Sonno: apprendimento, obesità, patologie, facoltà mentali

FONTE: almanacco.cnr.it

AUTORE: Rita Bugliosi

DATA: 7 dicembre 2022

A ricordarlo è Michela Matteoli, direttrice dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche, che evidenzia come il sonno notturno garantisca alcune importanti facoltà mentali, dalla memorizzazione all’apprendimento. E come la sua mancanza possa in parte contribuire allo sviluppo di gravi patologie, quali le demenze.

Il sonno è una funzione fondamentale dell’organismo, che si modifica assieme a noi durante la crescita. La sua regolarità e buona qualità garantiscono la nostra sopravvivenza, ma anche la salute del nostro cervello e del nostro organismo, non a caso gli viene dedicata un’ampia porzione della nostra vita. Dormire una quantità insufficiente di ore può avere effetti negativi importanti di vario tipo: ridurre l’attenzione e le capacità cognitive, causare cambiamenti di umore, esporci a un rischio più elevato di alcune malattie quali obesità, diabete di tipo 2, ipertensione, malattie cardiache ed ictus. Cerchiamo allora di comprendere meglio alcune caratteristiche di questa importantissima funzione, a partire dalle differenze nei due sessi.

“Maschi e femmine possiedono sin dalla nascita una differente struttura del sonno, diversità che sono stabilite durante la vita fetale e cambiano durante la crescita. Uno studio francese del 2017 ha valutato i disturbi del sonno in un campione di 381 bambini tra 4 e 16 anni, rivelando, in accordo con ricerche precedenti, che in età infantile le femmine dormono più a lungo e con una migliore qualità del sonno rispetto ai maschi. Dopo i 12 anni di età, in corrispondenza della pubertà, si assesta invece una prevalenza di insonnia e disturbi del sonno di 2,5 volte superiore nelle ragazze rispetto ai coetanei”, spiega Michela Matteoli, direttrice dell’Istituto di neuroscienze (In) del Cnr.

A determinare le ore di sonno è la struttura del cervello e ciò che si sa, in base alle ricerche che sono state condotte, è che dormire di più o di meno ha degli effetti sulle facoltà cognitive. “Utilizzando i dati della Biobanca del Regno Unito, un gruppo di ricercatori ha recentemente esaminato il sonno e i punteggi cognitivi di individui sani tra i 38 e i 73 anni, in relazione con la loro struttura cerebrale. I dati dimostrano che sette ore di sonno al giorno sono associate a prestazioni cognitive più elevate”, chiarisce la direttrice del Cnr-In. “Gli individui che dormono tra le sei e le otto ore sono risultati avere un volume di materia grigia significativamente maggiore in diverse regioni del cervello, tra cui: la corteccia orbitofrontale, importante nel processo decisionale;  l'ippocampo, fondamentale per il consolidamento dei ricordi; il giro precentrale, che fa parte dell'area motoria primaria; il lobo frontale, che supporta il coordinamento dei movimenti volontari; e alcune aree del cervelletto, a supporto di precedenti evidenze che avevano mostrato come l’acquisizione di abilità motorie venga migliorata durante il sonno. Anche gli individui che dormivano più a lungo di otto ore mostravano alterazioni in alcune di queste aree. Questi risultati, osservazionali e che richiedono ulteriori conferme, evidenziano l'importante relazione tra sonno e salute strutturale del cervello”.

Tra i danni principali che la mancanza del riposo notturno determina ci sono anche quelli all’apprendimento: una persona privata del sonno ha maggiori difficoltà a focalizzare l’attenzione in modo corretto e, quindi, non riesce ad apprendere in modo efficace. “Il sonno gioca un ruolo anche nel consolidamento della memoria, il processo che permette di integrare nuove informazioni con quelle già presenti nel cervello, stabilizzando e rafforzando i nuovi ricordi. Tale consolidamento, che svolge un ruolo essenziale anche per l'apprendimento, è diretto dalle cosiddette oscillazioni cerebrali lente, che rappresentano l'attività elettrica tipica delle fasi di sonno profondo”, continua la direttrice del Cnr-In. “Studi di risonanza magnetica funzionale dimostrano che, dopo una notte di totale privazione, due notti consecutive di sonno permettono il recupero della connettività ippocampale, ma non sono sufficienti a ristabilire i deficit di memoria episodica”.

