Ritratto del buon docente: Basilio Ioppolo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Massimo Gramellini

DATA: 7 dicembre 2024

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Basilio Ioppolo, professore

Se entri in classe e sorridi, anche quando non ne hai voglia. Se sai essere severo, quando è necessario, e magnanimo quando se lo meritano, come quella volta che uno di loro azzeccò la coniugazione di un verbo greco e tu gli facesti un applauso. Se ti sforzi di capire il loro punto di vista e, quando pensi che abbiano ragione, li incoraggi a farla valere. Se non ti offendi alle loro battute, ma replichi con un’altra battuta. Se, quando li vedi stanchi, chiudi i tuoi amatissimi libri e racconti un aneddoto. Se provi ad aggiustare la bici di uno studente e non ci riesci, e ci riprovi. Se cerchi di proteggerli dai fallimenti, ma permetti loro di sbagliare. Se trasmetti passione per le materie che insegni, riuscendo a essere di stimolo e di conforto. Se butti le braccia al collo dei più fragili e chiedi loro «Come va la vita?» anche se la tua, di vita, sta andando a sbattere contro un verdetto intollerabile: ad appena 39 anni, trascorsi tra Capo d’Orlando e Milano, dove insegni al liceo Beccaria.

Se tu fossi solo la metà delle cose che i tuoi ragazzi hanno scritto di te, saresti l’adulto che tutti dovremmo essere e l’insegnante che tutti avremmo voluto avere. Puoi anche andartene all’improvviso e lasciare un vuoto devastante: diventi comunque immortale. Perché poi succede che studenti e colleghi facciano una colletta per realizzare un’aula dedicata allo studio e al relax che porterà per sempre il tuo nome e il senso della tua breve missione su questo pianeta: Basilio Ioppolo, professore.

Ma i prof (e le maestre) non devono anche insegnare a vivere?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Marisa Moles

DATA: 29 giugno 2014

Laureata in Lettere, insegnante per passione, blogger per diletto, con il  pallino della scrittura fin dalla più tenera età. Sono anche madre e moglie e il tempo libero, tra scuola e casa,  è davvero poco. Mi piace leggere ma soprattutto scrivere: gestisco due blog, uno personale e uno interamente dedicato alla scuola, laprofonline.wordpress.com

 

Gli studenti, tranne quelli che stanno affrontando l’esame di Stato, sono ormai in vacanza. L’ultima campanella per quest’anno scolastico è suonata da un bel po’ e  noi prof abbiamo da poco terminato di espletare tutte quelle formalità burocratiche di fine anno: relazioni, programmi svolti, scrutini. Qualcuno  è ancora impegnato nelle commissioni d’esame. Ancora una volta siamo i “giudici” dei nostri studenti. Ma noi un esame di coscienza ce lo facciamo mai?

Stritolati dalla burocrazia, nel compilare i programmi ben scritti e ordinati, rigorosamente salvati in un file del nostro pc, ci chiediamo cosa abbiamo fatto di buono quest’anno? E non mi riferisco agli argomenti trattati, alle poesie lette, ai capitoli spiegati, alle regole  illustrate per bene alla lavagna. Per “buono” intendo qualcosa di umano, al di là dei numeri.

Docenti e studenti sono accomunati dalla stesso destino. Per il Ministero dell’Istruzione siamo solo numeri: 18 ore per docente, tot classi per scuola, 27-30 allievi per classe, e non importa se le aule sono troppo piccole per contenerli tutti. Non importa se le ore a volte sono troppo poche per svolgere i programmi, fare le verifiche, interrogare … troppo poche per accorgerci che quelli che abbiamo di fronte non sono solo numeri, sono piccoli uomini e piccole donne che attraversano un momento delicato, quello dell’adolescenza, che ha bisogno di molta attenzione. 

Troppo spesso, presi come siamo dai mille oneri che la scuola ci impone,  non ci accorgiamo dei loro disagi, delle loro lacrime, dei loro sospiri, del loro continuo chiedere di andare ai servizi, del movimento perpetuo che compiono nei loro banchi troppo stretti, troppo scomodi, troppo scolastici. Già, che cosa ci può essere di più scolastico di un’aula? Nulla. Forse dovremmo rendere quelle aule più umane e meno scolastiche, avere il coraggio di dire al diavolo i programmi, le verifiche, le interrogazioni, occupiamoci un po’ di loro.

