Ritratto del buon docente: Basilio Ioppolo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Massimo Gramellini

DATA: 7 dicembre 2024

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Basilio Ioppolo, professore

Se entri in classe e sorridi, anche quando non ne hai voglia. Se sai essere severo, quando è necessario, e magnanimo quando se lo meritano, come quella volta che uno di loro azzeccò la coniugazione di un verbo greco e tu gli facesti un applauso. Se ti sforzi di capire il loro punto di vista e, quando pensi che abbiano ragione, li incoraggi a farla valere. Se non ti offendi alle loro battute, ma replichi con un’altra battuta. Se, quando li vedi stanchi, chiudi i tuoi amatissimi libri e racconti un aneddoto. Se provi ad aggiustare la bici di uno studente e non ci riesci, e ci riprovi. Se cerchi di proteggerli dai fallimenti, ma permetti loro di sbagliare. Se trasmetti passione per le materie che insegni, riuscendo a essere di stimolo e di conforto. Se butti le braccia al collo dei più fragili e chiedi loro «Come va la vita?» anche se la tua, di vita, sta andando a sbattere contro un verdetto intollerabile: ad appena 39 anni, trascorsi tra Capo d’Orlando e Milano, dove insegni al liceo Beccaria.

Se tu fossi solo la metà delle cose che i tuoi ragazzi hanno scritto di te, saresti l’adulto che tutti dovremmo essere e l’insegnante che tutti avremmo voluto avere. Puoi anche andartene all’improvviso e lasciare un vuoto devastante: diventi comunque immortale. Perché poi succede che studenti e colleghi facciano una colletta per realizzare un’aula dedicata allo studio e al relax che porterà per sempre il tuo nome e il senso della tua breve missione su questo pianeta: Basilio Ioppolo, professore.

Allarme da Oxford: anche lì i ragazzi non leggono più. Causa: programmi scolastici semplificati e uso smartphone

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Luigi Ippolito

DATA:  9 ottobre 2024

In una delle università più prestigiose e con studenti rigidamente selezionati fra i più bravi d’Inghilterra e del mondo c'è il problema dell'incapacità dei giovani di concentrarsi sui libri. La diminuita capacità di lettura è dovuta a una minore durata dell’attenzione, conseguenza a sua volta all’uso degli smartphone

 

L’allarme per il decadimento della lettura fra i giovani è arrivato perfino nella città delle guglie sognanti, Oxford: il professore Sir Jonathan Bale, che lì insegna letteratura inglese, ha lamentato alla Bbc che una volta era in grado di dire ai suoi studenti «questa settimana facciamo Dickens, leggete per favore Grandi Speranze, David Copperfield e La Casa Desolata», tutti in una volta, mentre oggi, invece di tre romanzi in una settimana, i ragazzi a stento riescono a finirne uno in tre settimane. Il professor Bale attribuisce questa diminuita capacità di lettura a una minore durata dell’attenzione, dovuta a sua volta all’uso degli smartphone, con i loro «video di sei minuti su Youtube e le iniezioni istantanee di dopamina su TikTok».

È una tesi che è stata ampiamente sostenuta nell’ormai bestseller di Jonathan Haidt «La generazione ansiosa», ma quello che colpisce è che gli effetti si vedano anche in quel tempio del sapere che è Oxford, università frequentata da giovani rigidamente selezionati fra i più bravi d’Inghilterra e del mondo. E non è un fenomeno solo britannico: un recente articolo sulla rivista The Atlantic ha denunciato come i ragazzi americani arrivino all’università incapaci di leggere perché non sanno più come farlo, dato che a scuola lavorano ormai soprattutto su riassunti. E anche il professor Bale addossa in parte la colpa ai programmi scolastici semplificati, che vedono ad esempio in Inghilterra preferire come testo canonico «Uomini e topi» di Steinbeck invece di «Furore», perché è più corto.

Ma le conseguenze di tutto ciò vanno ben al di là della letteratura: come sintetizza magistralmente sempre il professor Bale, «l’intensa, pensosa, tranquilla lettura dei grandi libri fa bene alla salute mentale e fa molto bene allo sviluppo delle capacità di concentrazione e di pensiero critico: e se tutto ciò viene meno, diventa problematico per la società e per gli individui». Un monito che vale per tutti.

9 ottobre 2024

Ocse-Piaac: i laureati italiani sanno meno dei diplomati finlandesi. Un adulto su 3 comprende solo testi brevi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Gianna Fregonara e Orsola Riva

DATA: 10 dicembre 2024

Ennesima doccia fredda, ennesima tempesta in un bicchiere: dall'Invalsi alla rilevazione Ocse-Pisa, non c'è indagine nazionale o internazionale sulle competenze di base da cui non usciamo con le ossa rotte. Segue, in genere, qualche giorno di pianto greco e poi più nulla. Sarà così anche questa volta?

La notizia è questa: un adulto su tre in Italia - e non parliamo solo degli studenti, ma di tutta la popolazione adulta dai 16 ai 65 anni - dispone di capacità linguistiche o matematiche scarse o molto scarse, comunque insufficienti. Può comprendere al massimo testi brevi, dai quali non sia troppo impervio estrarre le necessarie informazioni, ed è in grado di compiere solo operazioni semplici, con numeri interi o decimali, ma già davanti a una proporzione arranca. Per non dire del problem solving, la capacità logica di risolvere questioni complesse: quasi la metà degli adulti è insufficiente. Certo, in generale, c'è chi va peggio di noi - come il Portogallo - ma tutti gli altri vanno meglio (Spagna, Francia e, fuori dall'Europa, gli Stati Uniti) o molto meglio di noi (Germania  e tutto il Nord Europa). Non solo abbiamo pochi laureati ma quei pochi che abbiamo ottengono un punteggio medio inferiore ai finlandesi che si sono fermati alla maturità. Le capacità acquisite a scuola in Italia invecchiano in fretta, più in fretta che negli altri Paesi e i percorsi di formazione continua (il cosiddetto lifelong learning) non è ancora diventato una realtà. Tutto questo restringe le opportunità lavorative dei singoli e rallenta il progresso della società nel suo insieme.

 

La rilevazione Piaac

Sono questi solo alcuni dei dati della nuova rilevazione Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell'Ocse che misura lo stato della popolazione adulta nei Paesi di tutto il mondo. Rispetto alla scorsa edizione i risultati sono lievemente peggiorati, con un aumento del 7 per cento (dal 28 al 35) di coloro che non arrivano al livello sufficiente.  Raggiungere e mantenere un buon livello di compentenze nel leggere, scrivere e far di conto non aiuta soltanto a trovare lavoro (92 per cento di occupazione contro il 60 per cento di chi ha un livello insufficiente) e a guadagnare meglio (oltre 12 euro all'ora di differenza media), ma si traduce anche in un maggior benessere, in una condizione di miglior integrazione nella società e nell’economia del proprio Paese: possedere le adeguate competenze in «literacy», «numeracy» e «problem solving» (sono queste le tre competenze indagate dall'indagine Piaac) è la condizione indispensabile per poter partecipare ai processi legati all’innovazione senza subirli o peggio: senza restare tagliati fuori.

 

L'allarme

Secondo il Piaac - che si è svolto nel 2022-23 su un campione di popolazione tra i 16 e i 65 anni in 31 Paesi e in Italia in particolare con un campione di 4847 adulti, rappresentativi di circa 37,4 milioni di persone -i risultati del nostro Paese sono al di sotto della media Ocse. Se a questo si aggiunge che quasi un adulto su due (40 per cento) ha un'occupazione che non c'entra niente con quello per cui ha studiato e che il 18 per cento è sotto-qualificato per il lavoro che fa (la media Ocse è 9 per cento) e un altro 15 è troppo qualificato (media Ocse 23 per cento) ce ne è abbastanza per lanciare l'allarme.

