Johanna, bambina dislessica che legge al suo cane

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Caterina Belloni

DATA: 11 agosto 2015

In alcuni istituti inglesi i «cane dal lettura» aiutano i bambini con problemi di dislessia Gli psicologi: « I piccoli studenti si rilassano perché davanti all’animale spariscono le inibizioni»
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Per aiutare un bambino dislessico ad affrontare più serenamente la lettura di un libro può bastare un cane. Parola di Johanna, un bambina di nove anni, che dallo scorso settembre è stata affiancata da uno splendido esemplare di Golden Retriever nelle ore di lettura alla Saint Joseph Primary School di Poole, uno degli istituti britannici dove è stato avviato un programma di sperimentazione sui cani da lettura per affrontare i problemi di dislessia.

Golden retriever in classe
I risultati, dopo un anno di intervento, sono già positivi. I bambini hanno maggiore confidenza con i libri, li cercano, si dedicano alla loro scoperta. Come appunto Johanna, che durante le ore scolastiche, quando è il momento di fare grammatica, viene invitata ad andare in un’altra classe insieme a un’insegnante e a Monty, il cane della scuola. Si siedono uno vicino all’altro e Johanna legge delle storie ad alta voce. Monty si accuccia accanto a lei e la osserva, soprattutto la ascolta. Johanna lo sa, quindi si sforza di non sbagliare, di unire un vocabolo all’altro in una frase, di dare delle intonazioni, aiutata dall’insegnante che le spiega come fare ogni volta che ha dei dubbi. E la gioia di riuscire a raccontare al cane delle storie, magari di altri cani coraggiosi o avventurosi, è tale che Johanna, che un paio di mesi fa ha avuto un cucciolo come regalo di compleanno, ha cominciato a leggere anche a lui, la sera a casa, prima di andare a dormire.

Il meccanismo di rilassamento
La mamma lo racconta con entusiasmo. Perché prima della sperimentazione e dell’incontro con i cani di lettura, Johanna non aveva mai preso in mano un libro prima di addormentarsi. Potrebbe sembrare una follia, ma per gli psicologi che hanno messo a fuoco questo programma il meccanismo è evidente. Per un bambino dislessico è rilassante leggere ad un cane, perché davanti all’animale accucciato scompaiono le inibizioni che può avere di fronte ai suoi pari. Monty non ride per gli errori, non prende in giro per le incertezze, all’intervallo non canzona i bambini solo perché, arrivati in quarta elementare, fanno ancora confusione con lettere e accenti. Accanto al bimbo dislessico, che «combatte» per dare alle parole l’ordine giusto, ci sono l’insegnante, che ha la pazienza del suo mestiere, e il cane, che segue ogni parola.

I cani da lettura
I cani da lettura sono calmi e tranquilli, hanno solide competenze di obbedienza, non si agitano negli ambienti caotici o per rumori improvvisi, come le grida dei bambini o il trillo di una campanella, accettano coccole e piccoli dispetti , non si avventano sui lunch box o su cartelloni e colori lasciati in giro per i tavoli. Cani speciali per bisogni speciali, potremmo dire, che in Gran Bretagna stanno portando a risultati importanti. Anche se l’idea dei cani da lettura non è nata nel Regno Unito. La R.E.A.D, Reading Education Assistance Dogs (associazione che si occupa dei cani d’assistenza per la lettura) ha mosso i suoi primi passi negli Stati Uniti, più precisamente in Utah. Da lì si è diffusa per il mondo e qualche anno fa è arrivata anche in Italia. Dove non esistono, però, ancora programmi specifici nelle scuole come in Inghilterra. I cani addestrati si trovano insieme ai loro conduttori in alcune biblioteche e possono andare occasionalmente in visita nelle classi. Un primo passo, in attesa che la storia di Johanna si possa ripetere, in futuro, anche con bambini che si chiamano Mario, Riccardo o Sofia.

