura 12 anni mentre da noi gli anni sono 13, cosicché gli studenti italiani possono accedere all’ Università un anno dopo rispetto ai loro coetanei europei. Una sperimentazione era stata già avviata alcuni anni fa in un numero di scuole molto circoscritto ma era stata presto interrotta, anche a causa delle resistenze di chi, per convinzione o convenienza, era contrario.

Ora, meritoriamente, la Ministra Fedeli ci riprova e mostrando coraggio allarga la sperimentazione a un numero più significativo di scuole. Sulla proposta sono state già sollevate le solite obiezioni: si svilisce il bagaglio culturale degli studenti; si mette troppa enfasi sull’inserimento lavorativo. Sono argomenti sensati che vanno tenuti in conto ma che non possono impedire la sperimentazione. Alcune esperienze, peraltro, ci sono già: il Liceo Guido Carli di Brescia e l’Istituto Tecnico Tosi di Busto Arsizio e ciò dimostra che anche da noi si può fare come già fanno molti altri Paesi simili al nostro.

In ultimo, la questione più delicata e complessa che riguarda l’elevazione del cosiddetto “obbligo scolastico”. La discussione sul punto va affrontata senza pregiudizi guardando in faccia la realtà. Oggi, il 98% dei licenziati della scuola media prosegue nelle superiori e, ben oltre l’80% arriva al diploma di obbligo scolastico.

Negli anni 60, a malapena, il 30% degli studenti arrivava a terminare la scuola media. Nonostante ciò abbiamo un livello di disoccupazione giovanile sopra il 30%, fra i più elevati in Europa e sono oltre 2 milioni i cosiddetti Neet (vedi nel blog), giovani che non studiano e non lavorano. L’età media di ingresso nel mondo del lavoro nei paesi più avanzati è attorno ai 22-23 anni mentre da noi supera i 28. In questo quadro discutere della mera elevazione dell’obbligo scolastico, certo, non aiuta. Sarebbe, invece, più utile ragionare sul fatto che la scuola italiana, in molte aree del Paese, continua a non avere quel livello di qualità che permette agli studenti, alla fine dei loro percorsi di studio, di pareggiare le differenze sociali, valorizzando il merito.

Dobbiamo riconoscere che la nostra scuola rischia di diventare un fattore di divaricazione delle opportunità: chi ha più possibilità alla partenza, molto spesso termina il proprio percorso educativo con un vantaggio ancora maggiore. Chi aveva meno possibilità, si trova ancor più distaccato dagli altri. Non si risolve un problema di questa portata limitandosi a tenere in classe i ragazzi fino a 18 anni. Serve, come del resto suggerisce anche la ministra Fedeli, un lavoro paziente che metta ordine nell’offerta formativa; eviti sovrapposizioni e conflitti, come quello fra lauree professionalizzanti e formazione tecnica superiore (ITS); elevi finalmente la qualità media del nostro sistema educativo che va considerato nelle sue due fondamentali componenti: scuola e formazione professionale. Su questi temi Confindustria pone da sempre grande attenzione. Ricordo il dossier dell’ottobre del 2014, con analisi e proposte a tutto tondo e, da ultimo, il documento, “Giovani, impresa, futuro”, presentato a giugno di questanno, con una proposta organica per realizzare un sistema scolastico duale anche in Italia. Sono questioni complesse ma vanno affrontate con rapidità, determinazione e, soprattutto, grande senso pratico se davvero si vuole dare effettività ai diritti.