La scarsità di sonno può favorire inoltre lo sviluppo di patologie neurologiche come la demenza, che colpisce un numero sempre maggiore di persone, anche a causa dell’allungamento della vita media. “Negli ultimi anni si è scoperto che, durante la fase del sonno non Rem, il cervello può eliminare composti che altrimenti si accumulerebbero nel parenchima, il tessuto dell'organo costituito dalle cellule che conferiscono le  caratteristiche strutturali e funzionali. Questo è il caso della proteina Beta-amiloide, implicata nella malattia di Alzheimer e in altri disturbi cerebrali, che aumenta nel cervello di roditori sottoposti a deprivazione di sonno. Il dato è confermato anche sugli umani”, aggiunge Matteoli, che ricorda uno studio scientifico: “L’Università di Berkeley ha analizzato un gruppo di 101 adulti sani del Berkeley Aging Cohort Study per determinare se il sonno frammentato, durante la mezza età, potesse essere collegato a un più rapido accumulo di Beta-amiloide e proteina Tau. Utilizzando la polisonnografia, questionari retrospettivi e Pet specifica per Tau e Beta amiloide, i ricercatori hanno dimostrato che, nell’arco di diversi anni, lo scarso sonno si correla a una maggiore presenza di placche di Beta-amiloide e grovigli di proteina Tau”.

Si tratta indubbiamente di risultati importanti ma, come conclude la ricercatrice: “Sono necessarie ricerche su un numero maggiore di soggetti per esplorare le relazioni tra l'attività del sonno e l'accumulo di proteine tossiche nel cervello. Tuttavia, la misurazione della qualità del sonno, attraverso dispositivi indossabili e non invasivi, potrebbe essere utile per allertare sul possibile accumulo anomalo di proteine nel cervello prima che si sviluppi il declino cognitivo”.

Fonte: Michela Matteoli, Istituto di neuroscienze, e-mail: michela.matteoli@cnr.it

 

Microsoft: la penna batte la tastiera, se scrivi a mano impari di più

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Antonella De Gregorio

DATA: 12 settembre 2016

I risultati di una ricerca neuropsicologica: l’utilizzo della penna (anche digitale) per prendere appunti, stimola le capacità cerebrali e l’apprendimento più della tastiera.

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Scrivere a mano aiuta a imparare. Più che «smanettare» su una tastiera. Lo dice una ricerca di Microsoft Italia, che ha condotto uno studio neuro-scientifico con il supporto di ricercatori della Norwegian University of Science and Technology di Trondheim.

Penna o tastiera

Ispirandosi a studi precedenti da cui risulta che prendere appunti scrivendo a mano comporta una maggiore elaborazione e selezione delle informazioni, gli esperti - Audrey van der Meer e Ruud van der Weel - hanno coinvolto un gruppo di studenti in un progetto di ricerca di due mesi, con l’obiettivo di individuare eventuali differenze nell’attività cerebrale dovute all’uso di una tastiera rispetto alla presa di appunti con la penna (anche elettronica) e le implicazioni sulla capacità di apprendimento del soggetto. Venti studenti hanno partecipato a compiti di digitazione, scrittura e di disegno, e hanno completato i lavori utilizzando i dispositivi «Microsoft Surface Pro 4» - che prevedono l'utilizzo sia della tastiera che della penna digitale - e indossando degli speciali copricapi muniti di circa 250 sensori per il rilevamento dei segnali cerebrali avanzati, per sondare le zone del cervello attivate nel corso dei compiti.

Cervello più attivo

Lo studio ha confermato che quando i soggetti utilizzavano la penna digitale si «accendevano» più parti del cervello rispetto a quando utilizzavano la tastiera. Inoltre, secondo la ricerca l’utilizzo della penna attiva aree del cervello più profonde, e questo ha effetti positivi sulla memoria e sull’apprendimento.

