Psicologa Nastri: “L’uso precoce e massiccio di smartphone modifica la massa bianca del cervello…

FONTE: Orizzonte Scuola

AUTORE:  Andrea Carlino

DATA: 2 maggio 2024

Psicologa Nastri: “L’uso precoce e massiccio di smartphone modifica la massa bianca del cervello. Scuola e famiglia per costruire un rapporto sano con la tecnologia”.

A Orizzonte Scuola interviene Federica Nastri, psicologa, criminologa, pedagogista e mediatrice familiare, per un’approfondita analisi del rapporto tra bambini e tecnologia.

Nell’era digitale, l’esposizione precoce e spesso incontrollata agli schermi pone serie questioni sullo sviluppo psicofisico dei più piccoli. La psicologa Nastri ci guida alla scoperta dei segnali di un uso problematico della tecnologia, delle conseguenze a lungo termine e di strategie efficaci per genitori ed educatori.

La maggior parte dei bambini oggi entra in contatto con i dispositivi digitali già nei primi anni di vita, creando una sorta di “prolungamento” degli arti. Questo rende difficile distinguere tra un uso normale e uno problematico, poiché il problema spesso nasce dall’adulto che fornisce il dispositivo al bambino.

Come si accompagna un bambino per strada, così bisogna accompagnarlo nel mondo digitale, educandolo alla prevenzione dei rischi. Condividere esperienze personali e aprire un dialogo basato sulla fiducia può aiutare i bambini a comprendere i pericoli senza spaventarli eccessivamente. Educare i bambini alla gestione del tempo fin dalla tenera età è fondamentale per un uso sano e responsabile della tecnologia. Far sperimentare la noia e l’attesa aiuta a sviluppare la creatività, l’intelligenza emotiva e la capacità di vivere nel mondo reale.

La dipendenza digitale può influenzare negativamente il rendimento scolastico, distogliendo l’attenzione dagli obiettivi e creando difficoltà cognitive e comportamentali. La scuola, in collaborazione con professionisti della salute mentale, può promuovere un uso sano della tecnologia attraverso programmi specifici e attività che stimolino la sfera emozionale, il contatto con la natura e le persone, lo sport e l’affettività.

Dottoressa Nastri, quali sono i segnali di un’esposizione eccessiva agli schermi in bambini così piccoli? Come possono i genitori distinguere tra un uso normale e uno problematico?

Secondo gli studi più recenti, sulle abitudini in ambito tecnologico dei bambini dai 6 mesi ai 4 anni, risulta che il 96,6% utilizza media device e molti di loro iniziano a usarli già nel primo anno di vita.  Comprendiamo quindi che, a oggi, per la maggioranza dei bambini, i dispositivi elettronici rappresentano un vero e proprio “prolungamento” dei loro arti: nascono con loro, crescono con loro, si evolvono con loro inducendoli a una involuzione sotto ogni punto di vista. Fino a un decennio fa potevamo parlare dei “segnali” fondamentali affinché i genitori potessero monitorare l’uso o abuso della tecnologia; ora che l’età di utilizzo è scesa vertiginosamente ai pochi mesi, ahimè, capiamo quanto il problema non dipenda più dal bambino fin troppo piccolo per scegliere individualmente di impiegare il suo tempo muovendo le dita su uno smartphone ma dell’adulto che glielo consegna. Perciò, il tempo trascorso dai bambini molto piccoli davanti agli schermi risulta associato al modo in cui i loro stessi caregiver utilizzano la tecnologia. Pertanto, diviene complicato stabilire già per gli adulti un proprio autocontrollo all’uso, e che ne stabilisca un “uso normale o problematico”. Sicuramente, i primissimi campanelli d’allarme a cui prestare attenzione sono: reazioni spropositate di rabbia e frustrazione, costanti sbalzi d’umore, impulsi incontrollabili nel “controllare” il dispositivo, sintomi d’astinenza nel distacco dall’oggetto vissuto come indispensabile.

Quali sono le conseguenze a lungo termine di un’esposizione precoce e incontrollata agli schermi sullo sviluppo psicofisico del bambino?

Il mondo digitale, rimanda al modello stimolo-risposta, nonché qualcosa di astratto rispetto a un pensiero concreto di qualsiasi cosa. L’utilizzo precoce e massiccio di queste tecnologie, cambia il modo di organizzare la conoscenza del bambino così radicalmente da modificare la struttura della massa bianca del cervello e alterare le aree fondamentali per lo sviluppo del linguaggio, delle capacità di alfabetizzazione e delle funzioni esecutive (memoria, attenzione, inibizione, flessibilità cognitiva, pianificazione). Se il bambino impara a usare questi strumenti prima ancora di iniziare a parlare, il rischio è di focalizzare la conoscenza sullo stimolo specifico, piuttosto che sulle relazioni e interazioni tra oggetti, ciò potrà implicare anche ritardo nello sviluppo motorio, aumento di disturbi alimentari, disturbi del sonno, disturbi dell’apprendimento e disturbi comportamentali, depressione infantile, ansia, psicosi, disturbi della personalità, autismo e infine aumento dell’aggressività e violenza.

Come possono i genitori riconoscere i segnali di dipendenza digitale nei loro figli?

