Cosa deve mangiare un calciatore e quanto prima della partita

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Riccardo Renzi

DATA: 23 marzo 2017

I medici della Serie B hanno pubblicato una Guida Nutrizionale per i giocatori che li aiuti quando i match sono in orario pasti: tutti i consigli sui cibi e le tempistiche giuste

Lo «spezzatino»

Tecnici e allenatori si lamentano da tempo peraltro del cosiddetto “spezzatino” delle partite di campionato, giocate anche a quattro orari diversi, che costringono a riprogrammare continuamenti i tempi di allenamenti e pasti. Non ci preoccupa troppo la salute dei calciatori professionisti, seguiti da staff di medici e nutrizionisti che sanno il fatto loro. Più delicato è il discorso dei milioni di calciatori dilettanti, dai ragazzi dei centri sportivi e delle scuole calcio agli appassionati dei tornei amatoriali, abituati da sempre allo “spezzatino” degli orari: i ragazzi che giocano o si allenano nel primo pomeriggio dopo la scuola o più tardi, prima di cena, o gli adulti che indossano le scarpette alle ore più astruse, compatibili con la loro attività.

 

Il manuale del pasto per il calciatore

Come si preparano a giocare dal punto di vista dell’alimentazione? Ad aiutarli ci ha pensato la serie B, o meglio la Commissione medico-scientifica (unica fra tutte le leghe) della Lega Nazionale Professionisti B, pubblicando una “Guida nutrizionale” che si rivolge a tutti i praticanti del calcio, non solo ai professionisti. È una dieta del calciatore, un manualetto chiaro e divulgativo che non può trasformare nessuno in un Ronaldo, ma certamente aiuta a evitare che lo stomaco diventi protagonista in campo, che i muscoli si blocchino per i crampi e che l’allenatore vi cacci per la lentezza di riflessi e la pesantezza della corsa, causate da un pasto non idoneo. E permette soprattutto di godere appieno dei benefici di una sana attività sportiva. «Abbiamo ritenuto utile riempire un vuoto, quello dell’informazione scientifica sulla nutrizione connessa all’attività sportiva in generale e al calcio in particolare – dice Francesco Braconaro, che è presidente della commissione e responsabile sanitario della serie B- . A scuola, anche quando si fa educazione alimentare, mancano informazioni relative alle diete dello sportivo. Tutti poi lanciano allarmi sull’aumento dell’obesità infantile in Italia, problema che si può affrontare soltanto combinando un’alimentazione equilibrata con l’attività sportiva. Ed è quindi importante affrontare insieme i due temi».

 

Non solo cosa, anche quando mangiare

«Nel calcio in generale non si sta molto attenti all’alimentazione, è vissuto come un gioco, almeno fino a quando non si entra in una struttura professionistica – dice Loredana Torrisi, dietista del dipartimento di Medicina del C.O.N.I, e principale compilatrice delle guida - . I ragazzi non sanno che cosa è meglio mangiare e soprattutto quando. Molto spesso si inseguono leggende metropolitane più che vere norme dietetiche: un tempo per esempio c’era il mito della carne come “benzina” del calciatore, poi si è passati ai carboidrati (soprattutto la pasta) come vero toccasana, abolendo del tutto carne e proteine. Poi sono arrivate le energy e le sport drink, che possono essere utili ma vanno usate nel modo giusto. Insomma, abbiamo cercato di fare ordine in tutto questo».

 

Nutrirsi 2-3 ore prima di giocare

La nuova “Guida nutrizionale” si basa su alcune indicazioni molto semplici, le regole del pallone d’oro: i cinque pasti giornalieri (compreso lo spuntino di metà mattina), con particolare attenzione alla prima colazione, che può essere ricca di zuccheri o anche di proteine (uova, formaggi freschi) e in generale un equilibrio nutrizionale basato sull’ormai classica piramide alimentare mediterranea (50-55% di carboidrati semplici o complessi, 20% di proteine, 25-30% di grassi). Acqua sempre, poca per volta, alcol neanche parlarne, bevande non troppo zuccherate. Regole che devono poi essere declinate a seconda del sesso (ci sono anche le calciatrici), dell’età e naturalmente dell’intensità dell’attività sportiva. E soprattutto, ed è questa la parte più originale e pratica della guida, a seconda dei tempi, come cioè distribuire il giusto apporto energetico in relazione all’orario della partita, che comporta inevitabilmente uno spostamento dei diversi componenti nutrizionali e obbliga in molti casi a saltare uno dei pasti prescritti. Caposaldo dell’orologio biologico del calciatore è la regola che impone che l’ultimo pasto importante prima della partita debba avvenire 2-3 ore prima di scendere in campo. Nel tempo di attesa bere acqua e bevande a bassa concentrazione di zuccheri, al massimo qualche cracker o biscotto secco se si avverte sensazione di fame.