Dovremmo chiedere ai nostri ragazzi  quali siano gli interessi, le passioni, gli amori e le amicizie, quale sia il loro mondo al di fuori delle aule scolastiche. Perché sono innanzitutto persone e poi allievi da interrogare, valutare, sgridare e colpevolizzare. Incapaci di andare oltre a quei voti scritti ordinatamente sul registro, a quelle note affibbiate quando si presentano senza compiti svolti, a quei “meno” che segnalano la distrazione o l’impreparazione, non ci fermiamo a riflettere, chiedendoci quale sia il vero motivo di un curricolo scolastico deludente, fatto di bocciature ripetute, di fallimenti sommati ad altri fallimenti.

Se ogni tanto, non dico sempre, fossimo capaci di trascurare i dettagli di quelle indicazioni nazionali propinate dal ministero, per essere uomini e donne alle prese con l’età difficile dei nostri allievi, forse ne risentirebbe lo svolgimento dei programmi ma ne guadagnerebbe il benessere dei nostri studenti. E forse eviteremmo di leggere sulle cronache dei giornali le tragedie che hanno come protagonisti degli adolescenti. Gesti estremi, a volte.

Quando ci troviamo di fronte ai suicidi di giovanissimi, cerchiamo di non mettere sotto accusa solo la famiglia. Quel male di vivere che spezza la giovinezza spesso noi lo ignoriamo. Noi insegnanti, intendo. Quante volte ci accorgiamo del loro disagio? Ci fermiamo a coglierne i segnali? Talvolta basta poco, è sufficiente saper leggere e interpretare, mandando al diavolo, per qualche ora, l’analisi testuale e i problemi di geometria.

Ci sono giovani che odiano la scuola. Io odio me, per tutte le volte in cui non ho chiesto ai miei ragazzi “oggi come state?”, per non aver fatto una lezione sulla bellezza della vita, sulla felicità che si può cogliere nelle piccole cose, fosse solo un filo d’erba in mezzo a una montagna di paglia.

Siamo in una gabbia, quella dei doveri, e non ci accorgiamo che stiamo trascinando anche loro dentro quella gabbia che non è dorata, è simile ad una prigione da cui escono, a volte, grida di dolore che non siamo in grado di cogliere perché preferiamo essere sordi.

Non dobbiamo forse anche insegnare a vivere? Ciascuno secondo la propria esperienza , senza farci violenza e senza pensare che quello che potremmo dire non servirebbe a nulla. A volte sarebbe il caso di fermarsi e pensare che le lezioni più belle forse non le abbiamo ancora impartite.

IL MAESTRO NON C’È PIÙ: ALLE ELEMENTARI IN CATTEDRA SOLO DONNE

FONTE: Il Messaggero

AUTORE:  ANNA OLIVERIO FERRARIS

DATA: 3 ottobre 2004

LE STATISTICHE più recenti ci dicono che nella scuola dell'obbligo gli insegnanti di sesso maschile sono sempre più rari. La presenza delle donne nelle materne e nelle elementari si avvicina al 100% e nelle medie al 70%: il fenomeno, che non riguarda soltanto il nostro paese ma anche altre nazioni europee, da noi raggiunge il massimo nelle regioni del Centro Italia.

 

Com'è noto, la carenza di maschi all'interno della scuola è in primo luogo dovuta ai modesti stipendi dei maestri e dei professori, cosicché gli uomini per svariati motivi tendono a orientarsi fin dall'inizio verso attività più redditizie. Un secondo fattore che ha contribuito a femminilizzare la scuola è legato al fatto che l'insegnamento lascia più tempo libero di altre attività lavorative e consente di godere di vacanze estive più lunghe, il che si concilia meglio con gli impegni domestici e la cura dei figli.
Ma questo forte squilibrio nel rapporto maschi-femmine tra gli insegnanti, può avere degli effetti sugli alunni, oppure il sesso dell'insegnante non incide sull'apprendimento e sul buon andamento delle classi? Ovviamente la preparazione culturale e didattica dei docenti è l'aspetto più rilevante della questione; non bisogna però sottovalutare altri fattori che contribuiscono ad aumentare o ridurre la motivazione allo studio e a far sentire a proprio agio bambini e ragazzi.
La scuola è per gli alunni anche un luogo di vita molto importante, in cui essi vengono a contatto non solo con altri bambini e ragazzi ma anche con adulti diversi, ognuno con il proprio bagaglio di esperienze, la propria cultura e le proprie caratteristiche individuali: la presenza di adulti dei due sessi la rende più ricca perché c'è una maggiore varietà di modelli, una differenza di comportamenti e di interessi, e anche perché lo sviluppo dei bambini e dei ragazzi si basa su processi di identificazione con figure del proprio sesso. Si aggiunga a ciò il fatto che in numerose famiglie, a causa della separazione dei genitori, i padri sono meno presenti e quindi la disponibilità di un maestro o di un professore può servire a ridurre questa carenza. Il che vale sia per gli alunni che per le alunne: anche queste ultime traggono vantaggio da un confronto con insegnanti dell'uno e dell'altro sesso.
Per i maschi, poi, il fatto di non incontrare mai uomini tra le mura scolastiche può, inconsciamente, convincerli che una buona parte delle attività che si svolgono in classe - come leggere, scrivere, disegnare - siano "femminili" e che quindi non sia consono al loro sesso impegnarvisi a fondo. In più, man mano che si avvicinano all'adolescenza, molti maschi mal tollerano di essere guidati o disciplinati da figure femminili, mentre una figura maschile viene percepita più simile a loro e quindi dotata di una maggior presa, anche quando si tratta di controllare la loro aggressività.
In sostanza, ci sono buoni motivi per cercare di incrementare la presenza di docenti di sesso maschile a scuola.