L’uomo è un essere sociale, geneticamente programmato per sopravvivere aggregandosi con la comunità e la tecnologia più si presta per soddisfare il bisogno di connessione degli esseri umani. Come? Estraniandoli e isolandoli. Sembrerebbe un controsenso, eppure l’isolamento, il disinteresse e la dissociazione rappresentano i segnali più profondi di una dipendenza digitale, susseguiti, come dicevamo dalla necessità di trascorrere un numero sempre più cospicuo di ore in connessione, sono sintomi depressivi o ansiosi, agitazione psicomotoria in caso di riduzione o interruzione, riduzione della vita reale e degli interessi lontani dal digitale.

Come possono i genitori parlare ai loro figli dei pericoli online in modo che li comprendano senza spaventarli eccessivamente?

Lascereste mai un bambino da solo per strada? Come gli direste che non può starci da solo? Le infinite vie di internet si snodano tra curve a gomito, discese vertiginose e salite ripidissime, e devono essere ormai considerate come un mondo “reale” e pericoloso in cui un bambino si accompagna e si sostiene. Perciò avviare alla tecnologia (preferibilmente dopo almeno i 4/5 anni) abituando al controllo costante di qualcuno e magari attraverso le app dedicate alle attività di sviluppo sarebbe già un buon modo per indirizzare ed educare alla prevenzione di rischi. Non esiste il discorso perfetto per spiegare la sicurezza informatica ai bambini ma è fondamentale che siano a conoscenza di quanto il mondo virtuale possa nascondere pericoli reali. “Sai, hanno provato a rubarmi l’identità, ed io ho…”, oppure: “Una volta mi hanno preso in giro sul web, così ne ho parlato con la mia famiglia e…”, ecc.. ecc.. questi esempi di dialogo possono rappresentare una modalità di apertura all’argomento attraverso l’immedesimazione e la fiducia reciproca, dando così non solo spiegazione delle problematiche ma anche informazioni su come difendersi.

Come si può aiutare un adolescente a gestire autonomamente il tempo trascorso online e a trovare un equilibrio sano tra vita digitale e vita reale?

È importante partire dall’infanzia ancor prima che dall’adolescenza, in modo tale da fornire già al bambino piccolo, futuro uomo, quegli strumenti adatti a fronteggiare i passaggi di crescita tanto delicati quanto fondamentali della sua vita. L’educazione al “tempo”, alla dimensione del tempo, alla gestione del tempo e all’impiego di questo sono il principio di ogni sfera umana: individuale, familiare, sentimentale, relazionale e professionale. Far sperimentare la “noia”, senza riempire il “buco”. Far godere dell’attesa, senza azzerarla uccidendo il desiderio. Spronare così alla creatività e indipendenza, sviluppare l’intelligenza emotiva, la possibilità di trasformazione, l’opportunità di evoluzione. II bambino abituato al modello stimolo-risposta avrà difficoltà a gestire il suo tempo di noia e di attesa, avvertito come “vuoto”. D’altra parte perderà il suo tempo in quanto estraniato in un mondo virtuale. Educare alla realtà, e quindi a questo “tempo reale”, è il primo passo per l’educazione alla vita digitale e a quell’equilibrio tra l’essere e il non-essere, esistere e scomparire.

Coma cambia il rendimento scolastico in giovani con dipendenza digitale? Può la scuola contribuire a promuovere un uso sano e responsabile della tecnologia tra gli studenti?

Qualsiasi tipo di dipendenza, e in questo caso nello specifico quella digitale, distrae dall’obiettivo inibendo il raggiungimento dei traguardi. Perciò un dipendente dalla tecnologia avrà come priorità estrema un mondo virtuale lontano dalla realtà e quindi lontano anche dall’interesse per le cose, le persone, le relazioni, lo studio e l’apprendimento. Sarà privato della curiosità proprio perché abituato ad un modello stimolo-risposta che è opposto alla conoscenza profonda e autentica. A ciò si aggiungono le difficoltà cognitive, comportamentali e delle funzioni esecutive alimentate dall’abuso dei dispositivi digitali che implicano disturbi dell’apprendimento e di conseguenza un abbassamento del rendimento scolastico. In particolar modo, le evidenze scientifiche dimostrano come il disturbo di attenzione e iperattività (ADHD) sia correlato a tale dipendenza. Affinchè venga fronteggiata una situazione di emergenza simile, è necessario che la scuola collabori innanzitutto con professionisti della salute mentale creando percorsi specifici per genitori/figli, genitori/figli/istituzione scolastica. Solo un costante e collaborativo monitoraggio e potenziamento della sfera emozionale, delle attività a contatto con la natura e le persone, dello sport, e della stimolazione affettiva possono promuovere non solo un uso sano e responsabile della tecnologia, ma di tutta l’intera vita dell’individuo.

Crepet: “Registro elettronico: una delle cose più abominevoli. Qual è il bisogno il bisogno di sapere dov’è tua figlia alle dieci del mattino?”

FONTE: Orizzonte Scuola

AUTORE: Redazione

DATA: 16 marzo 2024

Crepet: “Abbiamo inventato il registro elettronico che è una delle cose più abominevoli. Qual è il bisogno il bisogno di sapere dov’è tua figlia alle dieci del mattino?”

L’ansia, definita come una sensazione di preoccupazione o di timore eccessivo e persistente, è un disturbo che affligge un numero sempre crescente di persone.

Dietro a questa “grande paura dell’ansia”, come la definisce lo psichiatra Paolo Crepet, in un’intervista a Sky Tg24, si cela un vero e proprio mercato in cui proliferano diverse figure professionali, non tutte necessariamente competenti, che speculano sulla sofferenza altrui.