«La penna non deve sparire»

In un’epoca in cui sempre più studenti utilizzano ormai solamente il portatile con la tastiera per prendere appunti, gli studiosi ora consigliano di reintrodurre la presa di appunti a mano nelle scuole di tutto il mondo: «Prendere appunti a mano rende il cervello molto più efficace nell’elaborare l’apprendimento - ha dichiarato Audrey van der Meer, docente di neuropsicologia presso il Dipartimento di Psicologia della NTNU -. Spero sinceramente che questa ricerca contribuisca a riportare nelle classi l’uso della penna durante le lezioni». «Le implicazioni di questo studio sono fondamentali per gli educatori e per chi lavora nel campo dell’istruzione - ha dichiarato Alexa Joyes, Direttore di Policy, Teaching & Learning, Worldwide Education Microsoft -. Ci sarà perdonato l’errore commesso qualche anno fa, quando si pensava che la penna potesse scomparire dal nostro mondo ossessionato dalla tastiera: in realtà, è evidente che si tratta di uno strumento tuttora indispensabile, così come lo è stato per molte generazioni prima di noi».

Senza intelligenza emotiva non si può insegnare

AUTORE: Umberto Galimberti

DATA: agosto 2019

Galimberti: “I Docenti Dovrebbero Essere Assunti in Base all’Intelligenza Emotiva, Senza di Essa Non si Può Insegnare”

Dall’incontro “Educazione emozionale a scuola: il metodo RULER”, che si è tenuto alla fiera Didacta a Firenze è emerso che la scuola italiana si occupa poco dell’intelligenza emotiva, nonostante questa sia ormai universalmente riconosciuta come componente fondamentale nello sviluppo della psiche umana. A parlare di questo argomento sono intervenuti la dottoressa Laura Artusio e il professor Umberto Galimberti.

La dottoressa Artusio ha presentato il metodo RULER di educazione socio-emozionale (SEL). Questo metodo sviluppato presso la Yale University è stato adattato al diverso contesto italiano. Si rivolge a tutto il corpo docenti e mira a sviluppare modalità didattiche alternative che abbiano lo scopo di stimolare l’intelligenza emotiva degli studenti. Cinque sono le abilità chiave dell’intelligenza emotiva : il riconoscimento, la comprensione, il vocabolario emozionale, l’espressione e le strategie di gestione delle proprie emozioni.

Il professor Galimberti ha sottolineato quanto i genitori, oberati dal lavoro o da altre occupazioni, spesso trascurano questo tipo di apprendimento: “Oggi troppo spesso l’apporto genitoriale è fallimentare, i genitori non hanno più tempo di rispondere alle domande filosofiche dei bambini, ai loro mille perché, e spesso le parole mancate vengono sostituite da montagne di giocattoli”.

Questa mancanza, spiega il professore, produce due effetti negativi importanti: un analfabetismo affettivo diffuso e “il rapido appagamento offerto dal giocattolo che impedisce ai bambini di annoiarsi. Quando invece dovrebbero trovarsi in situazioni noiose per elaborare poi, in modo creativo, degli stratagemmi per divertirsi”.

Galimberti ha poi spiegato la differenza tra istruzione, come mera trasmissione di saperi, ed educazione, che permette invece ai bambini di sviluppare la propria personalità: “L’educazione emotiva è ciò che più scarseggia nel sistema scolastico italiano, quando un ragazzo rimane impantanato nello stadio pulsionale il rischio è che sviluppi forme di violenza e bullismo. La pulsione non si esprime in parole, ma solo in gesti e azioni”. Il professore spiega poi come migliorare questa situazione: “Innanzitutto limitando il numero di alunni per classe, fino a un massimo di quindici studenti; ma soprattutto ci vorrebbe una formazione specifica per i professori, che dovrebbero essere scelti anche in base a criteri emotivi e non solo conoscitivi. Se una persona non è empatica e coinvolgente non può fare il professore. È qualcosa che non si può imparare”.

Non manca poi il dissenso totale di Galimberti per l’uso spropositato di strumentazioni tecnologiche e lavagne elettroniche nella scuola italiana: “Dovrebbe essere strapiena di letteratura, soprattutto di romanzi, che permettono di definire le proprie emozioni immedesimandosi nella vita degli altri. Il razzismo nasce proprio dall’incapacità di riconoscersi nell’altro, e su questo dobbiamo intervenire oggi più che mai”.