I figli? Vanno elogiati, ma con misura

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Simona Regina

DATA: 4 ottobre 2013

MEGLIO LODARE L’IMPEGNO CHE I RISULTATI
Secondo alcuni la lode può minare la fiducia in se stessi, secondo altri è un fondamentale incoraggiamento

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«Come sei brava!». «Che bel disegno». «Quanto sei intelligente!». «Sei davvero un campione». Alla lunga lodare i propri figli è un bene o un male? A chi sostiene che l’uso delle ricompense, tra cui la lode, possa essere una pratica educativa dannosa per i bambini, fa eco chi al contrario sottolinea che i più piccoli hanno bisogno dell’approvazione e dell’elogio degli adulti.

STOP ALLE LODI - Alfie Kohn, per esempio, educatore e autore di libri su pregi e difetti di diversi metodi educativi, mette in guardia genitori e insegnanti: a suo avviso la lode rischia di trasmettere ai bambini l’idea che siano amati solo quando si comportano in modo consono alle aspettative dei grandi. Sostiene inoltre che, alla lunga, la lode può minare la fiducia in se stessi e scalfire le motivazioni personali, perché il fare bene una cosa smette di essere un piacere e una soddisfazione di per sé, ma solo un modo per essere apprezzati dell’adulto, col rischio di innescare una sorta di dipendenza dall’approvazione di mamma, papà o dell’insegnante. Oltre a far sentire i più piccoli sempre sotto giudizio, tanto da renderli insicuri nell’esprimere le proprie idee e scoraggiarli nel mettersi alla prova, perché preoccupati di essere all’altezza della situazione.

NUTRIENTE ESSENZIALE - Di tutt’altro avviso è lo psicologo infantile Kenneth Barish, professore di psicologia al Weill Medical College della Cornell University. «A mio avviso - scrive su Psycology Today - il bisogno di un figlio di essere elogiato e ricevere l’approvazione da parte degli adulti non è una ricompensa “estrinseca”. Lo sono le paghette in denaro. Ma la lode, come un sorriso o uno sguardo di approvazione, è tutt’altra cosa. È un bisogno umano fondamentale e non è una “tecnica “ per allevare bambini obbedienti». Anche perché, secondo l’autore di Pride and Joy, in fondo nel corso di tutta la vita siamo interessati alle opinioni altrui, e quando abbiamo lavorato duro e fatto un buon lavoro ci fa piacere che gli altri riconoscano e apprezzino il nostro impegno. «La lode dunque non è una forma di controllo, ma un incoraggiamento». Per cui, in definitiva, perché privare i più piccoli del piacere di essere elogiati per quello che hanno fatto con passione e impegno? In fondo, che sia un disegno, un gioco o i compiti di scuola, quando sono orgogliosi e soddisfatti per quello che hanno fatto, i bambini ci guardano, vogliono coinvolgerci, suscitare il nostro interesse e ricevere la nostra approvazione. La lode, dunque, per Barish non è come lo zucchero, qualcosa che i bambini amano e desiderano ma che a lungo termine può essere nocivo per la loro salute. «È più come un nutriente essenziale. Non è certo l’unico o il più essenziale, ma ne abbiamo bisogno tutti, e in particolare i bambini: hanno bisogno di sapere che siamo orgogliosi di loro. E questa certezza è un prezioso sostegno emotivo».