Un business che ruota attorno all’ansia

“C’è un mercato dell’ansia”, denuncia Crepet, sottolineando come questa dilagante paura generi profitti per molti: “Tanti che vorrebbero interpretarla professionalmente, tante persone che ci guadagnano e basta, tanti psicofarmaci…”. Il rischio è di cadere nelle mani di ciarlatani o di professionisti poco scrupolosi che, invece di fornire un reale aiuto, aggravano la situazione.

L’illusione del controllo nell’era digitale

L’ansia, secondo Crepet, è alimentata anche dalla cultura del controllo tipica della nostra società iperconnessa: “L’idea del controllo è stata intensificata con il digitale. Posso controllare chiunque, geolocalizzare chiunque. Abbiamo inventato il registro elettronico che è una delle cose più abominevoli. Qual è il bisogno il bisogno di sapere dov’è tua figlia alle dieci del mattino? Sarà dove sarà, se non è andata a scuola si sarà presa la sua responsabilità”.

Dall’estrema libertà all’estremo controllo

La generazione di oggi, cresciuta nell’era digitale, oscilla tra due estremi: da un lato l’estrema libertà e autonomia garantita dalla tecnologia, dall’altro l’ossessione del controllo che si traduce in ansia e paura. Un paradosso che genera una profonda insicurezza e una difficoltà a gestire le normali sfide della vita.

L’importanza di un approccio equilibrato

Per fronteggiare l’ansia è fondamentale trovare un equilibrio tra autonomia e responsabilità. I genitori, ad esempio, dovrebbero educare i figli a una sana indipendenza, evitando di controllarli ossessivamente. Allo stesso tempo, è importante imparare a gestire le proprie emozioni in modo sano, attraverso tecniche di rilassamento, attività fisica e, se necessario, il supporto di un professionista qualificato.

I bambini devono usare la penna, non la tastiera

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE:  Daniele Novara

DATA: 14 giugno 2021

Diversi studi scientifici dimostrano come la scrittura manuale sviluppi connessioni neurocerebrali assenti in chi batte sulla tastiera. «L’uso della penna facilita l’apprendimento perché i tempi dilatati costringono il cervello a selezionare i concetti»

Mentre la scuola si accinge alla digitalizzazione della didattica, penso sia importante mettere qualche paletto per evitare che la moda prevalga a prescindere da ogni consapevolezza scientifica, pedagogica e psicoevolutiva. Il punto più importante della questione è che ogni cosa ha il suo tempo e quello che vale per un ragazzo di 15 anni non può valere per un bambino né di un anno, né di 3, né di 5, né di 6, né di 7, né di 8. L’infanzia è una fase della vita molto particolare dove la sensorialità, l’esperienzialità, la motricità, il movimento e la socialità devono prevalere su tutto e su tutti. Dare, viceversa, la precedenza assoluta al mondo virtuale appare una scelta estremamente incauta. Fra la penna elettronica e la penna su carta quest’ultima ha il vantaggio di poter incidere su un vero materiale fisico sviluppando così, in modo più completo, le tante connessioni neurocerebrali in gioco.

 

Molte ricerche mettono in luce il pericolo di voler a tutti i costi passare dalla penna alla tastiera, come a suo tempo si fece dal pennino alla penna. Non è la stessa cosa. Già nel 2007, una ricerca pubblicata da Connelly – psicologo della Oxford Brookes University - e altri sul British Journal of Educational Psychology dimostrava che i temi scritti a mano dai bambini delle Scuole Primarie erano migliori rispetto a quelli scritti con una tastiera. Addirittura, dallo stesso studio emerse che i temi scritti al computer sembravano fatti da soggetti il cui sviluppo era indietro di due anni (un bambino di terza scriveva quindi come un bambino di prima). Nel 2011, lo studio di Sandra Sulzenbruck e altri analizzò il rischio che l’utilizzo continuo della tastiera per la produzione di testi possa contribuire in modo significativo alla perdita delle capacità di scrittura a mano. I vari studi condotti dalla neuroscienziata norvegese Audrey Van de Meer, dimostrano l’importanza dell’aspetto sensomotorio della penna sulla carta.

La penna consente connessioni neurocerebrali articolate e raffinate assolutamente improponibili e imparagonabili col puro e semplice battito del ditino su una tastiera come un criceto. Il movimento della mano che traccia lettere e parole, implica, nel bambino che sta incominciando a leggere e a scrivere, il riconoscimento di linee, curve, spazi, creando, dal punto di vista cognitivo, una connessione visivo-motoria. La scrittura manuale «costringe» in qualche modo a direzionare il movimento della mano a seconda della lettera che si deve scrivere. Il testo va orientato nello spazio e contenuto all’interno delle dimensioni di un foglio (per fare un esempio). Tutte queste azioni attivano la corteccia parietale preposta alla capacità di calcolo, linguaggio, orientamento spaziale e memoria. Più avanti, lo scrivere in corsivo richiederà necessariamente di saper collegare le lettere tra loro. La tastiera non richiede un simile sforzo: basta picchiare su tasti tutti uguali e le parole vengono da sé.