Mio figlio ha disturbi specifici dell’apprendimento (DSA)?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Silvia Turin

DATA: 12 aprile 2017

I DSA coinvolgono dal 3 al 5% della popolazione italiana e sono disturbi del neuro-sviluppo che riguardano le capacità di leggere, scrivere o calcolare. Fondamentale la diagnosi precoce perché i bambini che fanno il loro ingresso nella scuola non si sentano inadeguati. Con l’aiuto dell’Istituto Serafico di Assisi e la collaborazione di Giacomo Guaraldi, Elisabetta Genovese ed Enrico Ghidoni del Servizio Accoglienza Studenti con DSA dell’Università di Modena e Reggio Emilia, abbiamo stilato l’elenco dei segnali cui fare attenzione e dei singoli disturbi, con un focus su cosa fare e cosa prevede la legge italiana

I numeri

I “Disturbi Specifici dell’Apprendimento” (DSA) sono disturbi del neuro-sviluppo che riguardano le capacità di leggere, scrivere o calcolare. A livello internazionale l’incidenza di tutti i DSA varia dal 5 al 10% in relazione alle diverse lingue. In Italia sono meno frequenti (tra il 3 ed il 5% della popolazione) grazie alle caratteristiche dell’italiano in cui a ogni suono corrisponde sempre e solo una lettera e che rende ai dislessici la vita meno difficile. Più che di «sovradiagnosi» quindi, nel nostro Paese si dovrebbe parlare di «sottodiagnosi». 

I DSA non hanno le caratteristiche tipiche di una malattia: dipendono dalle peculiari modalità di funzionamento delle reti neuronali coinvolte nei processi delle abilità. Possono essere considerati caratteristiche specifiche dell’individuo, così come altri aspetti del comportamento (quali l’orecchio musicale o il senso dell’orientamento). Non è tanto il tipo di errore a caratterizzare il disturbo, ma la frequenza e costanza degli errori.

 Dislessia

Si manifesta con una difficoltà nell’automatizzare la lettura, cioè ad attivare in maniera fluente e senza affaticamento tutte quelle operazioni mentali necessarie per leggere. 

- Errori tipici sono dovuti alla difficoltà nel riconoscere grafemi che differiscono visivamente per piccoli particolari: “m” con “n”, “c” con “e”, “f” con “t”. 
- In altri casi la difficoltà riguarda suoni simili: “F/V”, “T/D”, “P/B”, “C/G”, “L/R”, “M/N”, “S/Z”. 
- Un altro aspetto riguarda la capacità di procedere metodicamente da sinistra a destra e dall’alto in basso con lo sguardo: nella persona dislessica rimane un ostacolo che si protrae nel tempo. 
- Altri errori tipici sono le omissioni di parti di parole: “pato” invece che “prato”, “futo” invece che “fiuto”. Possono verificarsi salti di intere parole o addirittura di righe intere. 
- Altre volte la sequenza dei grafemi viene invertita: “la” al posto di “al”, “cimena” al posto di “cinema”. 
- A volte ci può essere un’aggiunta di un grafema o di una sillaba: “tavovolo” al posto di “tavolo”. 
- Un altro segnale è dato dalla tendenza a completare la parola in modo intuitivo e a procedere con parole di fatto inventate.

Esistono dei segnali precoci anche negli anni che precedono la scolarizzazione e che possono essere considerati degli indicatori di rischio: ritardi e incertezze nello sviluppo del linguaggio (per esempio, alcuni tra i bambini che a 24 mesi producono meno di 50 parole svilupperanno difficoltà ad apprendere la lettura con l’inizio della scuola) o del metalinguaggio, cioè la capacità di giocare con i suoni che compongono le parole, di individuarli e manipolarli intenzionalmente. Altri fattori di rischio riguardano l’attenzione visiva e la capacità di denominare rapidamente i nomi delle cose.

 

Discalculia

La Discalculia, o Disturbo dell’Apprendimento del Calcolo, può essere considerata l’equivalente matematico della Dislessia. È una condizione che può riguardare fino al 3% della popolazione scolastica. Come si manifesta? I bambini con Disturbo dell’Apprendimento del Calcolo non riescono a fare calcoli in modo automatico, non riescono a fare numerazioni progressive e/o regressive, a imparare le procedure delle principali operazioni aritmetiche e a memorizzare quelli che vengono definiti “fatti matematici”, come per esempio le tabelline o altre combinazioni come le somme nell’ambito delle prime due decine (7+5, 9+8, etc.).

