Il ruolo motivazionale del docente

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 16 febbraio 2023

LINK: ... era sul giornale cartaceo

Sotto l'immagine c'è il testo, per una lettura più agevole

Caro Direttore,

ho riscontrato, parlando con le mie colleghe, che la maggior parte di loro non ha mai fatto una riflessione sulle motivazioni che dovrebbero portare uno studente ad impegnarsi nello studio. E le motivazioni sono un elemento fondamentale per il successo di una qualsiasi persona, sia a scuola che nella vita.

Pur avendo io conoscenze relative alla scuola elementare, penso che le motivazioni che dovrebbero spingere un ragazzo allo studio, opportunamente adattate, siano le stesse anche per un ragazzo delle medie e del liceo. Esse dovrebbero essere condivise con i genitori nel primo incontro di inizio anno scolastico.

Un bambino di cinque anni che passa dalla scuola materna alla primaria deve accettare un cambiamento notevole della sua vita, che gli richiederà sicuramente un impegno che non gli era stato mai chiesto. Pur se, si spera, con gradualità ed in allegria; ed anche con la cura degli insegnanti a non trascurare mai la possibilità che l'apprendimento avvenga soprattutto con attività ludiche.

Perché il bambino dovrebbe accettare questo cambiamento?

Sono rari, secondo la mia esperienza, ormai decennale, i bambini di età compresa fra i sei e i dieci anni che studiano per il piacere di studiare.

Il piacere di apprendere, di migliorare, è invece determinato da alcuni fattori che ora vado ad analizzare.

 

La famiglia.

Il bambino, se sereno, felice, ha il piacere di corrispondere alle conosciute attese dei genitori relativamente al suo impegno scolastico. Naturalmente queste conosciute attese non devono essere eccessive, altrimenti potrebbero creargli ansia. Ed è importante che il bambino sappia, grazie alle parole dei genitori, di poter sbagliare, che l'impegno è l'aspetto più importante del suo lavoro, e che i risultati positivi verranno sicuramente (atteggiamento ottimistico). Inoltre accresce l'impegno del bambino anche la volontà di "diventare grande".

Qualcuno potrebbe obiettare: dipende dalla famiglia del bambino. Certo, il contributo non sarà sempre ottimale, ma sempre determinante. E queste non sono parole.

Ho insegnato anche a Tor Bella Monaca, un quartiere della periferia romana che non gode di buona nomea; anzi. Ebbene, quasi tutti i genitori dei miei alunni hanno collaborato attivamente. È bastato rivolgersi a tutti, in assemblea all’inizio dell’anno scolastico, evidenziando quanto fosse importante la nostra collaborazione per il bene del figlio; e poi trattarli con il dovuto rispetto durante i colloqui individuali.

Oltretutto così facendo si aiuta la famiglia a migliorare la propria capacità di interazione con il figlio, compito al quale nessuno l’ha preparata.

 

Rapporto con i docenti.

Se il bambino instaura un buon rapporto con i docenti, un po' studia anche per non deludere le loro aspettative.

 

Il gruppo.

Se il bambino si trova bene a scuola, con i compagni, ha il piacere di stare con loro, di identificarsi nel gruppo; e se il gruppo studia, anche lui non vuol essere da meno. È quindi importante che i docenti favoriscano buoni rapporti interpersonali fra gli studenti. Questo aiuta molto a prevenire fenomeni di violenza, bullismo e discriminazione.

 

Analogia con il lavoro dei grandi.

Al bambino piace l'idea che lui con la sua attività scolastica "lavori come la mamma o il papà". Anche questo fattore è opportuno che gli sia evidenziato con continuità.

 

Vantaggi pratici.

Il bambino si rende facilmente conto dei vantaggi concreti che gli offre lo studio: capacità di esprimersi meglio in lingua; abilità di calcolo utilissime; regali vari in occasione di voti o giudizi particolarmente positivi (lo so, quest'ultimi possono essere considerati "mezzucci"; ma sono fra quelli più efficaci, anche quando si può iniziare a proporre il fattore del quale ora parlerò).

 

Visione etica dello studio.

Questo fattore, che si comincia a proporre ai ragazzi in terza, quarta elementare, è sicuramente il più importante. Altrimenti è inutile fare lezioni di educazione civica.

Purtroppo è anche il più difficile da far germogliare nella mente e nel cuore dei ragazzi; alcuni vanno in prima media senza ancora possederlo.

Ecco allora che l'azione fondamentale del docente non può essere solo quella di insegnare all'alunno cosa e come studiare, ma soprattutto quella di persuaderlo, in stretto accordo con la famiglia, a voler studiare, avendo come fine ultimo l'acquisizione da parte dell'alunno della motivazione principale, quella etica, che lo deve spingere a studiare per poter rispondere un domani alla sua vocazione, quale essa sia, per dare il suo contributo alla società; forse all’umanità.

E per portare avanti un'azione del genere, durante la quale l'insegnante opera come un catalizzatore, che favorisce le varie "reazioni chimiche" nella mente del bambino, possibilmente senza intervenire direttamente in esse, intervenendo sui fattori positivi per lo studio, affinché l'alunno ne acquisisca consapevolezza, e rimuovendo  progressivamente quelli negativi, è a mio avviso indispensabile che  il docente e il discente non siano solo tali, ma che tra essi si stabilisca una relazione significativa tale che l'alunno sappia che è accettato, amato e rispettato prima di tutto come persona, a prescindere da ogni risultato scolastico.

Se si realizza questa relazione (se si lavora nel "cuore dell'uomo") si ha un ragazzo fortemente motivato; e se l'insegnante ha competenze professionali adeguate i risultati sono sicuri e stabili nel tempo.

E non c'è paragone con quanto si può pensare di ottenere solo instillando nell'alunno nozioni dall'esterno, come si fa nell'ammaestrare gli animali, perseguendo tante piccole mete; oppure imponendo una disciplina ferrea con atteggiamenti duri; oppure concedendo tutte le libertà, per acquisire la loro benevolenza.

Come ho già detto, la motivazione etica si comincia a proporre generalmente dalla terza elementare.