 

 

L’uso della penna, inoltre, facilita l’apprendimento anche per i suoi tempi «dilatati» che costringono il cervello a selezionare i concetti più importanti e, di conseguenza, assimilarli meglio. I rischi della scrittura su tastiera sono chiari: soprattutto nei bambini piccoli, viene impedito il corretto sviluppo di alcuni meccanismi cognitivi fondamentali. Sono noti i ritardi che l’uso della televisione, dei videoschermi, dei videogiochi e della tastiera provocano nei processi di lettoscrittura. Occorre ricordarli per evitare, fra anni, di ritrovarci con un aumento drammatico di disgrafie, disortografie se non, addirittura, ritardi nella vera e propria capacità di leggere e scrivere. Genitori e insegnanti non possono permettere che siano date informazioni non solo sbagliate, ma decisamente in malafede. A volte sono gli stessi venditori di questi prodotti che finiscono per promuovere convegni specifici sul passaggio dalla penna alla tastiera. Le ricerche scientifiche lasciano poco spazio ai dubbi e quindi i bambini vanno, ancora una volta, tutelati nel loro mondo e nel loro pensiero che è pratico, operativo, concreto e sensoriale. Solo in questo modo potranno crescere e raggiungere le altre fasi della vita.
*pedagogista

Polizia Postale: consigli ai genitori per l’uso dei social

FONTE: la Repubblica.it

AUTORE: Alessandra Ziniti

DATA: 22 gennaio 2021

In quattro punti le indicazioni della Polizia postale ai genitori: " Spiegate ai ragazzi i rischi concreti, si sentono immortali. E segnalateci i casi sospetti"

"Mostratevi curiosi verso ciò che tiene i ragazzi incollati agli smartphone, assicuratevi che conoscano i rischi delle sfide online. Parlatene con loro e metteli in guardia. E segnalateci tutti i casi sospetti". Così il giorno dopo la tragica fine della bambina di 10 anni a Palermo, la polizia postale lancia il suo appello alle famiglie affinché non sottovalutino i pericoli della rete e parlino con i loro figli.

Non sono solo sfide per balletti o karaoke quelle che i ragazzi e ormai anche i bambini accettano sui social. Ed ecco, in quattro consigli, come la Polizia postale propone ai genitori di intervenire,

Parlare delle sfide

"Fate in modo che i ragazzi non subiscano il fascino di queste sfide. Alcune challenge espongono a rischi medici (assunzione di saponi, medicinali, sostanze di uso comune come cannella, sale, bicarbonato), altre inducono a compiere azioni che possono produrre gravi ferimenti a sè o agli altri (selfie estremi, soffocamento autoindotto, sgambetti, salti su auto in corsa, distendersi sui binari).

Spiegare i rischi concreti

" Assicuratevi che abbiano chiaro quali rischi si corrono a partecipare alle sfide online. I ragazzi spesso si credono immortali e invincibili per una immaturità delle loro capacità di prevedere le conseguenze di ciò che fanno".

Capire cosa li attrae

"Monitorate la navigazione e l’uso delle app social, anche stabilendo un tempo massimo da trascorrere connessi. Mostratevi curiosi verso ciò che tiene i ragazzi incollati agli smartphone: potrete capire meglio cosa li attrae e come guidarli nell’uso in modo da essere sempre al sicuro".

Segnalare video e inviti a sfide

"Se trovate in rete video riguardanti sfide pericolose, se sui social compaiono inviti a partecipare a challenge, se i vostri figli ricevono da coetanei video riguardanti le sfide, segnalateli subito alla Polizia postale anche online  sul sito del commissariato di ps online"

Smartphone e famiglia: tutti insieme (silenziosamente)

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Cristina Marrone

DATA: 14 maggio 2019

Cellulari e tablet hanno rivoluzionato il modo di comunicare anche fra genitori e figli, ma se non usati con attenzione si corre il pericolo di essere iperconnessi (ma soli)

Ma quanto tempo passano oggi i ragazzi incollati a tablet e telefonini? E quali conseguenze può avere per la loro crescita? Il tema, da tempo, tormenta i genitori. Che devono accettare un dato di fatto: la tecnologia ormai fa parte della famiglia e ha cambiato il modo di comunicare. Non necessariamente in meglio. Tra gli esperti che considerano negativo l’impatto del digitale sulle relazioni c’è Sherry Turkle, sociologa e psicologa americana che anni fa ha dato a un suo libro un titolo che non ha bisogno di spiegazioni: Alone together, «Soli insieme». Un recente studio inglese pubblicato sul Journal of Marriage and Family ha fatto il punto sulle difficili interazioni tra membri della stessa famiglia. Killian Mullan, docente di Sociologia e politica alla Aston University e Stella Chatztheochari, che insegna sociologia all’Università di Warwick, hanno analizzato i «diari del tempo» raccolti da genitori e bambini fra i gli 8 e i 16 anni nel 2000 e poi nel 2015, periodo in cui è esploso il cambiamento tecnologico. Con sorpresa è emerso che i ragazzini trascorrevano più tempo a casa nel 2015 rispetto al 2000: una mezz’ora in più, un’ora tra i 14 e i 16 anni. Peccato che abbiano anche ammesso di essere «soli» in questo tempo. E i dati hanno mostrato che figli e genitori hanno trascorso la stessa quantità di tempo (circa 90 minuti) utilizzando i dispositivi mobili quando erano insieme.