MEGLIO ELOGIARE L’IMPEGNO - In definitiva, però, meglio elogiare l’impegno, lo sforzo con cui i piccoli di casa fanno un disegno, un puzzle, una costruzione più che il risultato o il loro talento, e lasciarsi coinvolgere dal loro entusiasmo, in modo che si sentano amati e non giudicati, perché «è questa l’attenzione di cui il vostro bambino ha bisogno» consiglia la psicologa Laura Markham. Del resto, dopo anni di ricerche, la psicologa di Stanford Carol Dweck suggerisce ai genitori di non elogiare i propri figli perché intelligenti, nella convinzione di accrescere la loro autostima. In questo modo, infatti - lo ha spiegato su Scientific American e lo ribadisce in un nuovo articolo pubblicato su Child Development - la lode rischia di essere controproducente: di renderli più fragili in caso di fallimenti, insicuri di fronte alle difficoltà e tendenzialmente restii a mettersi in gioco per migliorare i propri punti deboli. Perché lo sforzo è percepito come meno importante dell’essere intelligenti. Ma a scuola, come nella vita, ogni tipo di traguardo è una sfida e richiede impegno, quindi meglio elogiare i bambini per le qualità che possono controllare (come l’impegno appunto), affinché considerino le nuove sfide come opportunità per imparare e crescere, nella convinzione che si possa sempre migliorare.

SBAGLIANDO SI IMPARA - Insomma, le lodi servono in alcuni momenti, ma ci vuole misura nel complimentarsi con i propri figli per i piccoli o grandi successi quotidiani. «Uno, perché l’eccesso di lode alla lunga perde di significato. Due, per non espropriali del piacere di fare qualcosa puramente per il piacere di farlo, senza pensare di doverlo fare per appagare il proprio genitore. E infine, per non gonfiare in maniera eccessiva il loro io» precisa Anna Oliverio Ferraris, docente di psicologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma. «Il bimbo o la bimba che si sente continuamente dire “come sei brava” o ”come sei intelligente”, può perdere il senso della realtà, pensare di riuscire sempre bene in tutto e potrebbe di conseguenza avere difficoltà ad accettare gli errori, da cui invece si impara molto». «Elogiare continuamente i propri figli, farlo fuori luogo, senza motivo, e allo stesso tempo pretendere sempre il massimo, può in effetti comportare una sollecitazione eccessiva con conseguente difficoltà a tollerare le frustrazioni connesse agli insuccessi che nella vita inevitabilmente arrivano» sostiene Giorgio Rossi, direttore della neuropsichiatria infantile dell’Ospedale del Ponte di Varese. «L’importante è essere rassicuranti, dare cure continue ed essere disponibili sul piano affettivo, in modo da offrire il sostegno di cui hanno bisogno».

ACCETTARE LE SCONFITTE - Anche secondo Sabrina Bonichini, professoressa di psicologia della salute del bambino all’Università di Padova, dietro troppi elogi c’è il rischio che i bambini non sappiano accettare le sconfitte, alimentando al contrario una fragilità narcisistica. «Gli elogi, dunque, sono importanti ma vanno motivati e devono essere specifici. È bene quindi sottolineare l’impegno che ha permesso di raggiungere la meta e non solo il risultato, perché altrimenti si rischia di demotivarli, attribuendo il successo a una caratteristica intrinseca, per esempio l’intelligenza, più che alla caparbietà e alla perseveranza». E la stessa cosa vale per i rimproveri: «devono essere mirati al comportamento e non sulla persona: quindi, per esempio, è meglio non dire al proprio figlio “sei cattivo”, ma “hai fatto una cosa sbagliata” e spiegargli il perché».

Pietro Bordo: “Ricordo che il mio primo direttore mi disse che un elogio vale più di mille rimproveri. In tanti anni d’insegnamento ho sperimentato che è proprio vero”.

Contro il registro elettronico e i gruppi Whatsapp dei genitori

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Monica D'Ascenzo

DATA: 6 gennaio 2016

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Ma l’esercizio di matematica era a pagina 33 o 35?”. “Mi mandate per favore la foto della pagina da studiare di storia che non abbiamo il libro a casa”. “I soldi per la gita vanno portati entro domani?”. Purtroppo non è il gruppo whatsapp fra compagni di classe, ma quello fra genitori. Una moda che sta diventando contagiosa, dal nido al liceo. Per carità, per i genitori che lavorano è una manna dal cielo: sai in tempo reale tutto quello che sapresti andando a prendere tuo figlio all’uscita da scuola. E riesci anche a parare qualche colpo: almeno la maestra non ti scriverà sul diario che ha dovuto anticipare i soldi del pullman o che al bambino manca il materiale didattico. Eppure c’è qualcosa che non mi convince.