Naturalmente affinché si stabilisca questa relazione significativa è molto importante che il ragazzo stimi gli insegnanti e sappia che essi godono della totale fiducia della famiglia. Senza che quest’ultima si precluda la possibilità di valutare, anche negativamente, il lavoro degli insegnanti.

È opportuno però che la famiglia parli di eventuali problemi con l'insegnante, mai con il bambino o davanti a lui.

È questa una "conditio sine qua non" per realizzare la relazione significativa fra gli insegnanti e l'alunno, indispensabile per ottenere risultati positivi. Un altro elemento molto importante per buone relazioni in classe è l’allegria. L’angolo della barzelletta, previsto tutti i giorni verso la fine della giornata scolastica, vi ha sempre contribuito molto.

«Lo smartphone? E’ come la cocaina e gli studenti italiani sono decerebrati»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORI: Gianna Fregonara e Orsola Riva

DATA: 20 dicembre 2022

«Lo smartphone? E’ come la cocaina e gli studenti italiani sono decerebrati».

Ecco il documento che ha ispirato Valditara

di Gianna Fregonara e Orsola Riva

La relazione del senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sui danni fisici, psicologici e mentali dello smartphone è stata allegata alla circolare sul divieto di cellulari in classe

«Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica». Non è un libro di fantascienza distopica, è la relazione presentata a giugno dell’anno scorso dal senatore Andrea Cangini (Forza Italia) sull’impatto del digitale sugli studenti (leggi qui il testo integrale) che il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha allegato alla sua circolare sullo stop all’uso del telefonini in classe. Un’indagine che paragona l’uso e abuso dello smartphone (chissà perché solo da parte dei giovani) alla tossicodipendenza. «Niente di diverso dalla cocaina - scrive Cangini nella relazione mandata da Valditara alle scuole -. Stesse, identiche, implicazioni chimiche,neurologiche, biologiche e psicologiche».

 

La Corea del Sud

A sostegno di questa tesi vengono portate le opinioni raccolte da neurologi, psichiatri, psicologi, pedagogisti, grafologi ed esponenti delle Forze dell’ordine «auditi» nel corso dell’indagine conoscitiva portata avanti da Cangini. Si cita il caso limite della Corea del Sud dove «il 30 per cento dei giovani tra i dieci e i diciannove anni è classificato come «troppo dipendente» dal proprio telefonino: vengono disintossicati in sedici centri nati apposta per curare le patologie da web». In Cina, scrive ancora Cangini, « i giovani “malati” sono ventiquattro milioni. Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, naturalmente concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti oltre quattrocento». Sempre per restare nell’Estremo Oriente si fa anche un riferimento en passant agli hikikomori giapponesi: ragazzi che «vegetano chiusi nelle loro camerette perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà. Un milione di zombi».

Il mondo nuovo

La conclusione non è meno apocalittica: lo smartphone, dice Cangini, atrofizza il cervello e «non è esagerato dire che decerebrando le nuove generazioni». «Tutte le ricerche internazionali citate nel corso del ciclo di audizioni - è scritto nella relazione - giungono alla medesima conclusione: il cervello agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e l’uso di dispositivi digitali (social e videogiochi), così come la scrittura su tastiera elettronica invece della scrittura a mano, non sollecita il cervello. Il muscolo, dunque, si atrofizza. Detto in termini tecnici, si riduce la neuroplasticità, ovvero lo sviluppo di aree cerebrali responsabili di singole funzioni». Pleonastico a questo punto anche scomodare Aldous Huxley come fa Cangini evocando la «dittatura perfetta» da lui vaticinata nei suoi libri di fantascienza: «Una prigione senza muri in cui i prigionieri non sognano di evadere. Un sistema di schiavitù nel quale, grazie al consumismo e al divertimento, gli schiavi amano la loro schiavitù». Quella dittatura, conclude Cangini, è già realtà. I nostri figli, i nostri nipoti, in una parola il nostro futuro sono già «giovani schiavi resi drogati e decerebrati». Questo sono gli studenti italiani.

20 dicembre 2022 (modifica il 20 dicembre 2022 | 18:16)

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Sonno: apprendimento, obesità, patologie, facoltà mentali

FONTE: almanacco.cnr.it

AUTORE: Rita Bugliosi

DATA: 7 dicembre 2022

A ricordarlo è Michela Matteoli, direttrice dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche, che evidenzia come il sonno notturno garantisca alcune importanti facoltà mentali, dalla memorizzazione all’apprendimento. E come la sua mancanza possa in parte contribuire allo sviluppo di gravi patologie, quali le demenze.

Il sonno è una funzione fondamentale dell’organismo, che si modifica assieme a noi durante la crescita. La sua regolarità e buona qualità garantiscono la nostra sopravvivenza, ma anche la salute del nostro cervello e del nostro organismo, non a caso gli viene dedicata un’ampia porzione della nostra vita. Dormire una quantità insufficiente di ore può avere effetti negativi importanti di vario tipo: ridurre l’attenzione e le capacità cognitive, causare cambiamenti di umore, esporci a un rischio più elevato di alcune malattie quali obesità, diabete di tipo 2, ipertensione, malattie cardiache ed ictus. Cerchiamo allora di comprendere meglio alcune caratteristiche di questa importantissima funzione, a partire dalle differenze nei due sessi.

“Maschi e femmine possiedono sin dalla nascita una differente struttura del sonno, diversità che sono stabilite durante la vita fetale e cambiano durante la crescita. Uno studio francese del 2017 ha valutato i disturbi del sonno in un campione di 381 bambini tra 4 e 16 anni, rivelando, in accordo con ricerche precedenti, che in età infantile le femmine dormono più a lungo e con una migliore qualità del sonno rispetto ai maschi. Dopo i 12 anni di età, in corrispondenza della pubertà, si assesta invece una prevalenza di insonnia e disturbi del sonno di 2,5 volte superiore nelle ragazze rispetto ai coetanei”, spiega Michela Matteoli, direttrice dell’Istituto di neuroscienze (In) del Cnr.