Disabili in classe? Sì, ma con docenti preparati

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Federica Mormando

DATA: 24 marzo 2014

 

 Nel 1977 si comincia a parlare dei diritti dei disabili e si decreta che siano tutti inseriti nelle classi comuni. Quindi si pensa che l’ambiente sintono con la maggioranza dei bambini sia il migliore per tutti. Non ci si è accorti che per un bambino autistico i rumori e la molteplicità di stimoli di una classe «normale» sono terrorizzanti. Che un piccolo con ritardo cognitivo è umiliato dal non poter seguire il percorso degli altri. Che gli stili relazionali sono relativi alla struttura psichica e che quelli «normali» possono sconvolgere bambini con disturbi della personalità.

Infatti sono molte le classi con bambini che saltano sui banchi, urlano, picchiano, pur non essendo bulli.
Non si è dato peso all’evidenza che, rallentando il ritmo dell’insegnamento, si negano possibilità di apprendimento ai normali e a quelli ad alto potenziale intellettivo.

E neppure agli insegnanti, per cui può essere impossibile insegnare bene in una classe in cui i disabili sono del tipo sopra citato.

Per risolvere tutto spunta l’insegnante di sostegno. Definito per la classe, non per il singolo caso.

Senza entrare nel merito della loro preparazione, i «sostegni» lavorano in un ambiente generalmente non sintono con i ragazzi di cui dovrebbero occuparsi, e per sostenere loro, la classe e anche se stessi spesso se li portano fuori. In aule apposite? Più spesso nei corridoi, non per colpa loro.

La confusione di pari opportunità con identiche opportunità ha come punto di partenza e conseguenza la negazione dell’individualità. I bisogni di un bambino «normale» sono profondamente diversi da quelli di un bambino con grave ritardo cognitivo, o asperger, o iperattivo. E diversi da quelli di un bambino ad alto o altissimo potenziale intellettivo.

In conclusione, questa scuola non dà a nessuno quanto promette e deve. Il disagio è evidente a chiunque frequenti in modo consapevole molti bambini. I disabili sono a disagio, non imparano quanto potrebbero, né in cultura né in abilità relazionali, e la loro autostima ne è ferita.

Il disagio si fa più evidente nei casi di disabilità specifica, per i quali erano stati messi a punto metodi  atti a permettere loro di comunicare  nel modo più adeguato possibile. Parlo dei sordi, oggi detti non udenti – e dei ciechi – oggi detti non vedenti. I primi isolati in classi di udenti, visto che è mancata loro la possibilità di rapporto e comunicazione con gli altri bambini sordi, e relativo scambio di esperienze ed emozioni, essenziali per lo sviluppo cognitivo e psicologico, linguistico e sociale.

Ricordo di essermi accorta, molti anni fa, che un architetto era sordo soltanto quando gli ho parlato dietro le spalle, tanto era perfetta la sua lettura labiale. Oggi si va diffondendo la «lingua dei segni», che permette ai sordi di comunicare solo con chi la conosce, oltre che di capire i TG. Stesso problema per i non vedenti, una volta perfetti conoscitori del braille, forse qualcuno ricorda i centralinisti perfetti nel loro lavoro.

Quanto ai bambini ad altissimo potenziale intellettivo, sono frustrati e depressi perché per loro, non esiste ancora nulla nelle scuole. Così, camuffata da uguaglianza, la negazione del diverso persiste.

Eppure sarebbe possibile una scuola in cui gruppi di allievi possano riunirsi per competenza e livello, in spazi differenziati sia per aree del sapere sia per tipologia dei bambini. I momenti di apprendimento devono rispettare le possibilità, i tempi e i modi di ognuno.

In questa scuola che non c’è, esistono momenti comuni, cui non devono essere obbligati quelli che non o mal li sopportano, dedicati non all’apprendimento, ma alle relazioni e al riconoscimento, lì sì, delle diverse abilità.

 

La Dott.ssa Federica Normando è una psichiatra e psicoterapeuta che offre consulenze a bambini, adolescenti e adulti per disturbi psichici di diversa origine e tipologia, dai problemi di coppia, alla prevenzione dell'Alzheimer, fino ai disturbi di natura alimentare.

 

In particolare la Dott.ssa Mormando è specializzata nell'individuazione e nella gestione della superdotazione e della precocità intellettiva infantile e si occupa di problemi scolastici e di orientamento professionale.

Giornalista pubblicista, la Dott.ssa organizza seminari e corsi per genitori e insegnanti e si occupa di didattica personalizzata.