I risultati degli adulti nel nostro Paese

Per quanto riguarda la «literacy», cioè la capacità di comprendere un testo, un adulto su tre (il 35%) ha ottenuto un punteggio pari o inferiore al livello 1 - la media Ocse è del 26 per cento - il che significa che «è in grado di comprendere testi brevi ed elenchi organizzati, quando le informazioni sono indicate chiaramente, e può individuare informazioni specifiche e identificare collegamenti rilevanti all'interno di un testo» (livello 1) o che «è in grado di comprendere, al massimo, frasi brevi e semplici» (sotto il livello 1). Se invece consideriamo gli adulti che hanno le competenze adeguate (livello 4 o 5 della scala Ocse), in Italia sono solo il 5 per cento contro una media internazionale del 12 per cento.

 

La matematica

Anche in «numeracy», intesa come la capacità di calcolo, un adulto su tre (il 35%) è «low performer», cioè fermo al livello 1 o anche sotto. La media dei Paesi Ocse è invece del 25 per cento. Queste persone sanno soltanto «fare calcoli di base con numeri interi o con il denaro, comprendere i decimali e identificare ed estrarre singole informazioni da tabelle o grafici, ma possono avere difficoltà con compiti che richiedono più passaggi (es. risolvere una proporzione). Quanti sono al di sotto del livello 1 sono in grado di sommare e sottrarre numeri piccoli». Gli «high performer» (livello 4 e 5) in Italia sono soltanto il 6 per cento, meno della metà della media dei Paesi Ocse che si attesta al 14 per cento.

Il problem solving

Infine nell’ambito del «problem solving» quasi la metà degli italiani è totalmente insufficiente (46 per cento sotto o pari al livello 1 contro una media Ocse del 29 per cento): i risultati sono inferiori anche a quelli del Portogallo. Coloro che si trovano in questa situazione hanno «difficoltà con problemi che presentano più passaggi o che richiedono il monitoraggio di più variabili». Circa l'1% degli adulti invece ha ottenuto un punteggio di livello 4 o 5: un risultato molto inferiore alla media Ocse che è del 5 per cento.

 

Il contesto 

Ma il dato più drammatico è quello che riguarda gli adulti che non ottengono la sufficienza in nessuna di queste tre competenze fondamentali e che, in quanto tali, sono ad alto rischio di esclusione economica e sociale. Da noi sono il 26 per cento (contro il 20 per cento della Francia e il 15 della Germania): un cittadino italiano su quattro. Non solo: mentre in quasi tutti gli altri Paesi la fascia d'età in assoluto più qualificata è quella dei giovani fra i 25 e i 34 anni, da noi il declino delle competenze comincia già dopo i 24 anni e le opportunità di lifelong learning restano ancora pochissime. Anche i titoli di studio premiano meno che altrove: un laureato italiano ottiene in media solo 19 punti in più di un semplice diplomato nella prova di «literacy» (contro una media Ocse di +33 punti) e il diplomato a sua volta ottiene 35 punti in più di chi ha in tasca solo la terza media (contro una media Ocse di +43 punti). In compenso il raddoppio degli stranieri rispetto alla precedente rilevazione ha avuto un impatto relativo: gli immigrati di prima generazione da noi ottengono un punteggio inferiore di 30 punti in «literacy» che si riduce a 13 punti se si confrontano con i cittadini italiani dello stesso livello socioeconomico. In Francia e Germania lo svantaggio è molto più netto: rispettivamente - 58  e -74.  Quanto agli immigrati di seconda generazione e ai nuovi italiani ottengono invece risultati in linea con quelli di chi è nato in Italia da genitori italiani.

10 dicembre 2024 ( modifica il 10 dicembre 2024 | 11:37)© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il cattolico Babbo Natale

FONTI VARIE

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: qualche anno fa

 

 

Chi ha in mente alcune pubblicità natalizie faticherà a credere che Babbo Natale, il povero personaggio polare, era cristiano, anzi era addirittura un vescovo; e gliene è rimasta traccia nel nome scandinavo di Santa Claus (contrazione di Sanctus Nicolaus).

San Nicola, infatti, era presule di Mira (oggi Demre, in Turchia) all’inizio del IV secolo e il suo culto fu popolarissimo per tutto il Medioevo, sia in Oriente che in Occidente.

In mancanza di particolari storici sulla sua vita, furono numerose le leggende che gli attribuivano addirittura la resurrezione di morti e altri miracoli, una turbolenta partecipazione al concilio di Nicea e naturalmente il fatto generoso che fu poi all'origine del suo mito postumo: prima ancora di essere vescovo, il giovane e ricco Nicola una notte avrebbe gettato delle monete d’oro nella casa di tre ragazze, che a causa della loro povertà avevano deciso dì seguire una cattiva strada.

E il gesto cristiano, compiuto furtivamente (secondo i racconti il malloppo fu buttato attraverso la finestra o addirittura giù dal camino), è lo spunto della successiva tradizione dei doni natalizi ai bambini. Già verso la fine del XII secolo a Parigi ogni 6 dicembre uno studente travestito da San Nicola distribuiva doni agli orfani e ai figli dei poveri.

Che Santa Claus sia non solo cristianissimo, ma anche beato, del resto lo testimonia pure la circostanza che ancor’oggi in alcuni paesi (per esempio il Tirolo cattolico o certe zone della Francia) per la sua festa liturgica (il 6 dicembre) San Nicola percorra le strade di città e villaggi vestito dei paramenti sacri, con mitra e pastorale, donando dolciumi ai bambini, esattamente come il suo demonizzato alter ego Babbo Natale.

Non solo: le vesti rosse e bordate di pelliccia, nonché la barba e il cappuccio del noto personaggio natalizio non sarebbero altro che la diretta discendenza del piviale purpureo, della mitra e della fluente canizie dell’originale, l’antico presule turco.

Altro trasparente indizio del cristianesimo (anzi: cattolicesimo) di Santa Claus viene per paradosso dalla trasformazione che della sua diffusissima figura fecero per un verso i protestanti e per l'altro, l'accostamento non ha alcuna malizia, i comunisti.

I primi subito dopo la Riforma, e in opposizione al culto dei santi, soppressero la devozione natalizia di San Nicola e tentarono di sostituirlo con figure più «laiche»: per esempio, in Germania il Weihnachtsmann ("l'uomo della Notte Santa”); in Finlandia il capo degli elfi dei boschi, Joulupukin; in Norvegia Julenissen.

Anzi, a ben vedere, fu proprio Martin Lutero nel 1535 a far spostare la consuetudine dei doni familiari dal 6 al 25 dicembre, da San Nicola a Gesù Bambino. Quest’ultimo, inteso come «portatore di doni», è dunque forse più "protestante" del povero Santa Claus.

Comunque non dappertutto si smarrì la memoria del santo vescovo Nicola, che proprio allora cominciò a camuffarsi anche nel nome per rendere meno trasparenti le sue reali origine religiose.

Accadde anche nell'Urss dopo la Rivoluzione d'ottobre. Coerentemente con la loro ideologia, i bolscevichi si adoperarono infatti per scalzare la fortissima devozione degli ortodossi per San Nicola contrapponendogli il pagano Nonno Gelo: un vecchietto vestito d'azzurro ripescato da un'antica leggenda e senza alcun richiamo religioso.

Purtroppo nel frattempo Santa Claus era emigrato in America e là nel secolo scorso aveva acquistato le renne volanti, la slitta magica e soprattutto le note prerogative commerciali e consumistiche (non bisogna dimenticare che il rosso personaggio è stato il testimonial privilegiato della Coca Cola).

Di lì, appesantito da tanto fardello, nel secondo dopoguerra il Vescovo, ormai secolarizzato, è tornato a colonizzare 1’Europa. Ma ormai i cristiani non lo riconoscevano più e lo hanno abbandonato al folklore interessato dei grandi magazzini.