A determinare le ore di sonno è la struttura del cervello e ciò che si sa, in base alle ricerche che sono state condotte, è che dormire di più o di meno ha degli effetti sulle facoltà cognitive. “Utilizzando i dati della Biobanca del Regno Unito, un gruppo di ricercatori ha recentemente esaminato il sonno e i punteggi cognitivi di individui sani tra i 38 e i 73 anni, in relazione con la loro struttura cerebrale. I dati dimostrano che sette ore di sonno al giorno sono associate a prestazioni cognitive più elevate”, chiarisce la direttrice del Cnr-In. “Gli individui che dormono tra le sei e le otto ore sono risultati avere un volume di materia grigia significativamente maggiore in diverse regioni del cervello, tra cui: la corteccia orbitofrontale, importante nel processo decisionale;  l'ippocampo, fondamentale per il consolidamento dei ricordi; il giro precentrale, che fa parte dell'area motoria primaria; il lobo frontale, che supporta il coordinamento dei movimenti volontari; e alcune aree del cervelletto, a supporto di precedenti evidenze che avevano mostrato come l’acquisizione di abilità motorie venga migliorata durante il sonno. Anche gli individui che dormivano più a lungo di otto ore mostravano alterazioni in alcune di queste aree. Questi risultati, osservazionali e che richiedono ulteriori conferme, evidenziano l'importante relazione tra sonno e salute strutturale del cervello”.

Tra i danni principali che la mancanza del riposo notturno determina ci sono anche quelli all’apprendimento: una persona privata del sonno ha maggiori difficoltà a focalizzare l’attenzione in modo corretto e, quindi, non riesce ad apprendere in modo efficace. “Il sonno gioca un ruolo anche nel consolidamento della memoria, il processo che permette di integrare nuove informazioni con quelle già presenti nel cervello, stabilizzando e rafforzando i nuovi ricordi. Tale consolidamento, che svolge un ruolo essenziale anche per l'apprendimento, è diretto dalle cosiddette oscillazioni cerebrali lente, che rappresentano l'attività elettrica tipica delle fasi di sonno profondo”, continua la direttrice del Cnr-In. “Studi di risonanza magnetica funzionale dimostrano che, dopo una notte di totale privazione, due notti consecutive di sonno permettono il recupero della connettività ippocampale, ma non sono sufficienti a ristabilire i deficit di memoria episodica”.

La scarsità di sonno può favorire inoltre lo sviluppo di patologie neurologiche come la demenza, che colpisce un numero sempre maggiore di persone, anche a causa dell’allungamento della vita media. “Negli ultimi anni si è scoperto che, durante la fase del sonno non Rem, il cervello può eliminare composti che altrimenti si accumulerebbero nel parenchima, il tessuto dell'organo costituito dalle cellule che conferiscono le  caratteristiche strutturali e funzionali. Questo è il caso della proteina Beta-amiloide, implicata nella malattia di Alzheimer e in altri disturbi cerebrali, che aumenta nel cervello di roditori sottoposti a deprivazione di sonno. Il dato è confermato anche sugli umani”, aggiunge Matteoli, che ricorda uno studio scientifico: “L’Università di Berkeley ha analizzato un gruppo di 101 adulti sani del Berkeley Aging Cohort Study per determinare se il sonno frammentato, durante la mezza età, potesse essere collegato a un più rapido accumulo di Beta-amiloide e proteina Tau. Utilizzando la polisonnografia, questionari retrospettivi e Pet specifica per Tau e Beta amiloide, i ricercatori hanno dimostrato che, nell’arco di diversi anni, lo scarso sonno si correla a una maggiore presenza di placche di Beta-amiloide e grovigli di proteina Tau”.

Si tratta indubbiamente di risultati importanti ma, come conclude la ricercatrice: “Sono necessarie ricerche su un numero maggiore di soggetti per esplorare le relazioni tra l'attività del sonno e l'accumulo di proteine tossiche nel cervello. Tuttavia, la misurazione della qualità del sonno, attraverso dispositivi indossabili e non invasivi, potrebbe essere utile per allertare sul possibile accumulo anomalo di proteine nel cervello prima che si sviluppi il declino cognitivo”.

Fonte: Michela Matteoli, Istituto di neuroscienze, e-mail: michela.matteoli@cnr.it

 

Il cattolico Babbo Natale

FONTI VARIE

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: qualche anno fa

 

 

Chi ha in mente alcune pubblicità natalizie faticherà a credere che Babbo Natale, il povero personaggio polare, era cristiano, anzi era addirittura un vescovo; e gliene è rimasta traccia nel nome scandinavo di Santa Claus (contrazione di Sanctus Nicolaus).

San Nicola, infatti, era presule di Mira (oggi Demre, in Turchia) all’inizio del IV secolo e il suo culto fu popolarissimo per tutto il Medioevo, sia in Oriente che in Occidente.

In mancanza di particolari storici sulla sua vita, furono numerose le leggende che gli attribuivano addirittura la resurrezione di morti e altri miracoli, una turbolenta partecipazione al concilio di Nicea e naturalmente il fatto generoso che fu poi all'origine del suo mito postumo: prima ancora di essere vescovo, il giovane e ricco Nicola una notte avrebbe gettato delle monete d’oro nella casa di tre ragazze, che a causa della loro povertà avevano deciso dì seguire una cattiva strada.

E il gesto cristiano, compiuto furtivamente (secondo i racconti il malloppo fu buttato attraverso la finestra o addirittura giù dal camino), è lo spunto della successiva tradizione dei doni natalizi ai bambini. Già verso la fine del XII secolo a Parigi ogni 6 dicembre uno studente travestito da San Nicola distribuiva doni agli orfani e ai figli dei poveri.

Che Santa Claus sia non solo cristianissimo, ma anche beato, del resto lo testimonia pure la circostanza che ancor’oggi in alcuni paesi (per esempio il Tirolo cattolico o certe zone della Francia) per la sua festa liturgica (il 6 dicembre) San Nicola percorra le strade di città e villaggi vestito dei paramenti sacri, con mitra e pastorale, donando dolciumi ai bambini, esattamente come il suo demonizzato alter ego Babbo Natale.