 

Incuriosisce che gli adolescenti siano diventati più casalinghi.«C’è molta più preoccupazione per la sicurezza dei figli, quindi si cerca di iper proteggerli , anche se alla fine si rischia di renderli più fragili» ipotizza Laura Turuani, psicologa e psicoterapeuta del centro milanese Il Minotauro, che si occupa di disagio adolescenziale e dipendenze. «Il “codice materno” richiede vicinanza e controllo e i mezzi di oggi consentono forme di sorveglianza che nessuna generazione precedente poteva immaginare. In ogni momento, grazie alle app di geolocalizzazione, sappiamo dove sono i ragazzi o che social stanno usando. Il registro elettronico comunica in tempo reale i voti: un ragazzo che prende un 5 non può neppure provare a tenerlo nascosto, nella speranza di recuperare con un 7. Più facile che quando torna a casa trovi già a disposizione il professore per le ripetizioni, sempre nell’ottica di anticipare i bisogni. Il mondo diventa sempre più iper protetto, a partire dall’infanzia. Gli scivoli dei bambini sono fuori norma senza i tappetini anticadute; è solo di pochi mesi fa la polemica sul fatto che le scuole medie non volevano lasciare uscire da soli neppure i ragazzi di terza. Se uno studente sarà bocciato, oggi arriva a casa una lettera degli insegnanti che invita i genitori a prepararlo alla brutta notizia».

 

Frammenti di dialogo

La casa, dunque, è vista come un ambiente sicuro. Ma almeno tra le camerette bunker e la cucina passano le informazioni? «Si comunica in modo diverso» aggiunge Turuani, che è anche co-autrice de Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa (Cortina editore). «Il dialogo è spezzettato, spesso scritto o con messaggi vocali nel corso della giornata. Si resta costantemente in contatto. Difficile arrivare a casa la sera e scoprire che è successo qualcosa di importante in giornata, ci si è mandati di sicuro un messaggio prima». Questa forma di comunicazione non dovrebbe sostituirsi del tutto al tradizionale “faccia a faccia”, anche se la comodità degli smartphone condiziona. Niente di troppo diverso dalla vecchia e diffusa abitudine di cenare con la tv accesa o di parcheggiare i bambini davanti ai cartoni per consentire. Tuttavia nello stare “soli insieme” di oggi c’è una differenza rispetto alla visione della tv di un tempo: prima davanti allo schermo si stava in un luogo e per un periodo circoscritto, oggi siamo sempre connessi, raggiungibili ovunque e quindi è facilissimo «distrarci».

 

Non è colpa dei ragazzi

Un errore frequente è colpevolizzare i ragazzi, che non parlerebbero perché troppo presi dai loro cellulari. Sicuri che sia così? Allora come si spiega che sono spesso proprio loro a chiedere ai grandi di spegnere il telefono o il pc quando sono insieme? «I genitori sono modelli di identificazione e devono essere coerenti» ricorda Turuani. «La mail di lavoro sottrae lo stesso tempo di un messaggio della fidanzata, il risultato emotivo è lo stesso per il figlio: vi state occupando di altro, non di lui. In molti Paesi i componenti di una famiglia cenano separati, chi davanti alla televisione, chi al computer, chi a studiare, ma sarebbe importante mantenere la tradizione di riunirsi a tavola e passare una mezz’ora insieme, per condividere le esperienze della giornata e rafforzare il legame affettivo. Preservare alcuni momenti familiari senza tecnologie è il primo passo per concedersi un tempo “sconnesso” che va riempito con scambi di opinioni e confidenze». Senza illudersi però, che basti spegnare i dispositivi digitali per avere una buona comunicazione in casa.

“Danni neurologici ai bimbi italiani”. Allarme a scuola: che cosa li rovina

FONTE: Libero Quotidiano.it

AUTORE: 

DATA: 22 gennaio 2016

 

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I tablet a scuola? Provocano "demenza digitale" e gravi danni neurologici ai bambini, incapaci di scrivere a mano, specialmente in corsivo, e soggetti più facilmente a cali di attenzione e di autostima.  

Posizioni - Tra i tecno-diffidenti c'è il regista Michael Moore, secondo cui il corsivo è uno stimolo alla creatività: "Non ci togliete l'unica cosa che tutti siamo in grado di fare ed è unica per ciascuno di noi. Il corsivo è l'impronta digitale della nostra creatività". Anche uno dei riferimenti accademici italiani, il professor Benedetto Vertecchi, difende a spada tratta la scrittura a mano. L'ha scritto in un recente dossier Alfabeto aperto. A proposito dei cosiddetti "nativi digitali", ovvero quelli nati dopo il '95 in poi, il neuroscienziato Manfred Spitzer coniò l'espressione "demenza digitale": "Quando si dichiara che a scuola si studia meglio grazie ai media digitali, non bisogna dimenticarsi che non esistono dimostrazioni di questa tesi. Anzi. Ci sono molte più ricerche che affermano quanto l'apporto della tecnologia informatica abbia un effetto negativo sull'istruzione". Il Giorno, che si è occupato della questione, ha sottolineato come il tema della scrittura a mano è delicatissimo e non si tratta di fare crociate contro i supporti digitali, ma di preservare le abilità e le competenze legate all'esplorazione fisica e mentale del mondo.

Scrivere a mano - Migliora la capacità di leggere e contare, potenzia l'attenzione e la facoltà di apprendimento. Stimola il pensiero critico, aiuta a costruire buone relazioni, incoraggia ad uscire dall'anonimato, migliora le capacità motorie e tante altri sono gli effetti positivi che la scrittura a mano si porta dietro. La diagnosi diventa difficile ma "l'uso dei mezzi digitali comporta l'attenuazione e talvolta la perdita delle capacità di coordinare il pensiero con l'attività necessaria per tracciare i segni", aggiunge Il Giorno.