Tuttavia qualcosa delle sue radici cristiane potrebbe essere rimasto impigliato in quella barba tradizionalmente tempestata di ghiaccioli o nei risvolti del cappuccio.

La stessa idea del dono natalizio, per esempio, sarebbe teologicamente corretta e profondamente evangelica. Non solo per il precedente dell’oro, incenso e mirra presentati a Betlemme dai Re Magi, ma anche perché a Natale il mondo riceve da Dio il "regalo" inestimabile di suo Figlio.

Insomma, come non è affatto vero che la tradizione dell’albero di Natale sia di origine «pagana" (perché invece discende dalle sacre rappresentazioni medioevali in cui alla pianta del peccato originale veniva contrapposto l’albero salvifico della Croce), potrebbe darsi che, invece di demonizzarlo, contrapponendolo tout court all’”ortodossia” di Gesù Bambino, sia più utile strappare a Santa Claus la maschera del consumismo per cercare dì recuperarne il nucleo cristiano.

Umberto Galimberti: «Io, un padre carente. Se per i figli resta tempo solo la sera davanti alla tv, abbiamo sbagliato tutto»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORI: Maria Luisa Agnese e Greta Sclaunich

DATA: 24 marzo 2023

Intervista al filosofo: «Sono favorevole ai telefonini ai ragazzi: se fin da piccoli hai parlato molto con loro, loro continueranno a parlare con te. I nuovi padri? Li vedo abbastanza male, sono caduti nel mito del giovanilismo»

Padri di ieri e padri di oggi, a confronto: ne parla il filosofo Umberto Galimberti, saggista, psicanalista e seguitissimo protagonista di conferenze per l’Italia, che qui riflette sugli errori delle due generazioni, arrivando anche ad ammettere qualche mancanza personale, di non essere stato talvolta un buon padre per sua figlia. «Se devo seguire i miei progetti e dedicarmici tutta la giornata, e quando torno a casa ai miei figli resta solo un po’ di tempo insieme davanti alla tv, allora abbiamo sbagliato tutto»: un rimbrotto che vale per tutti i papà (e le mamme) del passato e del domani. Questo non vuol dire che persino Galimberti sia stato del tutto distratto: anche lui ha cambiato i pannolini, «ho pure pulito il sedere, queste cose qui si fanno naturalmente. Se uno non cambia un pannolino a suo figlio, dove è rimasto?».

Ma cosa è cambiato dalla sua generazione a oggi?
«Prima del ‘68 vivevamo nell’età della disciplina, il messaggio della famiglia coincideva con quello della società: se vuoi raggiungere i tuoi obiettivi lavora e sacrìficati. Dopo il ’68 questa società si è smobilitata per un anelito di libertà: il motto era Vietato vietare! Poi, su questa componente si è inserita l’importazione della cultura americana che richiedeva autoaffermazione e performance spinta. La cultura americana e la cultura del ‘68 sono confluite: le regole possono ammettere tranquillamente le deroghe, però dal lunedì al venerdì tu devi funzionare a livello di performance, competenza, velocizzazione del tempo, il sabato e domenica fai quello che vuoi».

Sclaunich: Questo ha cambiato anche il modo di fare i genitori.
«Prima i genitori erano supportati dalla società e quindi era riconosciuta l’autorità paterna, che era sostanzialmente quella della tradizione. Poi i padri sono diventati amici dei figli, sono caduti nel mito del giovanilismo, hanno ceduto alle loro dimensioni affettive calibrate sulla pura passione per cui quando finisce la passione ci si separa e si divorzia. In pratica la società ha insegnato il principio di piacere (perché la società è diventata opulenta) che si è riverberato anche nell’ambito della famiglia».

«SONO FAVOREVOLE AI TELEFONINI AI RAGAZZI: SE FIN DA PICCOLI HAI PARLATO MOLTO CON LORO, LORO CONTINUERANNO A PARLARE CON TE»

Agnese: Ora non è facile riconquistarsela, l’autorevolezza.
«Le parole dei genitori sono efficaci da zero a 12 anni. Dopo i ragazzi devono andare incontro alla separazione dal mondo genitoriale e passare dall’amore incondizionato da cui sono stati gratificati quando erano bambini, all’amore condizionato che è quello orizzontale con i propri amici. I padri di solito non parlano con i figli: nella società della disciplina incaricavano le madri ma anche dopo hanno continuato a non farlo, perché si annoiano. Le madri invece parlano sì, però sempre a livello fisico: non uscire con i capelli bagnati, mettiti la maglia, stai attento ai semafori. Mai una domanda psicologica, mai che si chieda al figlio: sei felice?».

Agnese: Lei ha fatto mai questa domanda a sua figlia, sei felice?
«Se proprio insiste, glielo dico: no. Mia moglie lavorava in maniera assidua in un laboratorio di biologia molecolare, io mi occupavo di libri perché pensavo che i figli avessero bisogno di una famiglia sana, e che sarebbero cresciuti sani, automaticamente».

Sclaunich: Quindi vale l’esempio.
«L’esempio è quello che deve funzionare dopo i 12 anni, appunto. Dopo quell’età è inutile che i genitori si lamentino perché i figli non parlano: non lo fanno perché prima i genitori gli hanno parlato pochissimo o comunque non abbastanza. E quando i figli parlano, i genitori devono ascoltarli. Ma con l’atteggiamento di chi pensa: forse io ho qualcosa da imparare da te, sono interessato alle competenze che tu hai e che io non ho. Se c’è questa disposizione, i figli ricominciano a parlare».

 

Sclaunich: Un cambio di passo, ascoltarli senza fare gli amiconi.
«I genitori oggi si vedono in quella funzione castrante che è quella di proteggerli all’infinito. Io nella scuola secondaria superiore proporrei l’abolizione della presenza dei genitori: via, radicalmente. Perché i genitori sono interessati alla promozione, non alla formazione dei loro figli. Se non sono promossi ricorrono al Tar, e cosa fanno i professori per non aver rogne? Li promuovono tutti. Evviva. E poi non consentono ai figli di impostare quel rapporto iniziatico per cui già a partire dalla prima e seconda liceo se hanno problemi ne parlino direttamente all’insegnante, non al padre che poi va dall’insegnante. Quando si emancipano questi ragazzi?».

Sclaunich: Come vede i nuovi padri?
«Li vedo abbastanza male, sono ancora peggiorati; da quando è entrata la psichiatria nella scuola sono diventati tutti disgrafici, dislessici, acalculici, asperger, autistici… è una clinica la scuola elementare! Perché i professori vogliono una ricetta per un corso scolastico privilegiato alleggerito, semplificato. Ci saranno anche disgrafici e dislessici ma non in queste proporzioni: quando io andavo alle scuole elementari qualcuno faceva fatica a leggere, si esercitava un po’, poi leggeva».

Agnese: Cos’è cambiato?
«Per leggere, per scrivere, oggi noi siamo passati da un’intelligenza sequenziale, che è quella che serve per leggere e scrivere da sinistra a destra e poi riprendi nelle righe successive, a una intelligenza simultanea che è quella dell’immagine. Quando guardo un quadro non devo passare da sinistra a destra e poi ricominciare da capo. Se io leggo c-a-n-e, cane, il mio cervello di fronte a questo segno grafico deve costruire l’immagine del cane. Se ce l’hai lì davanti l’immagine, il cervello è esonerato, ed è chiaro che poi saltano fuori disgrafici e dislessici».

Agnese: Lei introduce il tema del sacrificio. Già da piccoli bisogna fare fatica?
«Nei miei sillabari, nel 1947, non c’era neanche un’immagine e dovevamo noi costruirla a partire dalla lettura, dai segni grafici».