Per questi bambini non c’è differenza tra 25 e 52, oppure tra 427 e 40027 (quattrocento ventisette) o 724 in quanto, pur conoscendo i singoli numeri, non riescono a cogliere il significato dato dalla posizione di ognuno di loro all’interno della cifra totale. Alla base della Discalculia, oltre alle specifiche difficoltà in ordine alla compromissione della cognizione numerica, possiamo ritrovare anche carenze relative alle abilità visuo-spaziali, percettivo-motorie o alla memoria di lavoro. Spesso sono presenti anche lentezza nel processo di simbolizzazione, difficoltà prassiche e di organizzazione spazio-temporale.

 

Aiutare un discalculico

Per il raggiungimento degli obiettivi e l’avvio del percorso verso l’autonomia nello studio, sono disponibili diversi strumenti informatici (software e nuove tecnologie) e metodologie educativo-riabilitative. Due in particolare le strategie di intervento: 

1. la mediazione educativa, per guidare lo studente verso l’acquisizione di un metodo di studio basato su strategie in grado di promuovere l’autonomia nel calcolo, nella comprensione della quantità, nella comprensione dell’aspetto semantico, sintattico e lessicale del numero.

  1. l’approccio di tipo meta-cognitivo, per permettere ad ogni studente di riflettere sui propri processi cognitivi, accrescendo la propria consapevolezza in merito alle difficoltà e soprattutto, alle proprie potenzialità. Tale approccio prevede anche la proposta di specifiche modalità di organizzazione dello studio per ottimizzare l’uso delle risorse attenitive e migliorare la gestione del tempo. Per favorire l’apprendimento dello studente discalculico è possibile, dopo averlo fatto esercitare, permettergli di utilizzare la calcolatrice di base e concedergli un tempo maggiorato in sede di verifica.

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Già a 6 anni le bambine pensano di avere meno talento dei maschi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Antonella De Gregorio

DATA: 28 gennaio 2017

Lo studio: gli stereotipi che associano un più alto livello di prestazioni intellettive agli uomini emergono in tenera età e influenzano interessi e carriera delle ragazze. Come uscirne? Comportarsi in modo univoco da subito e puntare sul valore dell’impegno

Se il soffitto di cristallo è duro da rompere, è perché poggia su basi solidissime a pianoterra. Potrebbe essere l’abstract della ricerca di un team di studiosi delle università di Princeton, New York e Illinois, pubblicata su Science che individua il punto esatto in cui si produce quella crepa nell’autostima di una persona, che la porta a sentirsi «meno». Meno brillante e dotata di talento naturale, per esempio. Nello specifico, le femmine «meno» dei maschi.

I protagonisti

Lo studio, condotto su 400 bambini, colloca quel momento a cavallo tra i cinque e i sei anni. Prima, maschietti e femminucce chiamati a dare valutazioni sul proprio genere, danno risposte identiche; dopo - intorno ai sei anni (e ancor più dai sette) - le risposte cambiano traiettoria. Gli esperimenti fatti dai ricercatori consistevano nel raccontare una serie di storie su qualcuno che era davvero brillante, furbo, geniale, senza svelare chi fosse il protagonista. Chiesto poi ai piccoli di cinque anni di indicare, tra due figure maschili e due femminili, quale fosse, secondo loro, i bambini sceglievano quasi sempre un maschio e le bambine una femmina. Solo un anno più tardi, i maschi davano la stessa risposta e le femmine la modificavano: per lo più indicavano anche loro il maschio.

Il gioco per bambini «intelligenti»

In un altro esperimento ai bambini venivano proposti giochi da tavolo di due categorie: per bambini «molto intelligenti» e per bambini «che si impegnano al massimo». Le femmine di sei, sette anni, dimostravano di apprezzare quanto i maschi il secondo gioco; meno dei maschi il primo. Insomma, secondo uno dei ricercatori, Andrei Cimpian, docente della Nyu, con l’inizio della scuola, l’esposizione ai media, il giudizio dei pari, ai bambini viene somministrata la prima massiccia dose di stereotipi sul «genere» dell'intelligenza, e si dà loro in pasto il messaggio che il genio è una qualità più consona ai maschi. Per i piccoli (anzi, le piccole) che si vedono con gli occhi degli adulti, uno schiaffo all'autostima che si sta formando e si nutre della concezione di sé che credono di suscitare negli altri.