Usa - Ma l'allarme "spaventoso" arriva dagli Usa. I bimbi non sanno più leggere il corsivo, viene insegnato solo in prima elementare. In seguito a questa ricerca che ha rilevato segnali negativi dopo l'introduzione dei tablet nelle scuole è stata creata una campagna per il corsivo proprio contro la linea federale in corso negli Usa. Sheila Lowe - scrittrice, grafologa e portavoce della Campagna per il corsivo - ha rilasciato un'intervista a Il Giorno sulla tragica questione: "La direttiva federale è stata adottata da molti stati. Alcuni, consapevoli del "danno" stanno indietreggiando e noi stiamo cercando di incoraggiarli a non smettere di insegnare il corsivo". "La scuola l'ha rifiutato perché a sua volta anche gli insegnanti hanno difficoltà con la scrittura e così si rifiutano di insegnarlo" - dice la portavoce - "Gli insegnanti non conoscono i rischi. Negli ultimi anni c'è stato un enorme aumento dei disturbi di apprendimento nei bambini". Alla domanda se esistono prove scientifiche di quanto si sta dicendo, la scrittrice menziona gli studi diVirginia Berninger e Karin James: hanno dimostrato che il cervello si "illumina" in più aree quando si scrive in corsivo, al contrario di quando si scrive con la tastiera. Sheila non esclude lo zampino dell'industria informatica, rispetto alla questione: "Mi risulta che Bill Gates abbia fatta pressione sul sistema educativo per spingerlo a utilizzare maggiormente il computer". La questione è tenere - per la portavoce - un posto per la scrittura a mano e un posto per i dispositivi elettronici".

«La scuola digitale? Un disastro» In Francia monta il fronte del no

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Stefano Montefiori

DATA: 8 settembre 2016

Un pamphlet contro il piano digitale del governo Hollande mette in guardia sui rischi dell’«utopia tecnologico-pedagogica»: non migliora le competenze e accentua le differenze sociali. E’ quanto sosteneva già il focus Ocse-Pisa del 2015

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PARIGI La fiducia nelle nuove tecnologie, irrinunciabile orizzonte di progresso, accompagna gli europei e i loro governi da molti anni, dalle famose tre «i» di Berlusconi - Inglese, Impresa, Informatica, era il 2001 - al più concreto «Piano per il digitale nelle scuole» varato dal presidente francese François Hollande nel 2014. Gli obiettivi fondamentali dell’iniziativa francese sono collegare le scuole alla banda larga, formare gli insegnanti, incoraggiare gli editori di libri scolastici a pubblicarne una versione digitale e equipaggiare 3,3 milioni di allievi con un tablet. Ma nei giorni del rientro nelle classi, fa discutere un libro che contesta la moda digitale e sottolinea i vantaggi dell’apprendimento tradizionale.

Per una scuola senza schermi

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L’insegnante di storia Karine Mauvilly e l’ingegnere Philippe Bihouix hanno scritto «Le Désastre de l’école numérique. Plaidoyer pour une école sans écrans» (Seuil) in cui descrivono il «disastro» della scuola digitale e auspicano il ritorno a classi «senza schermi». I due autori fanno proprie alcune delle critiche rivolte sempre più spesso alle tecnologie digitali in generale: rendono difficile la concentrazione, diminuiscono la capacità di riflessione e di calcolo, non stimolano la creatività. L’opposto di certe pubblicità che associano computer, smartphone o tablet a un trionfo di idee e colori che ci dovrebbero rendere tutti musicisti, pittori, scienziati. Secondo gli autori, la svolta digitale è innanzitutto una scorciatoia per mascherare il fallimento di decenni di riforme scolastiche, che non sono riuscite a rendere la scuola francese più egalitaria. Un tempo vanto della società francese, la «scuola repubblicana» è accusata di non essere più in grado di favorire l’ascensore sociale, ma anzi di essere una delle cause del suo blocco.

Le disparità

Il problema della diseguaglianza è affrontato anche dall’economista Thomas Piketty, che in un intervento su Le Monde sottolinea come nella capitale, Parigi, gli istituti seguano perfettamente e rigidamente la geografia economica della città, con gli allievi più ricchi che si concentrano nelle scuole dei quartieri più fortunati e quelli con meno mezzi a disposizione radunati negli altri istituti, senza la possibilità di venire in contatto. Mauvilly e Bihoux sostengono che le nuove tecnologie e in particolare i tablet tradiscono la promessa originaria di livellamento verso l’alto di tutta la società, e al contrario tendono a perpetuare le differenze di classe. «Il tasso di equipaggiamento dei gadget elettronici è superiore presso i figli cresciuti in famiglia meno fortunate - dice Philippe Bihouix a Libération -. Usano gli smartphone prima, spesso hanno il computer e la tv in camera, mentre nelle famiglie più ricche i genitori limitano l’uso degli schermi e ritardano l’arrivo del telefono cellulare (…). Lottare veramente contro le disuguaglianza non è fornire a tutti dei tablet ma offrire ai bambini dei corsi di violino, di teatro».