Agnese: Lei con i ragazzi non usa mai l’analisi o la psichiatria, ma la filosofia. Serve di più: lo sostiene anche nell’ultimo libro, Le grandi domande. Filosofia per giovani menti, scritto con Luca Mori per Feltrinelli.
«Li sollecito con le grandi domande, tipo: perché sono al mondo? Cosa significa pensare? Cosa vuol dire crisi? Dio esiste? Quello che è importante non è che i bambini studino filosofia, ma che imparino a filosofare, a porsi delle domande. Mentre noi viviamo in una cultura che cerca sempre risposte, ricette, diagnosi, per stoppare l’inquietudine della domanda. Nelle mie conferenze non accetto domande, perché le domande tengono viva la mente e le risposte la stoppano».

Sclaunich: Quindi va bene per un genitore non avere tutte le risposte?
«Certo. Ma un genitore deve capire che la domanda del bambino spesso ne nasconde una diversa. Un giorno ho sentito un bambino dire alla sua mamma che, secondo lui, Dio non esiste perché non ha una mamma: lei si è messa a ridere, ma la sua affermazione avrebbe dovuto essere presa sul serio perché il piccolo stava cercando il principio di causalità, e la mamma avrebbe dovuto spiegarglielo».

Agnese: Lei fa tutto questo con i suoi nipotini?
«Nella stessa maniera per cui sono stato carente come padre sarò ancora più carente come nonno. (Ride). Li vedo raramente perché sono sempre in giro a far conferenze. Però mia figlia ha fatto la mamma in una maniera eccezionale: tutto quello che so su come crescere i ragazzi l’ho imparato da lei».

Agnese: Cosa ha imparato da lei?
«Per esempio il fatto che con loro si deve parlare tanto, che bisogna renderli autonomi e curare questa autonomia, gratificandoli quando fanno un passo avanti e cercando di capire insieme perché ne fanno uno indietro. Solo la comunicazione frequente e assidua e l’attenzione li fanno crescere bene. Rispetto al rapporto che ha mia figlia con i miei nipoti mi rendo conto di quanto io sia stato invece carente, con lei ho parlato poco».

Sclaunich: Lei si paragona a sua figlia come se non ci fossero differenze di genere, come se il genitore “bravo” fosse indifferentemente mamma o papà.
«Certamente. Io ai genitori di oggi non do nessun consiglio, tutto dipende dalla relazione genitoriale che c’è tra moglie e marito, moglie e moglie, marito e marito. Se la relazione funziona è già una salvaguardia per il figlio, e perché funzioni è necessario che nessuno dei due consideri il suo partner “mio”. Cosa sono questi aggettivi possessivi? L’altro è, appunto, un altro e più è altro più mi incuriosisce per la novità che rappresenta. Se lo considero “mio” lo incasello in un contesto in cui è significativo solo in quanto risponde a un mio bisogno o necessità. Queste categorie del possesso ci sono in tantissime coppie genitoriali, e poi ci meravigliamo dei femminicidi. Io e mia moglie siamo stati insieme 41 anni e funzionavamo benissimo. Quando si entra nelle famiglie a volte si sente urlare, altre volte c’è quel silenzio, soprattutto nelle classi borghesi elevate, che è più freddo dell’ira. Quel gelo che si crea nella non comunicazione generale, e che i telefonini hanno amplificato: avete presente quelle famiglie al ristorante, ognuno con il suo cellulare in mano e ognuno nel suo mondo?».

 

Sclaunich: Anche qui vale l’esempio. Come facciamo a togliere i cellulari ai nostri figli se noi genitori lo abbiamo sempre in mano?
«Io in questo sono un ottimo esempio: ci sono voluti dieci anni perché ne prendessi uno e anche adesso lo lascio spesso in cucina quando devo lavorare, non mi interessa chi mi scrive o mi chiama. Però in realtà sono abbastanza favorevole al fatto che si diano i telefonini ai ragazzi. Sennò li si priva della socializzazione, che purtroppo avviene ormai solo attraverso questi schermi. Non ha nessun senso porre limiti, se non di tempo: per esempio non devono usarli a scuola».

Agnese: Quindi, sì al cellulare. Sì anche ai social?
«Non dobbiamo pensare che noi abbiamo dei pensieri e la parola serve per esprimerli: è il contrario, se le parole sono poche tu pensi poco. Come fai a pensare una cosa per la quale non hai la parola? I ragazzi sui social passano il tempo a dire come si sono vestiti e pettinati, e il loro linguaggio si limita a questo. Una volta per conoscere il mondo si usciva di casa, oggi si sta a casa con il computer e il telefonino. Tu vivi il mondo che ti hanno allestito, non quello di cui fai esperienza».

Sclaunich: Un genitore può fare qualcosa per arginare questo fenomeno?
«Dobbiamo persuaderci che alcuni fenomeni sociali sono irreversibili. Ma torniamo sempre là: se con tuo figlio hai parlato tanto anche se lui usa social e telefonino continuerà a parlare con te».

23 marzo 2024

Cosa passa nella mente degli adolescenti?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Bidoli

DATA: 19 maggio 2024

Il loro cervello è una lente di ingrandimento sul mondo, particolarmente sensibile a cogliere gli stimoli dall’esterno e a vivere nuove esperienze, in un equilibrio precario tra potenzialità ancora inespresse e fragilità

È un periodo unico nella vita dell’individuo in cui si fanno scelte (e rinunce) che definiranno la persona che si sarà in età adulta. L’adolescenza descrive il passaggio dall’infanzia alla completa maturazione, che biologicamente avviene tra gli 11 e i 25 anni, caratterizzato dalla trasformazione corporea e dallo sviluppo dei sistemi neurobiologici (quelli che determinano l’elaborazione delle informazioni e orientano i comportamenti). Questi processi portano a una riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello che andrà a definire molte delle capacità, abilità e modalità che costituiranno il modo di agire e pensare «da grandi».

La nostra identità, come ragioniamo e ci rapportiamo con gli altri trova le sue basi in questa fase della vita ricca di potenzialità, ma anche delicatissima, in cui molto di ciò che viviamo e sperimentiamo, che è in costante rapporto «dialettico» con il nostro patrimonio genetico, ha effetti strutturali a lungo termine. L’esposizione a «fattori positivi», di tipo fisiologico (sonno, alimentazione, attività fisica), relazionale (legami affettivi ed educativi) ed esperienziale (scuola, viaggi, attività), così come quella a «fattori tossici» (utilizzo di sostanze stupefacenti, alcol, insonnia, psicopatologie non trattate) non solo orientano ma plasmano e scolpiscono il cervello. Gli stimoli ricevuti durante l’infanzia generano la formazione di reti neurali che consentono l’apprendimento delle abilità, ma è poi in adolescenza che avviene il fenomeno dell’use it or lose it in cui si sceglie che cosa rinforzare e che cosa «potare» (il fenomeno è detto pruning sinaptico), una selezione che andrà a determinare chi saremo in età adulta.

Se l’adolescenza è un passaggio fisiologico all’età adulta caratterizzato dalla trasformazione corporea e da una profonda riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello, che è particolarmente malleabile, plastico e portato all’apprendimento, quella di oggi, che riguarda la cosiddetta Generazione Z, è considerata particolarmente a rischio. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono tra il 10 e il 20% i bambini, ma soprattutto gli adolescenti, che soffrono dal punto di vista psichico, con il 75% delle patologie che esordisce prima dei 25 anni e la metà che presenta sintomi entro i 14 anni, in particolare depressione, ansia e disturbi comportamentali.

 

Perché la Generazione Z è così in crisi? Colpa della pandemia di Covid?