Io non ho ricordo dei miei che chiamassero i genitori dei compagni per avere conferma della pagina da studiare o per chiedere se il giorno dopo ci sarebbe stato un compito. Se avevo scritto sul diario i compiti esatti allora andavo a scuola preparata, altrimenti rischiavo la figuraccia, il brutto voto o la nota sul diario. Certo la sensazione non era piacevole, ma di sicuro serviva a farmi stare più attenta la volta successiva. Oggi mandiamo i bambini a scuola con la rete di protezione. Se cadono, rimbalzano e non si fanno male. A volte anche più della rete: li bardiamo con salvagente, giubbotto gonfiabile, scarpe antiscivolo, parastinchi e casco. Ci assicuriamo che non si facciano male, ma non rischiamo che poi se ne facciano di più crescendo, quando non potremo fare più il gruppo whatsapp con i genitori dei compagni di università o poi con quelli dei colleghi d’ufficio?

E l’aberrazione non finisce qui. Da quest’anno anche la scuola elementare di mio figlio ha adottato il registro elettronico. Alla comunicazione di nome utente e password ho sentito un leggero fastidio, poi dopo qualche settimana, al primo ingresso nel sistema, il fastidio si è trasformato velocemente in disagio. Nel registro scolastico oltre alle assenze, i genitori possono consultare quanto fatto in classe in ogni singola materia, i compiti assegnati e (orrore!) i voti del proprio figlio. Ho chiuso in fretta il tutto come se mi fosse capitato in mano il suo diario dei pensieri.
Ma che roba è? Posso in qualunque momento sapere cosa fa mio figlio prima ancora che lui pensi anche solo se raccontarmelo o meno. Che fine fanno le chiacchiere da cena: cosa avete fatto oggi? Com’è andata la giornata? Ti ha interrogato?

Dove è finita la possibilità di scelta del bambino di raccontare o meno se è stato interrogato o se la maestra ha fatto una verifica a sorpresa? Dove è finita la libertà di confessare a un genitore un’insufficienza o invece decidere di gestirla da solo magari studiando, recuperando la volta successiva e spuntando una sufficienza in pagella?

Li abbiamo deresponsabilizzati con i gruppi di whatsapp e ora togliamo loro anche la scuola della scuola dove si impara a gestire il fallimento, il successo, la comunicazione con i genitori e i rapporti con gli insegnanti. Poi però pretendiamo che siano responsabili, consapevoli, autonomi e pienamente indipendenti quando vanno alle superiori o quando si iscrivono all’università e si devono autogestire.

A scuola in prima elementare si studia l’alfabeto e in quinta si fa l’analisi logica. Allo stesso modo esiste una crescita progressiva delle capacità personali non didattiche. Perché stiamo facendo questo ai nostri figli? Perché stiamo togliendo loro la possibilità di gestire le informazioni che riguardano la loro vita?

La soluzione? Non ne ho. Nel mio piccolo cerco di non chiedere mai conferma dei compiti o di quanto fatto a scuola agli altri genitori e ho spiegato a mio figlio che guarderemo il registro elettronico sempre e solo insieme e quando me lo chiederà lui. Correremo il rischio di non avere una media scolastica da lode, di beccare qualche nota e qualche rimprovero dalle maestre (uso il noi, perché le maestre oggi se la prendono anche con i genitori) e di non essere impeccabili. Ma accidenti se sarà meno noioso. E magari ci guadagnerà anche il nostro rapporto in termini di fiducia reciproca.

AVVERTENZE: causa numerosi commenti, scrivo qui un’aggiunta al post in modo da fugare ogni dubbio: NON E’ UN POST CONTRO LA TECNOLOGIA E L’INNOVAZIONE, CHE SONO ASSOLUTAMENTE DA ASSECONDARE E INCENTIVARE. E’ UN POST SULL’EDUCAZIONE DEI FIGLI E SU COME LI PREPARIAMO ALLA VITA FUTURA, CHE NON AVRA’ LE RETI DI SALVATAGGIO che ci sono oggi a scuola. Se un’astronauta (donna!) deve andare nello spazio fa un percorso fisico e psicologico per affrontare la missione. Se un calciatore deve affrontare la finale di Champions, si sottopone a una preparazione fisica e psicologica per la partita. La domanda che MI faccio e che VI faccio è: stiamo preparando i nostri figli alla partita che dovranno giocare o alla missione che dovranno affrontare?