Strada in salita

«Sconforta vedere quanto precocemente emergono questi condizionamenti. Da lì in poi la strada è tutta in salita», ha dichiarato alla Bbc lo studioso. Che in precedenza aveva già analizzato le possibilità di carriera correlate con la percezione di doti innate predittive di successo. Risultato? Più le persone ritenevano che l’ingrediente chiave della riuscita fosse un sovrappiù di ingegno, più quella carriera diventava appannaggio maschile.

Valanga

«A cinque anni non si ragiona certo in termini di carriera, ma è come una valanga che parte da un grumo di neve grande quanto un pugno», hanno detto ancora i ricercatori. Perché l’autostima può influenzare l’apprendimento, condizionando il bambino a credere di non riuscire bene in una determinata attività, ad esempio di studio, proprio perché ha una bassa considerazione di se stesso e delle sue capacità. Ecco risolto, insomma, il peccato originale che vede ancora troppe poche donne portare avanti carriere in ambito scientifico o matematico. O studi di filosofia, fisica, ingegneria. Un problema circolare, che può condizionare tutta la vita.

L’impegno

Come uscirne? I ricercatori suggeriscono di iniziare fin da subito a comportarsi in modo univoco con i bambini, trattandoli come esseri completi. E di enfatizzare a beneficio di tutti, maschi e femmine, l’importanza dell’impegno: «Si rende di più quando è questo l’elemento cui imputare la riuscita». Una strategia che preserverebbe le ragazze e consentirebbe loro di non partire schiacciate fin dalla prima casella della vita.

Suonare uno strumento da piccoli rende il cervello più reattivo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Redazione Scuola

DATA: 11 gennaio 2017

Ricerca canadese: imparare la musica può avere effetti benefici sulle attività cerebrali, anche sul lungo periodo, e aiuta a reagire più in fretta ed essere più vigili

strumento aiuta cervello

Studiare la musica da bambini aiuta il cervello da anziani. Lo afferma uno studio dell’università di Montreal, pubblicato sulla rivista «Brain and Cognition». Le conclusioni di Simon Landry, coordinatore dello studio, e dei ricercatori che hanno lavorato con lui sono due: imparare a suonare uno strumento rende il cervello più reattivo e sensibile agli stimoli sensoriali; e può prevenire alcuni effetti dell’invecchiamento negli anziani, aiutandoli a reagire più in fretta ed essere più vigili.

 

I musicisti

I ricercatori hanno infatti dimostrato che i musicisti hanno tempi di reazione agli stimoli sensoriali più rapidi dei non musicisti. «Quando si invecchia, i tempi di reazione diventano più lenti. Sapere quindi che suonare uno strumento musicale li migliora può essere utile per gli anziani», commenta Landry.

 

La ricerca

Nella ricerca sono stati messi a confronto i tempi di reazione di 16 musicisti (che avevano iniziato a suonare uno strumento tra i 3 e 10 anni e avevano studiato musica almeno per 7 anni) e 19 non musicisti. Tutti erano seduti in una stanza silenziosa e ben illuminata, con una mano sul mouse di un computer e il dito indice dell’altra mano su una piccola scatola che vibrava a intermittenza. Il loro compito era cliccare sul mouse quando sentivano un suono da chi parlava di fronte a loro, se la scatola vibrava o se accadevano entrambe le cose. Ognuna di queste tre stimolazioni (audio, tattile e audio-tattile) è stata eseguita per 180 volte. «Abbiamo riscontrato tempi di reazione decisamente più veloci nei musicisti per tutti e tre i tipi di stimolazione - continua Landry - L’allenamento musicale a lungo termine riduce i tempi di reazione non musicali, tattili e multisensoriali». L’obiettivo dei ricercatori è capire come suonare uno strumento musicale influisca sui sensi in un modo non collegato alla musica.