«Quello a cui assistiamo non dipende solo dall’esperienza vissuta durante la pandemia, che certo ha inciso negativamente sulla psiche dei ragazzi. Occorre innanzitutto riconoscere che la nostra epoca è caratterizzata da profonde trasformazioni di “tempo e spazio” a causa dello sviluppo iperbolico e rapidissimo della tecnologia, — spiega Giovanni Migliarese, psichiatra direttore SC Salute Mentale Lomellina Asst Pavia e segretario della sezione lombarda della Società Italiana di Psichiatria —. Negli ultimi anni c’è stato uno stravolgimento degli “assi cartesiani” su cui si basa la nostra esistenza e, come società, siamo ancora in piena trasformazione. Gli spazi sono diventati fluidi, non ci sono confini, il tempo è accelerato: la iper-connessione ci porta a non “staccare mai” e a essere sempre sotto stimolo. Ciò ha un impatto sulla salute psichica di tutti, ma soprattutto dei giovani. Basti pensare che il mondo in cui i ragazzi imparano, giocano e interagiscono è cambiato di più negli ultimi 15 anni che nei 500 precedenti e anche il ritmo di penetrazione dei dispositivi tecnologici è senza precedenti: 38 anni per la radio, 20 per il telefono e solo 2 anni per il tablet.

«Ciò incide particolarmente sui giovani perché le nuove tecnologie rispondono alle tipiche esigenze del periodo adolescenziale: desiderio di condivisione tra pari, volontà a essere sempre “connessi”, tendenza alla sperimentazione, ricerca delle novità. La specifica responsività adolescenziale del sistema del piacere viene costantemente stimolata da social network, giochi online, video e dagli altri prodotti digitali multisensoriali. Il rischio per il cervello è un’iperstimolazione sensoriale, mentre avrebbe bisogno di selezionare le informazioni e avere periodi di riposo (i cosidetti resting state) necessari per elaborare gli inputriorganizzare le reti neurali ed eliminare le scorie prodotte. Di solito questa attività avviene di notte, ma qui c’è un altro punto dolente: il sonno degli adolescenti, per colpa, anche dell’iper-connessione, è spesso disturbato con effetti che riguardano non solo l’aumento del livello di stress ma anche modificazioni sistemiche, tra cui alterazioni degli equilibri ormonali e immunitari», risponde lo psichiatra.

 

Di cosa ha bisogno un ragazzo in questa particolare fase della vita?

«L’adolescente deve poter sperimentare per imparare a conoscersi, per comprendere chi è, domanda centrale del suo compito evolutivo. Ma dovrebbe poter effettuare una sperimentazione reversibile, da cui possa tornare indietro. Un conto è sbagliare e poter rimediare, un conto è fare un errore con conseguenze irrimediabili. Compito dei genitori è, quindi, quello di favorire uno spazio di sperimentazione sufficientemente protetto».

«È inoltre importante che l’adolescente senta che gli si vuole bene. Va precisato che l’adolescenza non arriva all’improvviso, va “preparata prima”, creando un legame affettivo nell’infanzia che significa, molto semplicemente, avere il piacere di “fare cose” insieme e mantenere, negli anni, queste abitudini. Aver creato semplici routine che permettono la condivisione di spazi o momenti è un prezioso investimento nel tempo. Qualsiasi tradizione familiare, come per esempio vedere le partite o un film insieme, diventa un’ancora che, anche nei momenti più conflittuali, consente di “rimanere attaccati” ai figli. È un modo efficace per esserci reciprocamente, anche in quei momenti in cui è più difficile parlare perché si isolano o alzano un muro», dice Migliarese.

 

Se si isolano come si può comunicare con loro?

«Gli adolescenti sono emotivamente molto sensibili e possono avere reazioni spropositate di fronte a situazioni neutre. Quando sono all’interno di una “tempesta emotiva”, che è fisiologica, è inutile cercare di essere razionali e farli ragionare. Occorre reagire senza amplificare la crisi, lasciando che le questioni siano affrontate quando è tornata la calma. Così li si allena al contenimento emotivo, che aiuta a gestire frustrazioni ed emozioni», consiglia l'esperto.

Perché è importante prendersi cura della salute mentale degli adolescenti?

«In adolescenza l’influsso di fattori biologici, psicologici e sociali scolpisce il cervello, potenziando alcune competenze (fisiche, cognitive, relazionali, affettive ed emotive): quello che costruiamo in questi anni varrà poi per tutta la vita, per questo va considerato come un periodo su cui investire e su cui porre particolare attenzione perché è una fase di vulnerabilità neuro-psicologica. «È nel periodo adolescenziale, infatti, che esordiscono la maggior parte delle patologie psichiche che, se non riconosciute e curate, possono influenzare il percorso di vita. L’adolescenza è come la primavera: se si investe bene i fiori si rinforzeranno e durante l’estate (l’età adulta) si potranno cogliere i risultati della semina», spiega Migliarese.

 

I segnali da monitorare

Come capire se certi comportamenti in età adolescenziale sono fisiologici o rientrano in un campo patologico? «Se diventano di una certa intensità e frequenza o se impattano sulla qualità della vita meglio approfondire. Un altro elemento da monitorare è quello delle “reazioni immodificabili”. Si tratta di una sorta di “loop comportamentali” che non consentono al ragazzo di trovare vie di uscita. A tutti capita di affrontare delle difficoltà ma il nostro obiettivo, con il tempo e l’esperienza, è maturare quelle capacità che ci permettono di superarle. Nel corso del nostro sviluppo, e in generale per tutta la vita, perfezioniamo il nostro modo di adattarci e trovare soluzioni alternative. Ci sono alcune difese che funzionano bene fino a un certo momento e poi non funzionano più e occorre diversificare. Se questo non avviene e i problemi si estendono a tutti ambiti è bene parlarne con uno specialista», commenta lo psichiatra.

 

A chi rivolgersi in caso di dubbi o problemi?

«In prima battuta al proprio medico di famiglia, che di solito ha una sufficiente esperienza sulle problematiche di salute mentale e ha un approccio che parte dalla valutazione dei sintomi. In generale, poi, è meglio che il percorso terapeutico abbia un approccio integrato, che possa prevedere la presenza di diverse figure (neuropsichiatra infantile, psichiatra, psicologo...), che ci sia continuità nelle cure durante la crescita e che coinvolga i genitori. Un adolescente in difficoltà riversa sull’ambiente le proprie problematiche e ha bisogno di un supporto ampio che va oltre il momento della “terapia”. E poi che ci siano degli step: avere dei tempi per valutare dove si sta andando permette ai ragazzi di sentirsi “in controllo” nel percorso di cura e ai curanti di valutare gli esiti, evitando pericolose perdite di tempo», conclude Migliarese.

«Svogliato», «disordinato», ma anche «intelligente»: le etichette influenzano lo sviluppo della personalità di un bambino

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Silvia Turin

DATA: 19 maggio 2024

Esiste un'alta probabilità che le aspettative o i giudizi degli adulti diventino «profezie che si auto-avverano»: etichettare un figlio significa bloccarlo. Perché succede e come evitarlo

Le parole hanno un impatto diretto sulla formazione dell'identità di un bambino.

I contenitori che definiscono

Quando un genitore commenta le azioni del figlio con termini che etichettano la sua persona, come «pigro», «disordinato», «monello», le parole usate (spesso sempre le medesime) possono creare involontariamente una gabbia che condizionerà l'autostima e la percezione di sé del bambino.
Il bambino si aspetterà lo stesso risultato da se stesso in situazioni simili: «Non sono bravo in matematica, quindi, so già che non capirò l’esercizio» e questo potrebbe condizionare la sua crescita riducendo le possibilità e, anzi, portandolo ad avverare quel che ci si aspetta dai giudizi su di lui, la classica «profezia che si auto-avvera».

Problemi anche con i complimenti

Le etichette sono negative, però, anche quando partono da giudizi positivi (come: «sei bravo», «sei intelligente», «sei il migliore»), perché?
Come si possono esprimere giudizi senza classificare la persona?
Abbiamo chiesto di fare chiarezza su questo tema ad Elisa Fazzi, Direttore della Neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza ASST Spedali Civili di Brescia, professore ordinario di Neuropsichiatria infantile dell'Università di Brescia e attuale presidente della Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza.