Dislessia: screening precoce «in famiglia»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Daniela Natali

DATA: 17 marzo 2016

Giochi «mirati» insieme con i figli per capire se potrebbero essere dislessici

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Si è avviato il «Progetto digitale integrato per la dislessia» che vede collaborare Fondazione Telecom Italia, Ministero della Salute, dell’Istruzione, Istituto Superiore di Sanità , Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, Associazione italiana Dislessia. «Nei prossimi mesi - spiega Stefano Vicari, direttore dell’Unità complessa di Neuropsichiatria infantile, al Bambino Gesù - creeremo una piattaforma che permetterà ai genitori di collegarsi a un sito per fare giochi «mirati» insieme con i figli per capire se «potrebbero» essere dislessici. Il bambino , per esempio, sentirà pronunciare una lettera alla volta e dovrà poi dire la parola completa, oppure udrà una parola e dovrà ripeterla senza il suono iniziale. Chi è in età scolare potrà effettuare anche valutazioni “a distanza” elaborate da noi e intraprendere un percorso di recupero online. Non vogliamo incoraggiare i genitori a cimentarsi in diagnosi “fai da te”, né fornire un trattamento riabilitativo. Proponiamo piuttosto uno screening molto precoce ed eventuali attività di potenziamento». 

Dislessia, diagnosi precoce (in età prescolare) e videogiochi fin da piccoli per arginarla

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Daniela Natali

DATA: 17 marzo 2016 

In chi ha problemi con la lettura sono non di rado carenti le capacità visuospaziali che possono essere migliorate con specifici software ricreativi

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Quando di parla di dislessia, su un’affermazione sono tutti d’accordo: la diagnosi precoce è fondamentale. Sia per iniziare quanto prima un’azione di recupero, sia per evitare che i primi approcci con la scuola si traducano in una débacle tale da scoraggiare i bambini e farli sentire, una volta per tutte, inadeguati. Una dislessia «certificata» permette infatti ai bambini, o meglio ai loro genitori, di chiedere - e agli insegnanti di concedere - una serie di misure compensative: dal tempo in più per svolgere i compiti in classe, all’uso delle tabelline scritte, alla maggior attenzione al contenuto, che alla forma, dei primi “temi”. Ma se fino ad oggi le diagnosi arrivavano, in genere, tra la fine della prima e l’inizio della seconda elementare (e in alcuni casi solo alle medie o oltre), adesso un nuovo metodo promette di individuare i disturbi di apprendimento già a due, tre anni. «Diagnosi in fase prescolare in realtà già si possono fare - puntualizza Stefano Vicari, direttore della Unità operativa complessa di neuropsichiatria infantile del Bambino Gesù di Roma -, basandosi sulle difficoltà di linguaggio. Non si tratta di un generico parlare in modo troppo infantile per l’età cronologica, ma avere difficoltà metafonologiche, cioè nella distinzione dei diversi suoni - e quindi delle diverse future lettere - che compongono una parola». 

 

 

Un nuovo metodo

Non sempre però queste difficoltà sono in grado di predire una futura dislessia, e c’è anche chi non le ha, ma ugualmente diventerà un alunno dislessico. Ora un gruppo di studio - che fa capo al Developmental & Cognitive Neuroscience Laboratory dell’Università di Padova, guidato dal dottor Andrea Facoetti, in collaborazione con il professor Simone Gori dell’Università di Bergamo, entrambe ricercatori anche all’IRCCS Medea di Bosisio Parini - ha elaborato un nuovo metodo per individuare i disturbi di apprendimento che si basa sulla valutazione dell’attenzione visuospaziale. Cioè l’abilità ad estrarre da un contesto complesso le informazioni rilevanti, “oscurando” quelle irrilevanti. Abilità che si sviluppa a due anni e che si può valutare con semplici test. «Il nostro lavoro, pubblicato su Current Biology - spiega Facoetti - è nato da ricerche di psicofisiologia iniziate negli anni Ottanta, in cui si metteva in rilevo che chi legge male ha problemi anche nell’elaborazione visiva che avviene nella parte alta del cervello, il sistema dorsale; mentre il circuito cerebrale ventrale, legato all’ortografia, poteva non denotare problemi». Ma come può avere un ruolo la parte del cervello legata alla percezione del movimento con la lettura? I fogli stanno fermi... « Sì ,ma quando si impara a leggere - chiarisce Facoetti - si devono vedere le varie lettere come un “insieme” che compone la parola. E quando si passano a leggere delle frasi intere, si deve essere in grado di vedere la parola assieme a tante altre». Come si può migliorare l’abilità visuospaziale ? «Con un metodo certo non sgradito ai bambini: i videogiochi di movimento. A patto che non siano violenti, per ovvie ragioni, vanno bene anche quelli in commercio, ma ora nel nostro laboratorio - anche grazie a un finanziamento che si spera arrivi dalla Comunità europea - stiamo elaborandone alcuni mirati ai disturbi di apprendimento. Ci saranno video giochi per migliorare la capacità visiva, altri per imparare a segmentare le parole, altri ancora per accelerare la capacità di accedere dalla visione dell’oggetto al suo nome, un’abilità carente nei dislessici. I video saranno adatti a bambini dai quattro-cinque anni, usati prima dell’età scolare potrebbero prevenire la dislessia». 