 

MORMANDO DR.SSA FEDERICA - EUROTALENT - PSICHIATRA PSICOANALISTA - VIA CAVALIERI BONAVENTURA 8 - 20121 - MILANO (MI) 
Tel: 02 29061564 | E-mail: fmormando@fastwebnet.it  f.mormando@gmail.com

Quando il miglior maestro è il compagno di banco

FONTE: la Repubblica.it

AUTORE: ALESSIA MANFREDI

DATA: 22 settembre 2011

Si chiama peer tutoring: un alunno coetaneo o leggermente più grande aiuta un bambino nello studio con benefici notevoli per entrambi sia per l'apprendimento che per la capacità di relazione. Uno studio inglese fa il punto sui risultati di una sperimentazione su larga scala, suggerendo l'adozione del metodo su scala nazionale.

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GIOCANO insieme, condividono banchi, ricreazioni e merende, emozioni ed ansie. Ma sono anche capaci di aiutarsi nello studio in modo sorprendente. E se il miglior maestro fosse un compagno di scuola? A fare il punto sui vantaggi del peer tutoring - tutorato fra pari - è uno studio inglese che analizza i risultati di un progetto sul larga scala, il più ampio finora condotto, in 129 scuole primarie in Scozia nell'arco di due anni. Da cui emerge che bambini piccoli, già dai sei-otto anni, possono beneficiare notevolmente dall'aiuto di un compagno più preparato, coetaneo o un po' più grande, che studi con loro: bastano 20 minuti a settimana a fare la differenza. 

E i risultati sono anche superiori a quelli ottenuti con metodi ben più dispendiosi, argomento chiave in tempi di tagli che non risparmiano neppure le scuole Oltremanica. Particolarmente appetibili, poi, perché lo schema è facilmente realizzabile, tanto da spingere gli autori dello studio a suggerire di applicarlo su scala nazionale come valida forma di sostegno al lavoro di insegnanti e assistenti scolastici. 

Se è un compagno ad aiutarlo nella lettura o nei compiti di matematica, un bambino impara meglio. Il peer tutoring, spiegano Peter Tymms, della School of Education della Durham University 1, e colleghi, è una forma specifica di apprendimento fra pari. Con una struttura precisa, a due, in cui uno studente più preparato fa da tutor all'altro, che può essere suo.

Consigli per il sonno dei ragazzi dai 6 ai 12 anni

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Silvia Turin

DATA: 23 febbraio 2016 

Un buon sonno nei ragazzi è fondamentale per far sì che affrontino al meglio la giornata. Influisce sulla loro capacità di concentrazione, sulla memoria e sull’apprendimento, oltre che sull’umore e sulla loro stabilità emotiva. Questi sono i consigli stilati dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale e dalla Società Italiana delle Cure Primarie Pediatriche

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Cosa non fare
- Evitate di far usare il letto per studiare, parlare al telefono, ascoltare musica.
- Non lasciate a disposizione televisione, computer, tablet nella stanza del ragazzo, per evitare che ne faccia uso spontaneamente.
- Evitate i sonnellini diurni, perché potrebbero causare difficoltà nell’induzione del sonno notturno.
- Favorite la permanenza all’aria aperta e alla luce del sole, aiuta a mantenere normali i ritmi circadiani sonno-veglia.
- Evitate che il ragazzo assuma bevande eccitanti tipo caffè, cola, the, cioccolata (ricche in caffeina o sostanze simili) nelle 3-4 ore che precedono il sonno.
- Evitate nelle 2 ore che precedono il sonno attività serali eccitanti o che danno un senso di energia, come esercizi fisici impegnativi o attività stimolanti come i giochi al computer.
Cosa fare
- Favorite uno stile di vita sano sia attraverso una corretta alimentazione sia favorendo una buona dose di attività fisica, anche se non strutturata come vero sport.
- La camera da letto deve essere confortevole, tranquilla e poco illuminata. La temperatura deve stare sui 18-20 gradi al massimo.
- Mantenete regolare gli orari per andare a dormire e per svegliarsi. Sono tollerati intervalli non superiori ad un’ora di differenza tra le notti della settimana e quelle del weekend.
- Stabilite 20-30 minuti di tempo da dedicare a consuetudini prima del sonno. La routine dovrebbe prevedere attività distensive quali leggere un libro o parlare di ciò che si è fatto durante la giornata. L’ultima fase dovrebbe svolgersi nella stanza da letto.
- Cercate di lasciar trascorrere almeno due ore dopo la cena, se costituita da un pasto completo; sono invece consentiti piccoli spuntini (frutta, yogurt) per non andare a letto affamati.