Che cosa si intende per «etichetta»?
«Sono giudizi o attribuzione di valori che i genitori (e talvolta gli insegnanti) danno ai figli e che vengono utilizzati per descrivere comportamenti, emozioni, caratteristiche dei ragazzi».

Come influiscono sulla personalità di un bambino?
«L’etichetta non è qualche cosa che può essere considerato esaustivo di una persona: non deve stigmatizzare l'individuo, ma può stigmatizzare un comportamento o, meglio, un comportamento in un contesto».

Quindi esistono etichette anche «valide»?
«Più che etichette saranno considerazioni pedagogiche: da un lato c’è un aspetto psicologico relativo alle etichette, dall'altro un aspetto educativo. Le etichette possono cristallizzare, predire, indirizzare dal lato psicologico, ma non possiamo impedire a un genitore o a un professore di formulare espressioni che abbiano una valenza pedagogica”.

Com'è possibile che alcuni giudizi condizionino addirittura la personalità?

«Perché possono innescare due meccanismi: il bambino si ribella e diventa oppositivo, oppure interiorizza l’aspetto negativo e quindi si adatta e “realizza” l’etichetta, con moltissimi problemi di insicurezza. Lo vediamo nei bambini che hanno problemi di deficit di attenzione o disturbi dell’apprendimento: la continua svalutazione ("tanto non ce la fai, tanto sei svogliato”) porta il bambino a viversi proprio in questo modo».

Come fare allora? Ad esempio per sottolineare un comportamento che consideriamo negativo?
«È esattamente questo il modo: è il comportamento a essere negativo. Non bisogna esprimere giudizi come fossero una caratteristica del soggetto, ma come una contestualizzazione legata al comportamento. “Non sei distratto, pigro o lazzarone, ma forse oggi non ti sei impegnato abbastanza, magari lo sai fare perché in altre occasioni l'hai fatto”. Non dare al rimprovero o alla sottolineatura il valore di racchiudere l'individuo, ma contestualizzarlo all’azione e quindi alla modificabilità, perché l'etichetta cristallizza e impedisce di pensare a un margine di miglioramento. “La camera è disordinata? Vediamo se saprai fare meglio domani”».

Anche fare complimenti, però, condiziona. In che senso?
«In questo caso perché non aiuta nella crescita. Sottolineare sempre aspetti positivi non corrisponde alla realtà, questa immagine di perfezione che vogliamo trasmettere ai nostri figli non lascia spazio all’errore, che invece fa parte dell'umanità e può riguardare anche il più bravo, il più dotato, il più sostenuto dei ragazzi. Ecco che allora, se il ragazzo è stato sempre accompagnato dall’idea di essere il migliore, la caduta inevitabile sarà ancora più catastrofica. Altro problema, i complimenti dopo una buona prestazione (sia un voto o una medaglia sportiva) possono portarlo a credere che un fallimento nelle prestazioni corrisponda a un suo fallimento come persona».

Come possono i genitori usare le giuste parole rispetto alle proprie aspettative e giudizi?
«Se avere aspettative sul bambino attribuendogli delle caratteristiche vuol dire pensarlo, definirlo, desiderarlo e amarlo è positivo; se invece è un attribuirgli un'etichetta che possa in qualche modo condizionarlo o limitarlo non va bene. L’etichetta inquadra e classifica, è una lapide che non si muove più, invece, parliamo di bambini che un giorno sono bravi, un giorno meno. Cerchiamo di mantenere viva la possibilità di migliorare o di accettare la caduta. I bambini per loro definizione cambiano e un'etichetta non può bloccare un essere che è in movimento per definizione».

Si può «tornare indietro» oppure, dopo una certa età, ormai «il danno» è fatto?
«Voglio togliere a queste considerazioni ogni aspetto di senso di colpa. Certo che si può tornare indietro. Il consiglio è non rinunciare a dare il proprio giudizio pedagogico, ma bisogna contestualizzarlo al qui e ora, non farlo diventare un'etichetta che impedisce il cambiamento. In pratica, quando facciamo l'osservazione negativa inseriamo la possibilità che possa andare diversamente in un'altra occasione, diamo una seconda chance. Oppure, nel momento in cui valorizziamo un aspetto positivo, ricordiamo sempre che, se un giorno dovesse andare peggio, non sarà grave».

19 maggio 2024

Quale attività sportiva scegliere per i figli?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Daina

DATA: 11 settembre 2024

Quali sono gli sport più indicati a seconda dell'età, quanto tempo dedicare, come organizzare le giornate tra studio e svago. I consigli dell'esperta

Ricominciato l'anno scolastico tante famiglie si stanno per cimentare con la scelta dell’attività sportiva a cui iscrivere i figli. «Educare sin da piccoli i bambini ad avere uno stile di vita attivo significa promuovere il loro benessere fisico e mentale e prevenire in adolescenza e da adulti chili in eccesso, obesità e altre patologie croniche come diabete e disturbi cardiovascolari» sottolinea Giulia Cafiero, medico del servizio di medicina dello sport dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Qualsiasi tipo di attività va bene purché bambini e ragazzi non restino sedentari e non siano lasciati davanti agli schermi per troppo tempo durante il giorno. «Non è necessario frequentare un corso presso un centro sportivo, fare movimento vuol dire anche giocare al parco, fare delle partite a calcio, basket o pallavolo con gli amici, andare a scuola in bicicletta o a piedi. L’importante è che tutti i giorni bambini e adolescenti pratichino attività fisica» puntualizza la dottoressa.

La sedentarietà tra i più giovani nel nostro Paese è una brutta piaga. Secondo il sistema di sorveglianza Passi dell’Istituto superiore di sanitàtra i bambini di 8-9 anni quasi due su dieci sono in sovrappeso e circa uno su dieci è obeso. Una prevalenza tra le più alte in Europa. Il ministero della Salute nelle linee d’indirizzo sull’attività fisica raccomanda: almeno tre ore al giorno di movimento spontaneo ai bambini di età compresa tra 1 e 2 anni (il che vuol dire non lasciarli seduti sul passeggino e farli giocare liberamente nello spazio); idem a quelli di 3-4 anni, ma per almeno un’ora dovrebbero avere la possibilità di compiere attività motoria più energica, come correre, saltare, salire e scendere dallo scivolo; e, dai 5 ai 17 anni, una media di 60 minuti di attività fisica quotidiana di intensità moderata-vigorosa, con esercizi di rafforzamento muscolare almeno tre volte a settimana. La dottoressa Cafiero, specialista in medicina dello sport, descrive per ciascuna fascia di età quali sono le attività sportive più indicate.

In età prescolare

«I bambini piccoli hanno ancora difficoltà di coordinazione motoria e non riescono a svolgere gesti tecnici. Fino a 4-5 anni l’attività fisica va proposta sotto forma di gioco. Per aiutarli ad acquisire consapevolezza del proprio corpo nello spazio e le abilità motorie di base si può iscriverli a corsi propedeutici di atletica, danza o nuoto. Possono, per esempio, imparare a fare le bolle sott’acqua e a stare a galla, a saltare piccoli ostacoli, fare le capriole».

Da 5 a 11 anni

«Crescendo il bambino ha innanzitutto bisogno di strutturare il movimento. Molti genitori sono convinti che non appena il figlio inizia la scuola elementare vada iscritto a uno sport di squadra per imparare a relazionarsi con i coetanei. In realtà, è meglio che il bambino prima rafforzi le sue capacità motorie attraverso esercizi individuali, praticati comunque insieme a un gruppo di coetanei. È importante che impari a lanciare e calciare correttamente la palla, a correre, a camminare con andature diverse, a saltare. Solo se è in grado di coordinare bene i movimenti dei vari distretti corporei, mantenendo l’equilibrio, riuscirà a passare la palla al compagno e a coordinare le azioni con il resto della squadra. Fino agli 8 anni si consiglia, quindi, di iscriverlo a corsi sportivi di gruppo che diano una preparazione fisica completa per aumentare agilità e reattività. Vanno bene attività come atletica leggera, ginnastica artistica e ritmica, danza, arti marziali, nuoto, pattinaggio, anche il tennis, lo scherma e la scuola calcio, a patto che i corsi prevedano esercizi di consolidamento dei singoli movimenti e non si concentrino solo sull’affinamento del gesto tecnico richiesto dalla specifica disciplina. Una volta acquisiti i movimenti di base il bambino sarà pronto ad affrontare uno sport di squadra: dalla pallavolo al basket e al calcio, o attività più impegnative come l’equitazione e il canottaggio».