L’apprendimento

Soprattutto, gli autori del libro sostengono che nessuna ricerca dimostra quel che molti trovano intuitivo, e cioè che usare i mezzi più moderni favorisca l’apprendimento. Il rapporto Pisa 2015, redatto dall’Ocse che ha un’impostazione di solito piuttosto favorevole alla sfera digitale, indica invece che più si è esposti agli schermi meno si comprendono i testi scritti. Karine Mauvilly e Philippe Bihoux si inseriscono in una corrente di pensiero sempre più frequentata negli ultimi tempi, che mette in discussione l’utilità e la convenienza degli strumenti digitali nelle nostre vite.

 

 

 

Steve Jobs non voleva che i figli usassero i suoi iPhone e iPad: ecco perché

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: 

DATA: 26 febbraio 2016

Steve Jobs ha cambiato il mondo con la sua tecnologia e costruito un impero, ma non voleva che i suoi figli usassero iPod, iPad e iPhone.

jobs

Nella sua casa non amava circondare la sua famiglia di strumenti tecnologici e sottolineava come i figli fossero lontani dal comprendere il funzionamento e le caratteristiche dei dispositivi lanciati di volta in volta sul mercato. "Non li conoscono. Dobbiamo limitare l'uso della tecnologia dentro casa da parte dei nostri bambini", diceva in un intervista al New York Times del 2010 l'amministratore delegato e fondatore di Apple dopo il lancio del primo iPad. 

Un approccio protettivo che lo accomunava ad altri guru della tecnologia. Chris Anderson, ex direttore del magazine Wired e coofondatore di Robotica 3D, ha dichiarato: "Conosco i pericoli della tecnologia, li ho vissuti sulla mia pelle e non voglio che accada lo stesso ai miei figli".
Lo stesso per Evan Williams, fondatore di Twitter, e sua moglie Sara Williams che hanno circondato i figli di libri e non di tecnologia. Tutto dipende dall'età: è necessario che non siano dipendenti e che un po' più grandi conoscano dei limiti nel loro utilizzo. 

Uso eccessivo dello smartphone negativo per rendimento scolastico

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: scuola 24

DATA: 25 febbraio 2019

L’uso eccessivo dello smartphone incide negativamente sul rendimento scolastico dei più giovani

Usare lo smartphone durante la cena in famiglia o durante l'orario del sonno incide negativamente sul rendimento scolastico dei più giovani. A dirlo sono due studi condotti da Marco Gui - ricercatore ed esperto di uso di Internet - insieme a Tiziano Gerosa - assegnista di ricerca su tematiche metodologiche in campo educativo, entrambi afferenti al Centro di ricerca “Benessere digitale” del dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale di Milano-Bicocca (www.benesseredigitale.eu).

La prima ricerca è pubblicata sulla rivista Polis mentre la seconda è in uscita sull'Handbook of digital inequality, curato dalla nota studiosa Eszter Hargittai (Edwar Elgar Publisher).

Le ricerche hanno preso in esame l'intera popolazione studentesca della Val d'Aosta tra i 14 e i 19 anni, per un totale di 4.675 ragazzi. Attraverso due diversi metodi di analisi quantitativa, gli studi hanno confermato che l'utilizzo intensivo dello smartphone, in particolare nei momenti più importanti della giornata come la cena in famiglia o l'orario del sonno, si ripercuote negativamente sul rendimento scolastico dei ragazzi.

L'elemento di originalità delle ricerche è stato approfondire l'analisi del contesto socio-economico degli studenti, riscontrando come un massiccio utilizzo dello smartphone tra le famiglie meno istruite è ulteriore fonte di disuguaglianza nella già diseguale relazione tra livello di istruzione della famiglia e rendimento scolastico.

«Le conclusioni mettono in luce che l'uso non regolato dello smartphone rappresenta un problema anche rispetto alla disuguaglianza sociale – afferma Marco Gui, responsabile delle ricerche - In un certo senso si è passati da un digital divide basato sulla scarsità di accesso ad un divario basato invece sull'utilizzo eccessivo e non regolato. Mentre si dibatte sul se e sul come lo smartphone possa essere impiegato nella didattica, questi studi mostrano una urgenza in parte diversa: intervenire per sviluppare negli studenti capacità di regolazione e gestione dell'uso dello smartphone in ambito extrascolastico, in particolare nell'ambiente familiare».

Sempre più connessi, sempre più soli

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE:  Luigi Ripamonti

DATA: 27 settembre 2018

Viviamo perennemente connessi eppure ci sentiamo sempre più soli. E la solitudine è una malattia vera e propria, epidemica, con un portato complessivo che travalica il non-vissuto individuale per insediarsi a un livello di decostruzione sociale, culturale ed economica.

La tesi di Manfred Spitzer in Connessi e isolati (Corbaccio) può apparire estremista ma è supportata da un robusto corpo di dati scientifici. A partire da quelli che demoliscono l’illusione che i social-network possano essere una panacea contro la percezione di isolamento: casomai è il contrario. L’autore argomenta con numerosi, solidi, studi quanto l’uso di Facebook conduca a un livello più basso di soddisfazione nella vita

. «I social media stanno ai rapporti interpersonali reali come i popcorn stanno alla sana alimentazione: ci si aspetta di provare gioia tra amici, e ciò che si ottiene in verità è solo aria fritta», argomenta Spitzer.