Il problema della memoria di lavoro

«Teniamo anche presente - aggiunge Giacomo Stella, professore di psicologia clinica alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia - che in chi soffre di dislessia, oltre a esserci problemi di attenzione visuospaziale, c’è un problema di memoria di lavoro . Faccio un esempio: se scriviamo una parola sul bagnasciuga, la sabbia, compattata, “trattiene” quello che scriviamo. Il dislessico è come se scrivesse sulla sabbia asciutta, i segni si cancellano mentre vengono tracciati. Se l’insegnante dice: “scrivete duemilatrecentosessantacinque”, il dislessico sbaglia perché, mentre scrive, dalla sua memoria di lavoro scompare la prima parte del numero. E non va certo meglio nella comprensione del testo: si perdono per strada le parole e le frasi. Migliorare le capacità di lettura con la logopedia è utile, ma non basta. Esiste però il brain training, un lavoro, in parte svolto al computer, in parte con carta e penna, che serve a potenziare la memoria di lavoro». 

Disarmonie

«Adesso in letteratura i disturbi del calcolo - aggiunge Daniela Lucangeli , docente di Psicologia dello Sviluppo all’Università di Padova - sono considerati disarmonie dello sviluppo, con componenti genetiche e soprattutto epigenetiche. Poiché questa disarmonia nasce da un incrocio tra geni e ambiente, quello su cui possiamo agire è l’ambiente. E quindi il modo con cui si insegna. Se noi diciamo la parole “aria” e poi la ripetiamo al contrario otteniamo “aira”: qualcosa privo di senso. Viceversa se scriviamo “123” e poi lo capovolgiamo, ottenendo “321”, abbiamo qualcosa di sensato. Insegnare la matematica come se fosse una lingua porta ai risultati terribili che hanno i nostri studenti nei test ed è “veleno” per i dislessici che diventano automaticamente anche discalculici, mentre la discalculia vera che è una totale “cecità al numero”, ed è innata, è rarissima. Meno calcolo scritto e più a mente aiuterebbe a comprendere il concetto di quantità, ma nelle nostre scuole il calcolo a mente sta a quello scritto in un rapporto di 1 a 10. Si imparano automaticamente procedure di calcolo ma non le si “intendono”». 

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Dislessia: l’Olanda vieta calcolatrici e correttori a scuola

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Luigi Offeddu

DATA: 9 febbraio 2016 

Il governo olandese: «Gli esami sono uguali per tutti» e ha avvertito: «Chi userà gli “aiuti” perderà punti nel giudizio finale. Le polemiche e il dibattito

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In Olanda il governo ha deciso e comunicato ufficialmente che «gli esami sono uguali per tutti». E che dunque gli studenti dislessici non potranno più usare i correttori automatici che li aiutano nelle prove scolastiche. Se qualcuno di loro insisterà nel farlo, la sua scuola dovrà informare l’ispettorato competente, e il «colpevole» si vedrà dedurre dei punti nel giudizio finale. «È un’iniquità», hanno protestato la maggioranza dei partiti in Parlamento, e le associazioni che raccolgono le famiglie dei ragazzi dislessici. Ma il ministero dell’Educazione è deciso a non mollare: un’ingiustizia, si afferma, sarebbe favorire alcuni ragazzi a scapito di altri, e comunque «i punti deducibili dal giudizio sono limitati».

I dislessici in Europa

In Europa ci sono circa 23 milioni di persone che soffrono di disturbi di tipo dislessico, in Italia un milione e mezzo-due milioni. Questi disturbi hanno un’origine neurobiologica, e non sono legati in alcun modo all’intelligenza. Possono causare differenze e difficoltà di apprendimento nel leggere (dislessia, appunto), nello scrivere (disgrafia e disortografia), nel calcolo dei numeri (discalculia), nel coordinamento dei movimenti (disprassia). Ma ormai sono ben conosciuti da scuola e società in quasi tutti i Paesi sviluppati, e in genere non impediscono una vita produttiva, serena, a volte anche di grande fama e successo: erano dislessici, secondo una nozione comune, geni come Leonardo da Vinci, Albert Einstein, Thomas Edison, Pablo Picasso e molti altri.