Quale attività scegliere

«Quella che più piace e incuriosisce il bambino, tenendo conto dell’offerta di infrastrutture sportive nella propria città. Va trovato un compromesso tra gli interessi del figlio e la facilità di raggiungimento della struttura, altrimenti se gli orari sono poco compatibili con gli impegni della famiglia e il centro è troppo lontano, nel giro di pochi mesi si abbandona l’attività per troppo stress».

A quanti corsi iscrivere il figlio?

«Se il bambino dorme e mangia in modo adeguato, ha le energie sufficienti per dedicarsi a più attività contemporaneamente e sostenere allenamenti quotidiani. Si consiglia al massimo la frequentazione di due discipline sportive diverse per consentire al bambino di coltivare anche altri interessi, come un corso di musica, fumetto, teatro o lingua straniera. Le attività extrascolastiche non sottraggono tempo allo studio, ma anzi favoriscono una migliore organizzazione del tempo, una concentrazione maggiore nei compiti e una più alta resa scolastica».

Cosa fare se il bambino vuole interrompere l’attività?

«Se ovviamente non subentrano esigenze o difficoltà incompatibili con la frequentazione dell’attività, bisogna incentivare il bambino a concludere il corso, ormai pagato, perché la passione potrebbe svilupparsi anche dopo qualche mese e serve un po’ di tempo per acquisire con scioltezza il gesto tecnico. Quando il bambino impara a muoversi meglio, ottiene più soddisfazione dall’allenamento e si diverte di più».

In adolescenza

«C’è un grande problema di drop out sportivo (cioè di abbandono, ndr) nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Per evitare che il ragazzo smetta di fare sport è importante che venga incoraggiato a praticare un’attività di suo interesse e che non venga forzato a fare quello che piace soltanto ai genitori. Inoltre, per stare in movimento l’adolescente non deve necessariamente iscriversi a un corso in palestra o a un centro sportivo. Può svolgere attività fisica liberamente, andando in bicicletta, sullo skateboard, correndo, nuotando, giocando a calcio, tennis o padel con gli amici, ricordandosi di fare esercizio fisico per almeno un’ora tutti i giorni».

Perché è importante fare sport a tutte le età?

«L’attività motoria eseguita con regolarità fin da quando si è bambini previene sovrappeso e obesità e riduce i fattori di rischio delle malattie croniche, da quelle cardiovascolari e metaboliche al cancro, in età adulta. Anche un bambino o ragazzo magro ma sedentario, rispetto ai coetanei attivi, avrà sempre una probabilità maggiore di ammalarsi in futuro. Lo sport, inoltre, migliora l’umore, poiché comporta il rilascio di vari ormoni, tra cui endorfine, serotonina e dopamina, che funzionano da antidepressivi naturali. E aumenta l’autostima: superare i limiti e raggiungere obiettivi a livello sportivo aiuta ad avere fiducia in se stessi e a essere più performanti in classe. L’attività sportiva, non da ultimo, insegna al rispetto delle regole e del prossimo e ad avere costanza per conquistare nuovi traguardi».

Bambini e ragazzi con malattie croniche

Anche il minore affetto da patologie croniche, come cardiopatia, diabete, asma, deve essere spronato a fare esercizio fisico. «In generale - sottolinea la dottoressa Cafiero - non ci sono controindicazioni all’attività motoria. Ci deve essere l’autorizzazione da parte del medico specialista che lo ha in cura per la patologia, che può eventualmente valutare di modificare la terapia a seconda dello sforzo fisico richiesto. Poi il pediatra o ancora meglio il medico di medicina dello sport potranno indicare l’attività fisica più adatta alle sue condizioni. Il movimento è una medicina anche per i malati cronici, poiché previene le complicanze e aiuta a tenere sotto controllo i sintomi» conclude la dottoressa del Bambino Gesù.

Il certificato di idoneità sportiva

Per praticare una qualsiasi attività sportiva (presso un centro di una società o associazione dilettantistica affiliata alla Federazione sportiva nazionale o a un ente di promozione sportiva) è sempre necessario presentare un certificato di idoneità sportiva non agonistica, rilasciato dal medico o pediatra di famiglia, dagli specialisti di medicina dello sport o quelli tesserati alla Federazione medico sportiva italiana, dopo una visita e l’esecuzione di un’elettrocardiogramma a riposo. Mentre per chi fa sport a livello agonistico è obbligatorio il certificato medico per il tipo di attività agonistica scelta, che può essere richiesto solo ai medici specialisti in medicina dello sport (presso i servizi di medicina dello sport dell’Asl o ambulatori privati autorizzati). Per valutare l’idoneità alla disciplina, l’atleta verrà sottoposto a una serie di accertamenti cardio-respiratori e ad altri controlli medici in base alla specifica attività che dovrà svolgere.

Sport e disabilità

Lo sport può essere d’aiuto a tutti, inclusi i bambini e i ragazzi con disabilità motoria, intellettiva e comportamentale, che devono essere esortati a svolgere attività fisica al pari degli altri. «La famiglia può mettersi in contatto con una delle sedi territoriali del Centro sportivo italiano o del Comitato italiano paralimpico, per una valutazione clinica delle capacità motorie del bambino e individuare la disciplina sportiva adattata più idonea. Lo stesso servizio viene offerto anche dall’unità di neuroriabilitazione e attività sportiva adattata del Bambino Gesù di Roma - spiega Gessica Della Bella, responsabile del servizio dell’ospedale romano -. Tra gli sport adattati più comuni ci sono: il tiro con l’arco, il tennis da tavolo, il basket in carrozzina e il baskin (la versione con persone normodotate, ndr), il ciclismo, l’handbike e il nuoto. Ai bambini con disabilità comportamentale, affetti per esempio da un disturbo dello spettro autistico, potranno essere consigliati la corsa, il nuoto, l’equitazione, il surf, lo scherma per migliorare il loro benessere psicofisico».

Il libro “Il maestro Pietro ed i suoi alunni”, per dare fiducia ed ottimismo a genitori e docenti

FONTE:  personale

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 10 settembre 2024

LINK: 

 

Il libro “Il maestro Pietro ed i suoi alunni”, per dare fiducia ed ottimismo a genitori e docenti

Dopo tanti mesi di lavoro finalmente è stato pubblicato il mio libro: “Il maestro Pietro ed i suoi alunni”.

Mi chiedo quanti miei alunni e quanti loro genitori si riconosceranno, nei diversi racconti del libro, come protagonisti di quell’episodio un po’ particolare della scuola elementare; che forse hanno dimenticato.

Ovviamente ho cambiato i nomi di tutti i protagonisti.

La più importante motivazione a scrivere è stata la volontà di trasmettere esperienze concrete vissute in tanti anni d’insegnamento per dimostrare come a volte con un po’ di fantasia e di coraggio, e soprattutto con tanto amore e determinazione, si possono risolvere problemi dei bambini apparentemente irrisolvibili se si usano solo le nozioni imparate durante gli studi e l’esperienza scolastica ordinaria.