I segreti del successo a scuola

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Redazione scuola

DATA: 25 ottobre 2016

Che cosa fanno i ragazzi che vanno bene a scuola: 8 regole per diventare bravi.Studiare, dormire, annoiarsi e fuggire dalle mamme tigre. Ecco i risultati degli ultimi studi sul successo scolastico degli adolescenti nel mondo.

I segreti del successo a scuola

Come usano il loro tempo gli studenti che vanno bene a scuola? E come dovrebbero usarlo? A queste due domande che preoccupano spesso i genitori degli adolescenti hanno provato a rispondere alcuni studi pubblicati negli ultimi mesi nelle riviste che si occupano di educazione e anche testate autorevoli come il Time.

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10.000 ore di studio

Secondo il sociologo canadese Malcolm Gladwell per imparare bene una qualsiasi disciplina è necessario un decennio di studio e pratica: in totale 10.000 ore.

Dormire

Secondo lo studio americano pubblicato sul giornale americano «Gifted Child Quarterly», gli studenti che hanno migliori risultati dichiarano di dormire più di otto ore per notte.

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Stare da soli

Secondo il Time, coloro che diventeranno dei leader durante l’adolescenza passano molto tempo da soli. Questo permetterebbe loro di esplorare, imparare, immaginare e anche di sognare.

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Leggere, leggere e ancora leggere

Che cosa può rendere «elastica» la vostra immaginazione? Nient’altro che la lettura, e più varia è la scelta di libri che leggete, maggiori sono le possibilità che diventiate un adulto di successo. Sempre secondo il Time, si può leggere dalla Bibbia, ai fumetti, dalla mitologia classica ai saggi di politica cercando autori anche fuori da quelli «istituzionali» suggeriti di solito dalle scuole. Anche l’enciclopedia può essere un utile esercizio, forse un po’ datato.

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Annoiarsi

Stare da soli, non fare nulla. Uscire dalla pressione della scuola e della competizione sociale che spesso durante gli anni delle superiori diventa più forte. Non usare tutto il tempo libero per fare sposrt o attività organizzate insieme agli altri. Recuperare «l’ozio» di tradizione latina, insomma annoiarsi per trovare la forza interiore per essere creativi.

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Creatività versus consumismo

Leggere, guardare un film, studiare, ascoltare musica. Sono tutte attività per divertirsi e passare il tempo, ma sono tutte «passive». Sempre secondo l’indagine del Time, gli «adulti di successo» quando erano ragazzini hanno passato una gran parte del loro tempo a costruire, creare, fare. E disfare.

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Compiti

Studiare a casa fa bene al proprio curriculum scolastico, anche se è faticoso. Lo conferma l’ultimo studio pubblicato sul blog del World Economic Forum. Avendo paragonato i migliori studenti di seconda media americani e indiani, i ricercatori hanno trovato che i ragazzini americani passano in media sette ore in più a settimana dei loro coetanei indiani giocando con videogiochi o facendo altre attività ludiche. Al contrario in India studiano un’ora in più al giorno.

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Fuggire dalle mamme tigre

Per essere degli studenti di successo però bisogna fuggire dalle mamme tigre. E’ uno degli elementi su cui concordano gli studi sui comportamenti degli adolescenti. Sia il confronto tra ragazzi americani e indiani dimostra che questi ultimi godono nei momenti di liberà di molta maggiore autonomia dei loro «colleghi» americani. Gli studenti americani che hanno voti alti di solito sono molto seguiti dai genitori (le mamme soprattutto) ma questo non rende le loro performance migliori di quelle dei ragazzi del Paese asiatico.