Non solo: le vesti rosse e bordate di pelliccia, nonché la barba e il cappuccio del noto personaggio natalizio non sarebbero altro che la diretta discendenza del piviale purpureo, della mitra e della fluente canizie dell’originale, l’antico presule turco.

Altro trasparente indizio del cristianesimo (anzi: cattolicesimo) di Santa Claus viene per paradosso dalla trasformazione che della sua diffusissima figura fecero per un verso i protestanti e per l'altro, l'accostamento non ha alcuna malizia, i comunisti.

I primi subito dopo la Riforma, e in opposizione al culto dei santi, soppressero la devozione natalizia di San Nicola e tentarono di sostituirlo con figure più «laiche»: per esempio, in Germania il Weihnachtsmann ("l'uomo della Notte Santa”); in Finlandia il capo degli elfi dei boschi, Joulupukin; in Norvegia Julenissen.

Anzi, a ben vedere, fu proprio Martin Lutero nel 1535 a far spostare la consuetudine dei doni familiari dal 6 al 25 dicembre, da San Nicola a Gesù Bambino. Quest’ultimo, inteso come «portatore di doni», è dunque forse più "protestante" del povero Santa Claus.

Comunque non dappertutto si smarrì la memoria del santo vescovo Nicola, che proprio allora cominciò a camuffarsi anche nel nome per rendere meno trasparenti le sue reali origine religiose.

Accadde anche nell'Urss dopo la Rivoluzione d'ottobre. Coerentemente con la loro ideologia, i bolscevichi si adoperarono infatti per scalzare la fortissima devozione degli ortodossi per San Nicola contrapponendogli il pagano Nonno Gelo: un vecchietto vestito d'azzurro ripescato da un'antica leggenda e senza alcun richiamo religioso.

Purtroppo nel frattempo Santa Claus era emigrato in America e là nel secolo scorso aveva acquistato le renne volanti, la slitta magica e soprattutto le note prerogative commerciali e consumistiche (non bisogna dimenticare che il rosso personaggio è stato il testimonial privilegiato della Coca Cola).

Di lì, appesantito da tanto fardello, nel secondo dopoguerra il Vescovo, ormai secolarizzato, è tornato a colonizzare 1’Europa. Ma ormai i cristiani non lo riconoscevano più e lo hanno abbandonato al folklore interessato dei grandi magazzini.

Tuttavia qualcosa delle sue radici cristiane potrebbe essere rimasto impigliato in quella barba tradizionalmente tempestata di ghiaccioli o nei risvolti del cappuccio.

La stessa idea del dono natalizio, per esempio, sarebbe teologicamente corretta e profondamente evangelica. Non solo per il precedente dell’oro, incenso e mirra presentati a Betlemme dai Re Magi, ma anche perché a Natale il mondo riceve da Dio il "regalo" inestimabile di suo Figlio.

Insomma, come non è affatto vero che la tradizione dell’albero di Natale sia di origine «pagana" (perché invece discende dalle sacre rappresentazioni medioevali in cui alla pianta del peccato originale veniva contrapposto l’albero salvifico della Croce), potrebbe darsi che, invece di demonizzarlo, contrapponendolo tout court all’”ortodossia” di Gesù Bambino, sia più utile strappare a Santa Claus la maschera del consumismo per cercare dì recuperarne il nucleo cristiano.

Imparare a leggere: “Il metodo globale è un equivoco biologico e pedagogico”

FONTE: LE FIGARO

AUTORE: Caroline Beyer

DATA: 20 novembre 2022

"Quando il bambino impara a leggere, deve applicarsi a collegare con precisione la forma delle lettere con i suoni della lingua orale", sottolinea Olivier Houdé. @ANNE VAN DER STEGEN/avds.be

INTERVISTA - Per il neuroscienziato Olivier Houdé, questo metodo di lettura (il globale) porta a "confusione, analogie fuorvianti e approssimazioni".

Olivier Houdé è Direttore Onorario del Laboratorio di Psicologia dello Sviluppo e dell'Educazione del Bambino (LaPsyDÉ) del CNRS alla Sorbona. Il neuroscienziato, membro dell'Accademia di scienze morali e politiche, spiega che il metodo di lettura globale o misto induce “confusioni, analogie fuorvianti e approssimazioni”.

Cosa succede nel cervello di un bambino quando impara a leggere?

Durante l'apprendimento della lettura e della scrittura, intorno ai 6 o 7 anni, il tasso di formazione delle sinapsi (contatti chimici tra i neuroni) è di circa 10 milioni al secondo! È un potenziale straordinario e abbondante. Ma devi incanalarlo. Il cervello ha bisogno di precisione. Quando il bambino impara a leggere, deve applicarsi a collegare con precisione la forma delle lettere (grafemi) con i suoni della lingua parlata (fonemi). Questo si chiama corrispondenze grafo-fonologiche, specifiche per ogni lingua. Si svolgono nelle regioni occipito-temporali...

Questo articolo è riservato agli abbonati a “LE FIGARO”. Ti resta l'84% da scoprire.

Io non sono abbonato a “LE FIGARO”. Lo leggo su internet, oltre ad altri quotidiani mondiali, alcune volte alla settimana, ed ho trovato l’articolo sopra riportato (in parte).

Ho sempre saputo quanto scritto nell’articolo. Io infatti per insegnare ai bambini di prima elementare a leggere e scrivere non ho mai usato il metodo globale, come fanno quasi tutte le docenti in Italia, ma quello analitico, dei singoli passi progressivi. E sicuramente i miei alunni se lo ricordano: lettere, sillabe, parole, frasi, …

Ho usato lo stesso metodo anche alla scuola pubblica, senza farmi intimidire, con gli stessi risultati.