Quanto devono dormire bambini e adolescenti? Ecco le nuove linee guida

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Paola Arosio

DATA: 16 giugno 2016

Quante ore dovrebbe dormire un bambino per crescere in salute? Dipende dall’età. A stabilire una sorta di «vademecum del sonno» sono gli esperti dell’American academy of sleep medicine, sulla base delle raccomandazioni emanate dall’Accademia americana di pediatria pubblicate sulJournal of clinical sleep medicine.

 «Bambini e adolescenti dormono troppo poco – stigmatizza Stuart Chan, coautore del documento – a scapito di un corretto sviluppo di memoria e apprendimento». Concorda il presidente della Federazione italiana medici pediatri Giampietro Chiamenti: «Molti bambini soffrono di problemi di sonno e dormire poco aumenta i rischi di obesità, diabete, depressione, autolesionismo». Ecco, età per età, quanto tempo devono trascorrere i bimbi tra le braccia di Morfeo per stare bene.


Da 6 a 12 anni

In età scolare sono raccomandate 9-12 ore di sonno al giorno. Con l’ingresso in prima elementare, anche i bambini con un sonno regolare possono avere qualche difficoltà ad addormentarsi. Tra le cause, l’ansia per il cambiamento, la preoccupazione per i nuovi compagni e insegnanti, il cambio di ritmi e di abitudini. Una fase transitoria, destinata a stabilizzarsi nel giro di pochi mesi. Importante, invece, che il bambino non abbia in camera tv, tablet, computer e che eviti di usare il letto per attività varie, come fare i compiti, parlare al telefono, ascoltare musica.

Dislessia, meno diagnosi e più bravi maestri

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 3 novembre 2016


Pubblichiamo l’intervento dell’insegnante Pietro Bordo
che ripropone l’allarmesull’eccesso di diagnosi di dislessia e di terapia verso i bambini che hanno problemi di apprendimento a scuola.

Siamo all’interno di un dibattito che prosegue da tempo e che contrappone due schieramenti: chi solleva dubbi sulle troppe diagnosi (arrivate a sfiorare il 5% della popolazione scolastica) e chi ribadisce, invece, l’indiscutibile conquista della legge 170 del 2010 che, avendo dato un nome a questi disturbi, ha finalmente aiutato bambini e insegnanti.

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Questo in corso è il mio 44esimo anno di insegnamento nella scuola primaria (la scuola elementare; quattordici anni nella parificata, ventuno nella paritaria “d’elite” e otto nella pubblica), tutti a Roma. Con la mia esperienza vorrei evidenziare quello che è l’errore che, secondo me, oggi rischia di danneggiare tanti bambini.

Il mondo scolastico è ormai caratterizzato da un tecnicismo esasperato (DSA, BES,…), per il quale a volta invece che di bambini mi sembra di parlare di robotini, con i relativi software disciplinari e comportamentali.

Una ricerca nelle scuole romane pubblicata cinque anni fa mostrava, ad esempio, che il numero di bambini dislessici è sovrastimato. Ne consegue un spreco di risorse ma soprattutto, per il bambino. un’inutile medicalizzazione; anzi, a volte mi sono accorto che è un danno.

“È grave il problema dell’eccesso di diagnosi spesso errate”. Lo ha dichiarato il direttore dell’Istituto di Ortofonologia (IdO) di Roma, Federico Bianchi di Castelbianco, dopo un’indagine condotta qualche anno fa in numerose scuole materne ed elementari per individuare i bambini a rischio di Dsa. Dalla ricerca è emerso che nelle scuole materne ed elementari di Roma circa il 23% dei bambini viene erroneamente indicato a rischio di tali disturbi, ovvero con significative difficoltà nella lettura, scrittura e nel ragionamento matematico.In realtà secondo gli esperti in questa percentuale vi sono anche bambini con difficoltà di tipo minore, definibili come secondarie, o a basso rendimento scolastico, e non come Dsa. Una precisazione che abbassa la percentuale dei bambini a rischio al 4%.
«Segnalare come dislessici bambini che in realtà non lo sono comporta due gravi rischi», ha spiegato Federico Bianchi di Castelbianco. «Innanzitutto i bambini vengono dirottati su percorsi alternativi come portatori di una disabilità che non hanno, con oneri economici non sostenibili e totalmente inutili. Inoltre il loro problema non solo non verrà affrontato ma lascerà un vuoto di conoscenze che si ripercuoterà pesantemente sul loro curriculum scolastico».