 

Come reintegrare dopo lo sforzo

Dopo la partita entro mezz’ora frutta fresca e secca, succhi di frutta, bevande sportive, cracker, anche latte o gelati. Ma nel pasto precedente e , attenzione, anche in quello seguente, niente cibi troppo grassi, fritti, sughi elaborati. L’altro punto fermo è naturalmente la pasta, che il calcio italiano ha vittoriosamente esportato in tutto il mondo e che costituisce il piatto forte prima (sempre due-tre ore) della partita, anche quando l’incontro è a mezzogiorno, se vi sentite di farvi un piatto di spaghetti alle 10 del mattino. Si parla ovviamente di una pasta leggera, al pomodoro e basilico, niente amatriciane o carbonare, accompagnata da dolci da forno (niente tiramisù). E la carne, quando introdurla? E i formaggi? Dipende appunto dagli orari. La guida propone, a seconda dell’ora del fischio d’inizio, veri e propri menu per tutta la giornata, partendo anzi dalla sera prima. Così come analizza analiticamente l’uso delle bevande “sportive”, che sono di diversi tipi, e la questione cruciale dei tempi di digestione dei vari cibi. Molta informazione insomma, pratica e scientifica nello stesso tempo. «Abbiamo cercato di traferire – spiega Braconaro – dall’esperienza del mondo professionista un modello che possa essere utile alla complessa realtà del mondo giovanile e del mondo sportivo amatoriale». Non solo per gli emuli di Messi e Icardi, quindi. E chissà che anche Sarri non ne possa trarre qualche spunto.

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Calciatori e alimentazione: schemi dietetici in relazione all’orario di inizio della partita

 PER SCARICARE LA GUIDA NUTRIZIONALE DEI MEDICI DELLA SERIE B

http://www.legab.it/fileadmin/user_upload/pdf/guida_nutrizionale_ok.pdf

 

 

Dislessia, diagnosi precoce (in età prescolare) e videogiochi fin da piccoli per arginarla

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Daniela Natali

DATA: 17 marzo 2016 

In chi ha problemi con la lettura sono non di rado carenti le capacità visuospaziali che possono essere migliorate con specifici software ricreativi

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Quando di parla di dislessia, su un’affermazione sono tutti d’accordo: la diagnosi precoce è fondamentale. Sia per iniziare quanto prima un’azione di recupero, sia per evitare che i primi approcci con la scuola si traducano in una débacle tale da scoraggiare i bambini e farli sentire, una volta per tutte, inadeguati. Una dislessia «certificata» permette infatti ai bambini, o meglio ai loro genitori, di chiedere - e agli insegnanti di concedere - una serie di misure compensative: dal tempo in più per svolgere i compiti in classe, all’uso delle tabelline scritte, alla maggior attenzione al contenuto, che alla forma, dei primi “temi”. Ma se fino ad oggi le diagnosi arrivavano, in genere, tra la fine della prima e l’inizio della seconda elementare (e in alcuni casi solo alle medie o oltre), adesso un nuovo metodo promette di individuare i disturbi di apprendimento già a due, tre anni. «Diagnosi in fase prescolare in realtà già si possono fare - puntualizza Stefano Vicari, direttore della Unità operativa complessa di neuropsichiatria infantile del Bambino Gesù di Roma -, basandosi sulle difficoltà di linguaggio. Non si tratta di un generico parlare in modo troppo infantile per l’età cronologica, ma avere difficoltà metafonologiche, cioè nella distinzione dei diversi suoni - e quindi delle diverse future lettere - che compongono una parola». 

 

 