Allarme dei pediatri: troppo tempo sui social favorisce la depressione negli under 18

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Alessandro Vinci

DATA: 22 novembre 2022

È quanto emerge da una revisione della letteratura scientifica condotta dalla Società Italiana di Pediatria. Tra i problemi più segnalati dai 68 lavori presi in esame anche cyberbullismo e disturbi alimentari

Più tempo i ragazzi trascorrono sui social network, più alto è il rischio che sviluppino sintomi depressivi. Questa la conclusione a cui è giunta una nuova revisione della letteratura scientifica condotta dalla Società Italiana di Pediatria (Sip) e pubblicata sull’International Journal of environmental research of pubblic health. Basato sull’analisi di 68 ricerche condotte sul tema dal 2004 al 2022, il lavoro ha infatti riscontrato in 19 di esse – il 27% del totale – una «associazione significativa» tra depressione under 18 e uso di piattaforme come Facebook, Instagram, TikTok e consimili.

 

Mancanza di interazioni sociali

«Non è ancora chiaro se l’uso dei social porti a una maggiore depressione o se questi sintomi depressivi inducano le persone a cercare di più i social media – ha precisato in una nota ufficiale il consigliere nazionale Sip Rino Agostiniani –. Quello che però emerge in maniera inequivocabile è che più tempo bambini e adolescenti passano sui dispositivi digitali, più alti livelli di depressione vengono segnalati. E ciò avviene senza grandi distinzioni geografiche: dalla Svezia all’Egitto». Quali i fattori alla base di un simile fenomeno? Anzitutto la mancanza di interazioni sociali nel mondo reale: «La depressione – ha illustrato sul punto la consigliera nazionale Elena Bozzola – è collegata a un rapido aumento della comunicazione digitale e degli spazi virtuali che sostituiscono il contatto faccia a faccia con uso eccessivo dello smartphone e delle chat online». Da qui il senso di solitudine troppo spesso avvertito da bambini e adolescenti – specie ai tempi del Covid-19 –, che rischia peraltro di essere amplificato dai futuri sviluppi del Metaverso.

 

Allarme disturbi alimentari

Tra i problemi emersi più di frequente dalla revisione curata dalla Sip, anche l’influenza dei social sui disturbi dell’alimentazione. Da un lato è infatti emerso che sul web i bambini «sono esposti alla commercializzazione di cibi malsani, che inducono a comportamenti non salutari» (e «le piattaforme di social media si sono dimostrate inefficaci nel proteggerli dal marketing di cibo spazzatura»), dall’altro che «i social sono un fattore di rischio per i messaggi pro-anoressia». Anche in questo caso, temi diventati più che mai d’attualità durante l’emergenza pandemica.

Il sonno insufficiente negli adolescenti è associato a sovrappeso e obesità

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Silvia Turin

DATA: 22 agosto 2022

Nuovo studio su ragazzi spagnoli. Sovrappeso e obesità più probabili del 72% a 14 anni nel confronto tra chi dorme meno di 7 ore e più di 8 ore. Resta da capire il ruolo delle tecnologie

Gli adolescenti dormono troppo poco e questo comporta per loro un rischio aumentato di essere obesi o sovrappeso, con tutto il carico di future malattie che potranno insorgere legate al peso corporeo eccessivo.

 

Lo studio

Lo ha mostrato uno studio del Centro nazionale spagnolo per la ricerca cardiovascolare (CNIC) di Madrid, presentato al «Congresso della Società Europea di Cardiologia 2022» in corso a Barcellona. Sono stati presi in esame 1.229 adolescenti con un’età media di 12 anni e un numero uguale di ragazzi e ragazze. Il sonno è stato misurato per sette giorni con un tracker all’età di 12, 14 e 16 anni. I partecipanti sono stati classificati come «dormienti molto brevi» (meno di 7 ore), «dormienti brevi» (da 7 a 8 ore) e «ottimali» (8 ore o più). Sovrappeso e obesità sono stati determinati in base all’indice di massa corporea. I ricercatori hanno calcolato anche un punteggio per il rischio di «sindrome metabolica» che andava da valori negativi (più sani) a valori positivi (più malsani), che includevano la circonferenza della vita, la pressione sanguigna e i livelli di glucosio nel sangue e lipidi.

 

Associazioni tra peso e igiene del sonno

È risultato che a 12 anni solo il 34% dei partecipanti dormiva almeno 8 ore a notte, valore sceso al 23% e al 19% rispettivamente a 14 e 16 anni. Le associazioni tra durata del sonno, sovrappeso/obesità e punteggio della sindrome metabolica sono state analizzate dopo aver escluso variabili come l’educazione dei genitori, lo stato di migrante, l’attività fisica (da moderata a vigorosa), lo stato di fumatore, l’assunzione di calorie, il luogo di residenza e la scuola.
Nei dormienti molto brevi sovrappeso e obesità erano più probabili il 21% a 12 anni e il 72% a 14 anni rispetto al gruppo di chi dormiva dalle 8 ore in poi. Ugualmente i dormienti brevi avevano il 19% e il 29% in più di probabilità di essere sovrappeso/obesi rispetto ai dormienti ottimali rispettivamente a 12 e 14 anni. Anche i punteggi medi della sindrome metabolica erano più alti in questi due gruppi rispetto ai dormienti ottimali.

 

Le cause della mancanza di ore di sonno

«Il nostro studio mostra che la maggior parte degli adolescenti non dorme abbastanza e questo è collegato all’eccesso di peso e alle caratteristiche che promuovono l’aumento di peso, potenzialmente predisponendoli a problemi futuri», ha affermato l’autore principale Jesús Martínez Gómez, ricercatore del Centro nazionale spagnolo per la ricerca cardiovascolare (CNIC) di Madrid. «Le connessioni tra sonno insufficiente e salute cattiva erano indipendenti dall’assunzione di calorie e dai livelli di attività fisica, il che indica che il sonno stesso è importante. Attualmente stiamo studiando se le cattive abitudini del sonno siano correlate al tempo passato davanti allo schermo», ha concluso Gómez.

