Tutti matti per gli scacchi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Giorgio Fontana

DATA: 18 agosto 2015

Tutti matti per gli scacchi

Fanno bene (ai genitori)

Gli scacchi affinano il pensiero, sviluppano la concentrazione. E sono poco impegnativi per chi deve assistere alle partite dei figli

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Da ragazzino partecipai a qualche torneo di scacchi: ricordo bene la mia disperazione dopo una sconfitta - ma mio padre ricorda meglio il mio sguardo feroce e ciò che gli dissi prima di lanciare un attacco vincente: «Adesso gli salto al collo, a quello lì». Già. Gli scacchi conservano qualcosa che trascende il mero gioco: una volontà irriducibile di sopraffare l’avversario.
In un divertente articolo pubblicato sul Financial Times , Matthew Engel vede proprio negli scacchi lo sport ideale cui incoraggiare i figli, dal punto di vista dei genitori: combina costi e rischi bassissimi (difficilmente ci si sloga un polso muovendo un alfiere) con la libertà per padri e madri di non dover assistere alle partite (i litigi furibondi fra parenti, un classico del calcio giovanile, non son diffusi).
Di più: gli scacchi aiutano lo sviluppo della concentrazione, affinano il pensiero per immagini, ed educano alla responsabilità - sulle sessantaquattro caselle la fortuna praticamente non esiste, vittoria e sconfitta dipendono unicamente dalla qualità delle mosse. Anche per questi motivi, lo scorso febbraio il Parlamento spagnolo ne ha introdotto lo studio in diversi percorsi scolastici.
Ma c’è una ragione se Duchamp lo definiva uno sport violento - e se il Grande Maestro Nigel Short ha rincarato la dose dicendo che per questa attività «devi essere pronto a uccidere». La solitudine, l’astrazione e la mancanza dell’elemento corporale possono logorare i nervi di chiunque: e il genitore che vede il figlio tranquillo e assorto di fronte alla scacchiera non dovrebbe dimenticarlo. Nella sua introduzione a La psicologia del giocatore di scacchi di Reuben Fine, Giuseppe Pontiggia scriveva di questo gioco: «mobile e inafferrabile, esso elude tutti i tentativi di chiuderlo in quella gabbia, in cui finisce con l’aggirarsi il giocatore». Nel tesserne l’elogio, vorrei ricordare l’ossessione che lo anima: la lotta per dominarla, del resto, è parte del suo fascino.