La scuola, spiega Bianchi di Castelbianco, «può avere un ruolo fondamentale nell’evitare di inviare dagli specialisti bambini che non hanno davvero problemi di apprendimento. Per questo serve la formazione degli insegnanti. Anche per evitare che loro stessi vedano come soggetti a rischio bimbi che non lo sono».

Anche Daniela Lucangeli, presidente del Cnis, professore ordinario di psicologia dello sviluppo e dell’educazione dell’università di Padova, in un articolo pubblicato qualche anno fa su ‘Il Giornale di Vicenza’, non ha esitato a definire allarmante il notevole numero di diagnosi di disgrafia, dislessia e discalculia.  Parla di troppe diagnosi affrettate, troppe certificazioni Dsa (disturbi specifici dell’apprendimento). Dice che molto più spesso invece si tratta di bambini con difficoltà di apprendimento che possono migliorare, e di molto, semplicemente cambiando metodo di insegnamento.

E quante volte ho dovuto variare metodologia nei miei anni in cattedra: lo stesso modo di insegnare non può andare bene per tutti gli allievi. Purtroppo, generalmente, non si va ad indagare sui metodi didattici utilizzati dall’insegnante. Una delle cause di così tanti errori e difficoltà degli alunni è stata individuata da molti specialisti, ad esempio, nel Metodo Globale, ora utilizzato da molti maestri nella scuola elementare. E pochi parlano delle classi pollaio, che quindi vanno bene: è l’alunno che è affetto da “disturbi”.

Ricordiamoci che nel Manuale Statistico e Diagnostico, il testo utilizzato per le diagnosi delle malattie mentali, dove tra l’altro sono riportati anche i DSA, tutte le malattie mentali sono indicate come disturbi.

A mio avviso, bisognerenne  fare un passo indietro sulla legge 170/2010 sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento se non si vuole creare un generazione di incapaci, insicuri, ignoranti e facilmente manovrabili, come ha scritto Frank Furedi, Professore di Sociologia: «Se l’attuale tendenza continua, presto ci sarà poca differenza tra una scuola e una clinica per malattie mentali… se consideriamo le sfide della vita come un’esperienza cui i bambini non possono far fronte, i ragazzi raccoglieranno il messaggio e le considereranno con terrore. Tuttavia, se la finiamo di giocare a fare il dottore ed il paziente e aiutiamo invece i bambini a sviluppare la loro forza attraverso l’insegnamento creativo, allora i piccoli inizieranno a tener testa alle situazioni… proteggere i bambini dalla pressione e dalle nuove esperienze rappresenta una mancanza di fiducia nel loro potenziale di sviluppo attraverso nuove sfide». (F. Furedi, The Express, 20 maggio 2004).

Qualche anno fa operavo in modalità di prevalenza oraria su una singola classe (avevo tutte le materie, escluse motoria, musica ed inglese). Durante un incontro di formazione di insegnanti della scuola primaria, ad un insigne neuropsichiatra, direttore di un istituto di Firenze, che aveva detto che in ogni classe c’è generalmente almeno un alunno affetto da dislessia, rivolsi questa domanda: “Perché  io non ho mai avuto alunni dislessici?”. La risposta, intellettualmente onesta, fu che in modalità di prevalenza un forte motivatore, professionalmente preparato, in grado di stabilire una relazione significativa con l’alunno, poteva portarlo, in sintonia e quindi in sinergia con i genitori, a superare le sue difficoltà non gravi senza altri interventi esterni.

So che se questo testo sarà pubblicato mi farò molti nemici. Ma non nella mia scuola dove per me e per tante bravissime colleghe, come per la mia Preside, che lo ripete ad ogni inizio di anno scolastico, al primo posto ci sono i bambini.

Pietro Bordo