Smartphone e social ai figli, i capi del web li vietano

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Milena Gabanelli e Francesco Tortora

DATA: 22 giugno 2022

Le linee guida dell’Oms sono chiare. Per i bambini da zero a due anni vale il divieto assoluto di essere piazzati davanti a uno schermo, dai due ai quattro anni non si deve mai stare per più di un’ora al giorno a guardare passivamente schermi televisivi o di altro genere, come cellulari e tablet. Dai 6 ai 10 anni la soglia critica si ferma a 2 ore. L’Oms spiega che il tempo trascorso davanti allo schermo può danneggiare i bambini e indica correlazioni con sovrappeso, obesità, problemi di sviluppo motorio e cognitivo e di salute psico-sociale. Inoltre l’eccessiva esposizione ai dispositivi rischia di ledere la capacità di esprimere emozioni e comunicare efficacemente.

Il digital divide si è capovolto

Fino a poco più di un decennio fa il digital divide separava gli adolescenti delle famiglie agiate che avevano la possibilità di collegarsi a Internet e scoprire il mondo digitale dai coetanei privi di un adeguato accesso alla Rete. Oggi, con il veloce sviluppo della tecnologia, accelerato dalla pandemia, si è creata una realtà opposta. Lo studio più completo lo hanno fatto gli americani su loro stessi. Nel 2011 solo il 23% degli adolescenti americani possedeva uno smartphone, oggi la percentuale è del 95%Secondo una ricerca dell’associazione non profit «Common Sense Media» gli adolescenti di famiglie a basso reddito trascorrono in media 8 ore e 7 minuti al giorno davanti a uno schermo per intrattenimento, mentre i coetanei con reddito più elevato si fermano a 5 ore e 42 minuti. Il problema è l’onnipresenza dei dispositivi (il 45% dei teenager Usa è consapevole di essere dipendente dallo smartphone). Chi in assoluto tiene lontano i propri figli dall’iperstimolo tecnologico e dalla dipendenza dai social sono proprio i creatori di questi dispositivi: i manager della Silicon Valley scelgono per i loro eredi un’educazione mirata che limita radicalmente l’uso dei device.

Cosa succede nella Silicon Valley

Steve Jobs, il fondatore di Apple, non permetteva alle figlie adolescenti di usare iPhone e iPadBill Gates, fondatore di Microsoft e quarto uomo più ricco del mondo, non ha dato ai figli il cellulare prima dei 14 anni e ha imposto regole ferree come il «coprifuoco digitale» (a letto senza schermi) dopo essersi accorto che la maggiore, Jennifer Katharine, usava troppo i videogiochi. Anche Sundar Pichai, amministratore delegato di Alphabet e Google, ha vietato lo smartphone ai due figli fino ai 14 anni e ha limitato a poche ore al giorno la visione della tv. Satya Nadella, amministratore delegato di Microsoft, monitora attentamente i siti web visitati dai figli facendosi mandare rapporti settimanali sul loro uso. Stessa strategia di Chris Anderson, ex editore di Wired e amministratore delegato di 3D Robotics, che ha educato i figli imponendo limiti di tempo e controlli su ogni dispositivo elettronico presente in casa, oltre a bandire gli schermi dalla camera da letto fino a 16 anni. Evan Williams, co-fondatore di Twitter, Blogger e Medium, ai figli adolescenti ha sempre preferito comprare libri anziché gadget tecnologici mentre Tim Cook, amministratore delegato di Apple, ha proibito al nipote i social networkSusan Wojcicki, Ceo di YouTube, ha autorizzato lo smartphone solo quando i suoi 5 figli hanno cominciato a uscire da soli e ha deciso di sequestrare tutti i device durante le vacanze per aiutarli a «concentrarsi sul presente». Infine Evan Spiegel, co-fondatore e amministratore delegato di Snapchat, con la moglie Miranda Kerr ha permesso al figliastro Flynn di trascorrere al massimo un’ora e mezzo alla settimana davanti agli schermi.

Le scuole senza tecnologia

I pionieri del web, come tanti altri manager della Silicon Valley, non si limitano a vietare i dispositivi tecnologici in casa, ma scelgono asili e scuole tutt’altro che hi-tech. Gli istituti pubblici americani che ospitano i figli delle classi medie e più povere diventano sempre più digitalizzati (ciò si è rivelato particolarmente positivo negli anni del Covid perché ha permesso a tutti gli alunni, anche quelli più svantaggiati, di seguire le lezioni da remoto). Ma mentre Google Apple cercano di piazzare i loro software nelle scuole pubbliche per offrire ai piccoli «le competenze del futuro», nella Silicon Valley e in altre aree abitate da dirigenti del settore tecnologico sono sempre più popolari le «Waldorf Schools» che promuovono l’approccio educativo sviluppato a partire dal 1919 da Rudolf Steiner: apprendimento attraverso attività ricreative e pratiche. A Los Altos c’è la Waldorf School of the Peninsula, con circa 320 studenti dall’asilo nido alla scuola superiore (2/3 hanno genitori che lavorano per i giganti del web): per i più piccoli soprattutto giocattoli di legno e interazioni all’aria aperta.

Si tratta di uno dei 270 istituti steineriani negli Stati Uniti52 solo in CaliforniaIn Italia ce ne sono 97 (65 scuole dell’infanzia, 30 scuole del primo ciclo e 2 scuole superiori, con 4 mila alunni e 500 insegnanti). Nel mondo sono oltre 3.100 con circa un milione di alunni e un aumento del 500% di iscrizioni negli ultimi 20 anni.

Secondo i sostenitori di questo metodo pedagogico, che insegna le frazioni tagliando la frutta in parti uguali, i computer inibiscono il pensiero creativo dei bambini e riducono i tempi di attenzione

A Los Altos solo a partire dalla terza media è previsto l’uso limitato di gadget tecnologici. I costi delle iscrizioni sono alti (si va dai 23 mila dollari dell’asilo ai 45 mila del liceo), ma nonostante l’assenza di lavagne interattive e di aule cablate a detta della scuola la preparazione è garantita: il 95% dei ragazzi che si diplomano nell’istituto - spiega il sito ufficiale - sono riusciti a entrare nelle più prestigiose università americane e a laurearsi in modo eccellente. Per chi non può permettersi queste rette restano scuole e asili pubblici che hanno scelto, in maggioranza, aule cablate e device. Nella vicina Menlo Park dove ha sede il quartier generale di Meta, la pubblica Hillview Middle School propone il programma iPad 1:1 ovvero per ogni alunno un iPad su cui studiare. La rete di scuole materne esclusivamente online «Waterford UPSTART» è presente in più di 15 Stati e serve oltre 300 mila bambini all’anno.