Perché allora così tante persone accedono al loro account e occupano il tempo con un’attività che loro stesse (se glielo si chiede) descrivono come inutile? Perché spesso non sanno cosa fa loro bene e cosa li rende felici, spiega l’autore. «Credono che staranno meglio quando si saranno loggate in un social network, in verità stanno peggio. In particolare, e contro ogni aspettativa, i social network ci rendono più soli». Insomma ci fanno «stare male», proprio perché ci fanno sentire soli. La ragione e il problema albergano entrambi nell’evoluzione.

L’uomo è un animale sociale, la nostra specie ha potuto fare quello che ha fatto grazie soprattutto alla capacità di cooperare. Il gruppo, nelle sue varie declinazioni, è il cardine per lo sviluppo e il progresso, ma lo è anche per la sopravvivenza del singolo. Ciascuno di noi lo sa bene, seppure inconsciamente, tant’è vero che la sensazione di solitudine attiva nel nostro cervello precise aree nervose (la corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale ventrale destra) che ci fanno «provare dolore» proprio per indurci a provi rimedio, e quindi a sopravvivere. A questo punto potrà non sorprendere troppo constatare che le stesse aree cerebrali vengono attivate anche dal dolore fisico, e il motivo è lo stesso. Il dolore è un meccanismo protettivo, selezionato dall’evoluzione per proteggerci: se non avvertissimo dolore non leveremmo la mano dal fuoco e quindi la perderemmo, analogamente se non provassimo «dolore» nel sentirci soli, isolati, esclusi, non tenteremmo di stabilire relazioni e quindi metteremmo a rischio la nostra sopravvivenza e, estendendo il comportamento, anche quella della specie.

Da qui alle conseguenze collettive di una solitudine diffusa e in crescita il passo concettuale è breve. Le società si sviluppano grazie a una patto fondamentale di fiducia, che si nutre di rapporti. Quando la maggior parte delle nostre attività, dal comprare qualcosa, a informarci, a orientarsi in una città, si svolgono senza bisogno di interagire con qualcuno di persona, si verifica una progressiva depauperazione del patrimonio di fiducia reciproca che è il mattone su cui è edificato il sociale e anche l’economico. Le premesse e le conseguenze si alimentano in un circolo vizioso, in cui a essere inizio e fine è l’individualismo che sfocia nel narcisismo. L’analisi di Spitzer in questo senso si concentra soprattutto sulla generazione dei millenials, che incarnano, inevitabilmente, questa tendenza e per i quali è stata coniata la definizione «Generation look at me». Ma il problema non è l’abbondanza di selfie, quanto il ripiegamento su di sé che questa simboleggia, sia in termini di salute individuale sia del tessuto sociale.

A ciò dà il proprio contributo anche la televisione, fornendo modelli che incoraggiano all’egocentrismo, con una programmazione che va in una precisa direzione. Talk show e reality show mettono sempre a fuoco lo stesso punto: distinguersi, essere il migliore, il più bello, il più pazzo o il più repellente, e diventare famoso per questo. E talora anche l’educazione dei genitori contribuisce alla tendenza con uno stile educativo indulgente: qualsiasi cosa facciano i loro figli, sono sempre «i migliori». Il risultato di tutto ciò è stato scientificamente studiato: «Giovani adulti narcisisti, poco interessati al benessere degli altri, che senza alcun impegno particolare credono di essere destinati a un lavoro di prima classe e a diventare ricchi per poter vivere nelle migliori condizioni possibili».

Una società sempre più individualista ed egoista è non soltanto indirizzata a una maggiore infelicità ma anche a una crescente fragilità strutturale. In qualche modo estrema espressione e conseguenze dell’Homo homini lupus di Hobbes.

Che fare allora? La proposta di Spitzer sarebbe rivoluzionaria se fosse inedita: rivalutare il «dare» a scapito del prendere. L’autore, però, anche qui, non è ideologico e chiama a raccolta un numero consistente di studi che corroborano l’ipotesi che l’uomo sia meno oeconomicus di quanto non ci si dica comunemente. Diversi esperimenti dimostrano che, se non provocate, le persone non tendono a prevaricare gli altri ma piuttosto ad avere comportamenti corretti e che la felicità sia maggiore, e misurabile, quando si compiono gesti, anche molto piccoli, di generosità.

Cioè il contrario della direzione indicata da social network, e non solo, che promuovono la massima espressione dell’homo oeconomicus nella sua versione più individualista, autoreferenziale, selfie: valorizzazione massima del sé, con narcisismo e inevitabile isolamento sociale (la storia di Narciso insegna).

Diventare consapevoli del problema e provare a reagire ha come premio immediato un maggior benessere anche individuale, perché le prove scientifiche che lo stress cronico sia latore di malattie sono tantissime e le ricerche dimostrano che la solitudine è un potente motivo di stress cronico, da cui l’aumento di patologie che porta con sé, dal raffreddore, all’infarto, all’ictus, fino al cancro, diventando, di fatto, la prima causa di morte nel mondo occidentale secondo dati che l’autore non lesina. E quanto la solitudine, o, per essere più precisi, la sua percezione sia fondante per la salute lo provano diverse indagini che hanno dimostrato come la mancanza di affetto e accudimento nelle prime fasi della vita abbia conseguenze oggettive sulla capacità della gestione dello stress nel corso di tutta la vita. Bambini poco accarezzati, abbracciati, amati nella prima infanzia mostrano alterazioni recettoriali per gli ormoni legati allo stress a livello cerebrale. Motivo per cui la solitudine può essere letta come una condizione con ricadute epigenetiche, perché possiede la capacità di condizionare l’espressione dei nostri geni.