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Quando il miglior maestro è il compagno di banco

FONTE: la Repubblica.it

AUTORE: ALESSIA MANFREDI

DATA: 22 settembre 2011

Si chiama peer tutoring: un alunno coetaneo o leggermente più grande aiuta un bambino nello studio con benefici notevoli per entrambi sia per l'apprendimento che per la capacità di relazione. Uno studio inglese fa il punto sui risultati di una sperimentazione su larga scala, suggerendo l'adozione del metodo su scala nazionale.

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GIOCANO insieme, condividono banchi, ricreazioni e merende, emozioni ed ansie. Ma sono anche capaci di aiutarsi nello studio in modo sorprendente. E se il miglior maestro fosse un compagno di scuola? A fare il punto sui vantaggi del peer tutoring - tutorato fra pari - è uno studio inglese che analizza i risultati di un progetto sul larga scala, il più ampio finora condotto, in 129 scuole primarie in Scozia nell'arco di due anni. Da cui emerge che bambini piccoli, già dai sei-otto anni, possono beneficiare notevolmente dall'aiuto di un compagno più preparato, coetaneo o un po' più grande, che studi con loro: bastano 20 minuti a settimana a fare la differenza. 

E i risultati sono anche superiori a quelli ottenuti con metodi ben più dispendiosi, argomento chiave in tempi di tagli che non risparmiano neppure le scuole Oltremanica. Particolarmente appetibili, poi, perché lo schema è facilmente realizzabile, tanto da spingere gli autori dello studio a suggerire di applicarlo su scala nazionale come valida forma di sostegno al lavoro di insegnanti e assistenti scolastici. 

Se è un compagno ad aiutarlo nella lettura o nei compiti di matematica, un bambino impara meglio. Il peer tutoring, spiegano Peter Tymms, della School of Education della Durham University 1, e colleghi, è una forma specifica di apprendimento fra pari. Con una struttura precisa, a due, in cui uno studente più preparato fa da tutor all'altro, che può essere suo.

Più bravi in matematica con un ormone materno

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Redazione Salute online

DATA: 26 agosto 2015

Ricerca su quasi 2000 bambini seguiti dalla pancia alle elementari: la mancanza dell’ormone tiroxina in gravidanza crea problemi nelle capacità matematiche

Se vai male in matematica è “colpa” di un ormone materno. Uno studio olandese ha esaminato e seguito un gruppo di bambini dalla nascita ai 5 anni riscontrando che, in particolare, la mancanza dell’ormone tiroxina nelle loro mamme durante la gravidanza sarebbe stato poi legato a un ridotto sviluppo cognitivo dei piccoli, specie nelle capacità matematiche.

La misurazione dell’ormone tiroxina

La ricerca, pubblicata sull’European Journal of Endocrinology, condotta dal team di Martijn Finken del VU University Medical Center ha studiato 1.196 bambini sani, seguendoli dalla nascita a 5 anni. A 12 settimane di gravidanza il gruppo di studiosi ha registrato i livelli di tiroxina materni, mentre in seguito i ricercatori hanno esaminato i risultati dei test di linguaggio e capacità matematiche fatti a scuola. Gli scienziati avevano già scoperto che livelli relativamente bassi dell’ormone tiroxina nelle donne in gravidanza erano legati a un ridotto sviluppo cognitivo dei bambini. Ma finora non era chiaro in che modo questo si riflettesse sulle performance scolastiche.

I risultati dello studio

I figli delle donne con livelli bassi di quell’ormone sono risultati almeno due volte più inclini a prendere brutti voti nei test di aritmetica. Quando i ricercatori hanno tenuto conto dello status socio-economico familiare e dello stato di salute alla nascita, il rischio è sceso un po’: i bambini avevano il 60% in più di probabilità di incappare in un punteggio basso.
Nessun problema, invece, per i test sul linguaggio. «Resta da vedere - afferma Finken - se questi problemi persistono nell’età adulta. E’ possibile che questi bambini beneficino di integratori ormonali per aiutare il loro sviluppo mentale in utero - suggerisce - . Un simile trattamento però è stato tentato in passato, ma non aveva migliorato le abilità cognitive».