Proibiti gli smartphone alle babysitter

Gli adolescenti e i pre-adolescenti americani (8-12 anni) di famiglie a basso reddito, non potendosi permettere doposcuola e corsi extra-scolastici, restano almeno due ore in più davanti agli schermi rispetto ai benestanti. Noorena Hertz ne «Il secolo della solitudine», spiega che i genitori della Silicon Valley arrivano a includere nei contratti una clausola che vieta alle babysitter di utilizzare, per qualsiasi scopo, smartphone, tablet, computer e tv davanti ai bambini. «Mentre i più ricchi - scrive Hertz - possono pagare perché i loro figli conducano vite con un ridotto uso di schermi, assumendo tutor umani invece di metterli davanti a un tablet, per la stragrande maggioranza delle famiglie questa non è un’opzione praticabile». Le tate della Silicon Valley che spesso lavorano per il colosso online «UrbanSitter» accettano la sfida e ispirandosi al passato propongono ai bambini giochi da tavolo e attività fisica.

I social e il nuovo corso del Congresso

I magnati della Silicon Valley conoscono bene i danni che possono provocare in tenera età i gadget tecnologici dal «design persuasivo» sviluppati con la collaborazione di psicologi infantili. Adesso a correre ai ripari potrebbe essere il Congresso Usa. Nel settembre 2021 l’ex product manager Frances Haugen ha presentato alla sottocommissione del Senato sulla protezione dei consumatori migliaia di documenti riservati di Facebook (non si chiamava ancora «Meta»), poi pubblicati dal Wall Street Journal, che dimostravano come la società fosse consapevole dei disagi psicologici e della dipendenza provocati dal social network negli utenti più giovani. Nell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione Joe Biden ha promesso una norma per salvaguardare i bambini dai pericoli online e il Congresso è pronto a chiedere alle piattaforme di cambiare modello di business. Per ora Meta ha bloccato «Instagram Kids», versione del social per under 13. Da febbraio è fermo in Senato il «Kids Online Safety act» un progetto di legge bipartisan sulla protezione dei bambini che vieta alle piattaforme web di raccogliere dati da utenti che hanno meno di 16 anni: per mesi la sottocommissione sulla protezione dei consumatori ha raccolto prove sulla profilazione dei minori da parte dei social a fini pubblicitari. C’è anche questo sfruttamento nei 115 miliardi di dollari guadagnati da Facebook nel 2021, e nei 28,8 miliardi portati a casa da YouTube.

La tecnologia è neutra

Come gli Stati Uniti, anche l’Italia punta sullo sviluppo digitale della scuola pubblica. Già ora gli studenti di primarie e secondarie utilizzano dispositivi elettronici in classe e a casa (circa l’88% dei bambini e ragazzi tra i 9 e i 16 anni). Il Pnrr prevede un investimento complessivo nell’istruzione di 17,5 miliardi, di cui 2,1 miliardi per realizzare la transizione digitale e dotare gli istituti degli strumenti più innovativi in modo da «trasformare le aule in ambienti di apprendimento connessi e digitali».

La questione chiaramente non è la tecnologia digitale in sé, che è sempre più parte integrante della nostra vita, e contribuirà a migliorarla, ma come educare i bambini all’utilizzo dei dispositivi senza diventarne dipendenti

Anche su questo terreno la distanza fra ricchi e poveri si sta allargando: i primi più stimolati a sviluppare memoriaconcentrazioneempatia capacità comunicativa, i secondi assorbiti nel mondo solitario del virtuale e con sempre maggiore difficoltà a relazionarsi.

 

Tocca ai docenti creare un buon rapporto con le famiglie

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 16 maggio 2022

Il patto educativo: cari professori, tocca a noi creare un buon rapporto con le famiglie

di Pietro Bordo, maestro elementare

Con rispetto e comprensione si risolvono anche le situazioni più complicate. Ma ci vuole la collaborazione di tutti. E negli ultimi anni la situazione è migliorata

A proposito della discussione sui rapporti tra genitori e studenti e sulla fine di fatto del patto educativo nelle scuole, per me, rispetto agli anni ’80, quando ho iniziato ad insegnare, sono migliorati. In quegli anni genitori e docente (c’era il docente unico alle elementari) comunicavano pochissimo, solo in occasioni particolari o straordinarie. Con alcuni genitori dei miei alunni non ho mai parlato! Oggi per il team della classe sono periodicamente previsti incontri con i genitori di ogni bambino ed incontri in assemblea con tutti i genitori della classe. Nei colloqui individuali si parla ovviamente di ciò che riguarda il singolo alunno, anche se non di alcuni argomenti importanti della sua vita; nelle assemblee della vita della classe, in generale. E soprattutto in quest’ultime spesso arrivano contributi positivi da parte dei genitori.

Il ruolo del prof

Un docente per avere un buon rapporto con i genitori, conditio sine qua non per svolgere un lavoro veramente efficace, è fondamentale che abbia chiari alcuni concetti. Ciò che i genitori pensano del docente dipende da come lui si comporta in classe con il proprio figlio e da come lui si rapporta con i genitori nei colloqui individuali ed in assemblea. Se il bambino capisce che fra lui ed il docente c’è una relazione significativa, per la quale egli è accolto, accettato, amato (sì!) a prescindere dai risultati, il bambino riferirà positivamente a casa e soprattutto sarà stimolato ad impegnarsi sempre di più in tutte le attività scolastiche. Ed accetterà anche rimproveri e voti non belli, se è reso consapevole che sicuramente migliorerà in tutto. Se i genitori nei rapporti con i docenti vedono rispetto e comprensione, ed il docente non si mostra saccente ed arrogante, difficilmente si contrappongono ed accettano, nella mia esperienza è così, ciò che viene loro detto e proposto. E se sorgono dei problemi è fondamentale che il docente resti calmo e sereno, ricordando che lui è un professionista della formazione ed i genitori no. Inoltre loro stanno parlando del loro figlio, di ciò che hanno di più prezioso, quindi hanno un coinvolgimento emotivo enorme e meritano comprensione e rispetto, anche se sbagliassero. Ovviamente in caso di posizioni inconciliabili (generalmente sulle valutazioni singole o quadrimestrali) il docente deve spiegare bene che tutto è stato fatto nell’interesse del bambino. E successivamente, nella mia esperienza decennale è così, i genitori capiscono.