Questo è il link per la mia intervista sul libro: https://www.youtube.com/watch?v=AqztjdCFnzE

Se vuoi leggere il libro e non ti va di andare in libreria, puoi acquistarlo on line. Ad oggi il miglior prezzo è quello di Feltrinelli: in tutto 20,66€, comprese le spese di spedizione. Sotto il link per arrivarci

https://www.ibs.it/maestro-pietro-ed-suoi-alunni-libro-pietro-bordo/e/9791256592197

Se condividessi o inoltrassi questo messaggio potresti dare un’iniezione di fiducia ed ottimismo a qualche genitore.

 

Paolo Crepet sulla strage di Paderno Dugnano: «Famiglia perfetta? C’erano per forza segnali, che nessuno ha visto. Questo deve spaventare»

FONTE: Corriere della Sera e Messaggero

AUTORE: Tommaso Moretto

DATA: settembre 2024

Genitori e fratello minore uccisi a 17 anni da Riccardo nel Milanese, lo psichiatra: «Perchè lo ha fatto? Va chiesto all'Onnipotente ma parlare di ragazzo per bene è la controfirma di una società ormai sfaldata. Non ci parliamo più, non conosciamo l'altro: il vicino ma neppure chi vive con noi»  

 

Un ragazzo di 17 anni a Paderno Dugnano, Comune della città metropolitana di Milano, ha ucciso con un coltello da carne il fratello di 12 anni e i genitori nella notte tra sabato e domenica. Ha confessato tutto davanti agli inquirenti, dicendo «non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi, mi sentivo oppresso». Paolo Crepet, 72 anni, psichiatra, sociologo e saggista, in passato pro-rettore dell’Università di Padova, invita a riflettere sulla nostra «comunità sfaldata».

Cos’è passato per la testa di questo ragazzo, si è dato una spiegazione?
«Va chiesta all’Onnipotente. Criminologi e psicologi che rispondono ad una domanda del genere sono dei fanfaroni. Quello che mi spaventa invece è come mai non se n’è accorto nessuno».

Secondo lei c’erano per forza dei segnali?
«È ovvio, un ragazzino di 17 anni prende in mano un coltello e fa una strage e non ci sono segnali? Stiamo scherzando?».

Il vicino di casa ha detto che era una famiglia tranquilla, che non aveva notato nulla di strano.
«Questo è bestiale, è la controfirma di una civiltà morta. Chi dice che era una persona meravigliosa uno che ha fatto una strage perché lo dice? Ci è andato a bere un caffè alle otto? E cosa pensava gli dicesse, tra dieci minuti ammazzo tutti?»

È una società dove non ci si conosce più?
«Non ci parliamo più, io non conosco nessuno dei miei condomini. È una comunità sfaldata, una volta tra vicini ci si aiutava».

La famiglia massacrata viveva in una zona di villette.
«Perché Turetta dove abitava? Nel Bronx? Smettiamo di parlare di “famiglie per bene”, aboliamo questa dicitura».

Questo ragazzo non pensava che sarebbe stato scoperto e quindi che sarebbe finito in carcere?
«Non gliene frega niente. Un’altra cosa che ci è sfuggita da Novi Ligure ad oggi, e son passati più di vent’anni, è la questione social. All’epoca di Novi Ligure sono stato preso per i fondelli dicevano che banalizzo soltanto perché chiedevo se in quelle famiglie - e all’epoca non c’erano i social - alla sera, a cena, ci si chiede anche come va. Figuriamoci oggi con i social».

I social network peggiorano la situazione?
«Di un milione di volte. Chi dice di no è in malafede. Un ragazzino di 17 anni che si mette la “vision pro” sugli occhi è più o meno isolato? Ci vuol Marconi per capirlo?».

Comunque, dall’isolamento ai triplici omicidi resta un passaggio difficile da capire.
«Mica tanto, quella è la punta di un iceberg. Lui l’ha fatto, mille altri ci hanno pensato. E poi comunque questi casi non sono così rari».

Perché scatta il meccanismo della violenza?
«Perché siamo tutti violenti, questa è una società violentissima. A Torino hanno massacrato un signore che faceva le bolle di sapone alla stazione, non è follia, è odio. È odio anche andare a 200 chilometri l’ora in auto con la propria fidanzata e finire contro un albero, se ami la tua ragazza vai a 65 orari e le accarezzi la mano. Ai 200 all’ora si è indifferenti alla vita dell’altro, è ovvio».

È possibile un parallelo con quanto appena successo a Sharon Verzeni?
«Anche lì, odio. Ogni evento ha un suo perché e una sua declinazione, non possiamo metterli nello stesso posto. Ma in comune ci sono l’odio e l’indifferenza per la vita altrui».

La prospettiva del carcere non è un deterrente?
«Non gliene frega niente, zero. Siamo bombardati da mesi con quaranta morti al giorno in televisione per le guerre, è un continuo richiamo alla morte. E poi l’ergastolo non lo faranno. Questo ragazzo di 17 anni si farà 15 anni, ci sono già i periti al lavoro, poi è minorenne».

Il suo recupero psicologico è possibile?
«Lo sarebbe se si volesse ma andrebbe cambiato il carcere minorile. Bisognerebbe ci fossero persone con capacità di intervento, non neolaureati».

Non ci sono?
«Ma per carità. Noi evitiamo questi argomenti perché ci riguardano, ora per distrarci parleremo dell’Ultradestra in Germania».

E perché li evitiamo?
«Perché ci riguardano. Le famiglie non funzionano, la scuola è abbandonata a sé stessa. Negli Stati Uniti ogni mese esce un libro sull’impatto della tecnologia digitale sui nostri figli ma non facciamo niente perché ci sono le Lobby che portano a cena un senatore e sono a posto».

DOMANDE SULLO STESSO ARGOMENTO SUL MESSAGGERO

Cosa intende per disfacimento della famiglia? E perché è avvenuto tutto questo?
«Semplicemente non c'è più un regola. Ed è avvenuto perché non parliamo più. Abbiamo scambiato i soldi con le parole. Una volta si parlava e non c'erano i soldi. Oggi ci sono i soldi ma non si parla più. Un padre non sa dove è suo figlio di 14 anni. Sabato sera c'era mezza Italia che non sapeva dove si trovasse il proprio figlio. Ne aveva una idea molto, molto vaga. Un padre non sa cosa fa il proprio figlio di 14 anni, non sa quanti shot stia bevendo, non sa se consuma cocaina, non sa se fa sesso con una tredicenne. Semplicemente non lo sa. Sa di cosa sanno i genitori?»

Di cosa?
«Di padel, della partita, del prossimo viaggio quando magari si parte sposati e si torna separati. Poi mi dicono "lei è pessimista". No, sono gli ottimisti che sono male informati».

Questa descrizione va contro quello che era il luogo comune dei genitori italiani eccessivamente protettivi. Uno stereotipo che sembrava inattaccabile.
«Sì, ma i genitori italiani sono troppo protettivi nel momento in cui non dovrebbero esserlo. Sono protettivi per la scuola. Vai a discutere se tuo figlio ha preso un brutto voto, se ha preso 5? Ma cosa ti interessa se tuo figlio ha preso 5? Saranno cavoli suoi. Lascialo di fronte alle sue responsabilità. I genitori italiani non sono protettivi quando dovrebbero esserlo, vale a dire a partire dalle 9 di sera. Sono protettivi in modo sbagliato, ecco che non ci sono più i voti a scuola. Guardi, è stato fatto tutto il contrario di ciò che sarebbe intelligente fare. Forse non siamo un popolo così intelligente».

Come si migliora la situazione?
«Mettendo un punto. Possiamo cambiare la scuola, prima di tutto. In maniera rivoluzionaria. Non funziona nulla. Prima di tutto bisogna cominciare a 5 anni e non a 6, finire a 18 e non a 19. Bisogna rimettere i voti come si è sempre fatto. Bisogna avere la scuola a tempo pieno e dare più soldi agli insegnanti. Ma lei pensa che ci sia un politico che pensa a queste cose? Però ho ragione io, me lo faccia dire».