Cosa è previsto in Italia

Oggi, però, la scuola in Olanda si pone — e in prospettiva pone alle altre scuole d’Europa — un presunto problema didattico e anche etico di equità, di «uguaglianza». In molti Stati i controllori-correttori automatici supportano normalmente gli studenti dislessici negli esami che richiedono un giudizio sulla grafia, ortografia, e compitazione, e sono uno strumento di sostegno universalmente accettato. Come tanti altri. In Italia, per esempio, la legge prevede per gli alunni con «Dsa» (disturbi specifici di apprendimento) piani didattici personalizzati con un’ampia serie di «strumenti compensativi»: dalla calcolatrice ai programmi di videoscrittura con correttore ortografico, al registratore che può risparmiare all’alunno la compilazione degli appunti, a formulari e tabelle. Quanto ai dubbi olandesi sull’«uguaglianza», i testi del nostro ministero dell’Istruzione sembrano tagliarli alla radice: «Tali strumenti sollevano l’alunno o lo studente con Dsa da una prestazione resa difficoltosa dal disturbo, senza peraltro facilitargli il compito dal punto di vista cognitivo». Ci sono anche le cosiddette «misure dispensative»: sono interventi «che consentono all’alunno di non svolgere alcune prestazioni che, a causa del disturbo, risultano particolarmente difficoltose e che non migliorano l’apprendimento. Per esempio, non è utile far leggere a un alunno con dislessia un lungo brano, in quanto l’esercizio, per via del disturbo, non migliora la sua prestazione nella lettura». Ancora, sono previste le interrogazioni programmate, l’uso del vocabolario e «forme di verifica e valutazione personalizzata». E a quanto pare, alla fine anche qui «gli esami sono uguali per tutti», proprio come esigono i professori dell’Aia.

Dislessia, meno diagnosi e più bravi maestri

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 3 novembre 2016


Pubblichiamo l’intervento dell’insegnante Pietro Bordo
che ripropone l’allarmesull’eccesso di diagnosi di dislessia e di terapia verso i bambini che hanno problemi di apprendimento a scuola.

Siamo all’interno di un dibattito che prosegue da tempo e che contrappone due schieramenti: chi solleva dubbi sulle troppe diagnosi (arrivate a sfiorare il 5% della popolazione scolastica) e chi ribadisce, invece, l’indiscutibile conquista della legge 170 del 2010 che, avendo dato un nome a questi disturbi, ha finalmente aiutato bambini e insegnanti.

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Questo in corso è il mio 44esimo anno di insegnamento nella scuola primaria (la scuola elementare; quattordici anni nella parificata, ventuno nella paritaria “d’elite” e otto nella pubblica), tutti a Roma. Con la mia esperienza vorrei evidenziare quello che è l’errore che, secondo me, oggi rischia di danneggiare tanti bambini.

Il mondo scolastico è ormai caratterizzato da un tecnicismo esasperato (DSA, BES,…), per il quale a volta invece che di bambini mi sembra di parlare di robotini, con i relativi software disciplinari e comportamentali.

Una ricerca nelle scuole romane pubblicata cinque anni fa mostrava, ad esempio, che il numero di bambini dislessici è sovrastimato. Ne consegue un spreco di risorse ma soprattutto, per il bambino. un’inutile medicalizzazione; anzi, a volte mi sono accorto che è un danno.

“È grave il problema dell’eccesso di diagnosi spesso errate”. Lo ha dichiarato il direttore dell’Istituto di Ortofonologia (IdO) di Roma, Federico Bianchi di Castelbianco, dopo un’indagine condotta qualche anno fa in numerose scuole materne ed elementari per individuare i bambini a rischio di Dsa. Dalla ricerca è emerso che nelle scuole materne ed elementari di Roma circa il 23% dei bambini viene erroneamente indicato a rischio di tali disturbi, ovvero con significative difficoltà nella lettura, scrittura e nel ragionamento matematico.In realtà secondo gli esperti in questa percentuale vi sono anche bambini con difficoltà di tipo minore, definibili come secondarie, o a basso rendimento scolastico, e non come Dsa. Una precisazione che abbassa la percentuale dei bambini a rischio al 4%.
«Segnalare come dislessici bambini che in realtà non lo sono comporta due gravi rischi», ha spiegato Federico Bianchi di Castelbianco. «Innanzitutto i bambini vengono dirottati su percorsi alternativi come portatori di una disabilità che non hanno, con oneri economici non sostenibili e totalmente inutili. Inoltre il loro problema non solo non verrà affrontato ma lascerà un vuoto di conoscenze che si ripercuoterà pesantemente sul loro curriculum scolastico».