Il riconoscimento

In un caso mi è successo che mi sia stata riconosciuta la giustezza del mio operato parecchi anni dopo. La situazione si può complicare, una sola volta mi è capitato, in oltre quarant’anni, se i genitori in disaccordo con il docente si rivolgono alla preside e questa non è equilibrata e getta benzina sul fuoco. Dopo, ricucire i rapporti richiede tempo e fatica. Ma ci sono riuscito. Seguendo i criteri sopra esposti, posso affermare senza tema di smentita che ho sempre avuto rapporti ottimi con tutte le famiglie. Anche se in qualche rarissimo caso ho dovuto faticare all’inizio per conquistarlo, consapevole che senza questa situazione il docente non può fare il massimo per aiutare il bambino. Anzi, può fare poco. Posso aggiungere che quasi tutte le colleghe dei miei team hanno condiviso quanto sopra detto, poiché ne abbiamo parlato molto ad ogni inizio di anno scolastico dandoci vicendevolmente dei consigli e studiando come rapportarci con genitori particolarmente difficili già conosciuti. Ovviamente nonostante tutto sono capitati alcuni momenti e situazioni di non facile gestione; ma tutti risolti. Il fatto che qualsiasi genitore dei miei ex alunni incontri, anche dopo qualche decina di anni, mi saluti con atteggiamento molto cordiale ed affettuoso è la prova che quanto scritto sopra non sono solo parole. Concludo: se il docente si impegna al massimo riesce a realizzare ed attuare un patto educativo con i genitori, nel reciproco rispetto e riconoscimento dei ruoli; e ciò dà grandi benefici alla crescita umana e culturale del bambino.

Figli sconosciuti per molti genitori: come evitarlo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 25 febbraio 2022

I consigli di Pietro Bordo ai genitori che «non riescono più a gestire i propri figli». Non comprate la loro gratitudine, ascoltateli, già quando sono piccoli.

Sempre più frequentemente si sentono papà e mamme dire “Non li gestiamo più”. Infatti dall’adolescenza in poi tanti genitori non riescono più a gestire, controllare i propri figli. Tale situazione è la drammatica conseguenza di comportamenti inadeguati da loro tenuti, con la colpevole complicità della scuola, nella fascia d’età della scuola elementare e media. Certi comportamenti negativi dei ragazzi dipendono soprattutto dalla cultura dell’impunità, che si sviluppa in tenera età in famiglia e nella società, soprattutto a scuola. La scuola in passato educava come oggi ai valori positivi comuni, ma senza il buonismo e la tolleranza eccessivi attuali, che consentono a tanti bambini di fare tutto senza praticamente averne conseguenze significative.

Ciò che più produce danni nei ragazzi e nei docenti è l’acquisizione della consapevolezza della quasi impunità, qualunque sia il loro comportamento, poiché pochi se ne occupano sul serio, anche perché non hanno strumenti per farlo. E tanti “9” e “10”, praticamente a tutti, consentono a genitori, che hanno tanto da fare e sono distratti, ed agli insegnanti, che poco vogliono fare, o non vogliono problemi con i genitori, di vivere felici e tranquilli. La causa principale per la quale chi abdica al proprio ruolo non riesce più a gestire i ragazzi sta nel fatto che genitori (e anche insegnanti) non conoscono più, o non hanno mai fatto lo sforzo di conoscere, i propri figli, o alunni, di osservarli e di dialogare con loro. Un fattore diseducativo molto importante è l’abitudine di tanti genitori di superare il senso di colpa derivante dalla consapevolezza di stare poco con i figli “comprando” la loro gratitudine, abituandoli quindi ad avere subito, a prescindere dall’averli meritati, tanti oggetti materiali, spesso costosi ed inutili.

Molti genitori stanno poco con i figli. Peccato che il tempo che loro non danno ai propri figli è ciò che essi più desiderano. I bambini crescendo, a volte soprattutto o soltanto fisicamente, potranno sempre avere tutto? Penso appaia evidente l’importantissimo, direi vitale, ruolo dei genitori e dei docenti, che dovrebbero insieme collaborare, con sicuro effetto sinergico, per educare ed istruire i bambini.

Per provare ad ovviare ai problemi sopra esposti un piccolo consiglio che, lo so per esperienza riferitami da tanti genitori dei miei ex-alunni, ha quasi sempre funzionato. Anche il papà o la mamma più impegnati possono trovare dieci minuti, possibilmente ogni giorno, o anche a giorni alterni, da dedicare ad un colloquio individuale, a quattr’occhi, col figlio. Durante questo colloquio il genitore ed il bambino si raccontano vicendevolmente, ad esempio, il fatto più bello e meno bello della giornata trascorsa; ed altro. Se ciò accade quando il bambino è piccolo, l’ideale è iniziare dai sei anni, egli si abitua a questo rapporto e quando, dall’adolescenza, il mondo esterno gli offrirà opportunità rischiose o “strane” c’è la concreta possibilità che prima di compiere una scelta pericolosa possa chiedere un parere al genitore, in quei dieci minuti. Credete, le mie parole non sono teoria ma la descrizione di quanto accaduto in tanti casi, quando il genitore ha pensato al futuro del figlio. Inoltre, me lo hanno detto tanti genitori, quei dieci minuti sono uno dei momenti più belli di qualsiasi giornata.