La scuola, spiega Bianchi di Castelbianco, «può avere un ruolo fondamentale nell’evitare di inviare dagli specialisti bambini che non hanno davvero problemi di apprendimento. Per questo serve la formazione degli insegnanti. Anche per evitare che loro stessi vedano come soggetti a rischio bimbi che non lo sono».

Anche Daniela Lucangeli, presidente del Cnis, professore ordinario di psicologia dello sviluppo e dell’educazione dell’università di Padova, in un articolo pubblicato qualche anno fa su ‘Il Giornale di Vicenza’, non ha esitato a definire allarmante il notevole numero di diagnosi di disgrafia, dislessia e discalculia.  Parla di troppe diagnosi affrettate, troppe certificazioni Dsa (disturbi specifici dell’apprendimento). Dice che molto più spesso invece si tratta di bambini con difficoltà di apprendimento che possono migliorare, e di molto, semplicemente cambiando metodo di insegnamento.

E quante volte ho dovuto variare metodologia nei miei anni in cattedra: lo stesso modo di insegnare non può andare bene per tutti gli allievi. Purtroppo, generalmente, non si va ad indagare sui metodi didattici utilizzati dall’insegnante. Una delle cause di così tanti errori e difficoltà degli alunni è stata individuata da molti specialisti, ad esempio, nel Metodo Globale, ora utilizzato da molti maestri nella scuola elementare. E pochi parlano delle classi pollaio, che quindi vanno bene: è l’alunno che è affetto da “disturbi”.

Ricordiamoci che nel Manuale Statistico e Diagnostico, il testo utilizzato per le diagnosi delle malattie mentali, dove tra l’altro sono riportati anche i DSA, tutte le malattie mentali sono indicate come disturbi.

A mio avviso, bisognerenne  fare un passo indietro sulla legge 170/2010 sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento se non si vuole creare un generazione di incapaci, insicuri, ignoranti e facilmente manovrabili, come ha scritto Frank Furedi, Professore di Sociologia: «Se l’attuale tendenza continua, presto ci sarà poca differenza tra una scuola e una clinica per malattie mentali… se consideriamo le sfide della vita come un’esperienza cui i bambini non possono far fronte, i ragazzi raccoglieranno il messaggio e le considereranno con terrore. Tuttavia, se la finiamo di giocare a fare il dottore ed il paziente e aiutiamo invece i bambini a sviluppare la loro forza attraverso l’insegnamento creativo, allora i piccoli inizieranno a tener testa alle situazioni… proteggere i bambini dalla pressione e dalle nuove esperienze rappresenta una mancanza di fiducia nel loro potenziale di sviluppo attraverso nuove sfide». (F. Furedi, The Express, 20 maggio 2004).

Qualche anno fa operavo in modalità di prevalenza oraria su una singola classe (avevo tutte le materie, escluse motoria, musica ed inglese). Durante un incontro di formazione di insegnanti della scuola primaria, ad un insigne neuropsichiatra, direttore di un istituto di Firenze, che aveva detto che in ogni classe c’è generalmente almeno un alunno affetto da dislessia, rivolsi questa domanda: “Perché  io non ho mai avuto alunni dislessici?”. La risposta, intellettualmente onesta, fu che in modalità di prevalenza un forte motivatore, professionalmente preparato, in grado di stabilire una relazione significativa con l’alunno, poteva portarlo, in sintonia e quindi in sinergia con i genitori, a superare le sue difficoltà non gravi senza altri interventi esterni.

So che se questo testo sarà pubblicato mi farò molti nemici. Ma non nella mia scuola dove per me e per tante bravissime colleghe, come per la mia Preside, che lo ripete ad ogni inizio di anno scolastico, al primo posto ci sono i bambini.

Pietro Bordo