Un nuovo metodo

Non sempre però queste difficoltà sono in grado di predire una futura dislessia, e c’è anche chi non le ha, ma ugualmente diventerà un alunno dislessico. Ora un gruppo di studio - che fa capo al Developmental & Cognitive Neuroscience Laboratory dell’Università di Padova, guidato dal dottor Andrea Facoetti, in collaborazione con il professor Simone Gori dell’Università di Bergamo, entrambe ricercatori anche all’IRCCS Medea di Bosisio Parini - ha elaborato un nuovo metodo per individuare i disturbi di apprendimento che si basa sulla valutazione dell’attenzione visuospaziale. Cioè l’abilità ad estrarre da un contesto complesso le informazioni rilevanti, “oscurando” quelle irrilevanti. Abilità che si sviluppa a due anni e che si può valutare con semplici test. «Il nostro lavoro, pubblicato su Current Biology - spiega Facoetti - è nato da ricerche di psicofisiologia iniziate negli anni Ottanta, in cui si metteva in rilevo che chi legge male ha problemi anche nell’elaborazione visiva che avviene nella parte alta del cervello, il sistema dorsale; mentre il circuito cerebrale ventrale, legato all’ortografia, poteva non denotare problemi». Ma come può avere un ruolo la parte del cervello legata alla percezione del movimento con la lettura? I fogli stanno fermi... « Sì ,ma quando si impara a leggere - chiarisce Facoetti - si devono vedere le varie lettere come un “insieme” che compone la parola. E quando si passano a leggere delle frasi intere, si deve essere in grado di vedere la parola assieme a tante altre». Come si può migliorare l’abilità visuospaziale ? «Con un metodo certo non sgradito ai bambini: i videogiochi di movimento. A patto che non siano violenti, per ovvie ragioni, vanno bene anche quelli in commercio, ma ora nel nostro laboratorio - anche grazie a un finanziamento che si spera arrivi dalla Comunità europea - stiamo elaborandone alcuni mirati ai disturbi di apprendimento. Ci saranno video giochi per migliorare la capacità visiva, altri per imparare a segmentare le parole, altri ancora per accelerare la capacità di accedere dalla visione dell’oggetto al suo nome, un’abilità carente nei dislessici. I video saranno adatti a bambini dai quattro-cinque anni, usati prima dell’età scolare potrebbero prevenire la dislessia». 

Il problema della memoria di lavoro

«Teniamo anche presente - aggiunge Giacomo Stella, professore di psicologia clinica alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia - che in chi soffre di dislessia, oltre a esserci problemi di attenzione visuospaziale, c’è un problema di memoria di lavoro . Faccio un esempio: se scriviamo una parola sul bagnasciuga, la sabbia, compattata, “trattiene” quello che scriviamo. Il dislessico è come se scrivesse sulla sabbia asciutta, i segni si cancellano mentre vengono tracciati. Se l’insegnante dice: “scrivete duemilatrecentosessantacinque”, il dislessico sbaglia perché, mentre scrive, dalla sua memoria di lavoro scompare la prima parte del numero. E non va certo meglio nella comprensione del testo: si perdono per strada le parole e le frasi. Migliorare le capacità di lettura con la logopedia è utile, ma non basta. Esiste però il brain training, un lavoro, in parte svolto al computer, in parte con carta e penna, che serve a potenziare la memoria di lavoro». 

Disarmonie

«Adesso in letteratura i disturbi del calcolo - aggiunge Daniela Lucangeli , docente di Psicologia dello Sviluppo all’Università di Padova - sono considerati disarmonie dello sviluppo, con componenti genetiche e soprattutto epigenetiche. Poiché questa disarmonia nasce da un incrocio tra geni e ambiente, quello su cui possiamo agire è l’ambiente. E quindi il modo con cui si insegna. Se noi diciamo la parole “aria” e poi la ripetiamo al contrario otteniamo “aira”: qualcosa privo di senso. Viceversa se scriviamo “123” e poi lo capovolgiamo, ottenendo “321”, abbiamo qualcosa di sensato. Insegnare la matematica come se fosse una lingua porta ai risultati terribili che hanno i nostri studenti nei test ed è “veleno” per i dislessici che diventano automaticamente anche discalculici, mentre la discalculia vera che è una totale “cecità al numero”, ed è innata, è rarissima. Meno calcolo scritto e più a mente aiuterebbe a comprendere il concetto di quantità, ma nelle nostre scuole il calcolo a mente sta a quello scritto in un rapporto di 1 a 10. Si imparano automaticamente procedure di calcolo ma non le si “intendono”». 

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Internet e computer non aiutano a migliorare le performance degli studenti. Ma è questione di tempo

FONTE: Il Sole 24 Ore

AUTORE: Luca Tremolada

DATA: 15 settembre 2015

Le scuole devono ancora sfruttare il potenziale della tecnologia in aula per affrontare il divario digitale e dare ad ogni studente le competenze necessarie nel mondo connesso di oggi. E’ questa la prima conclusione a cui si arriva dopo aver letto il rapporto Students, Computer and Learning dell’Ocse. In pratica, i Paesi che hanno fatto grandi investimenti nelle dotazioni tecnologiche delle loro scuole non hanno risultati apprezzabili nelle performance in lettura, matematica o scienze. E la tecnologia non ha avuto neanche effetti rilevanti per quanto riguarda l’inclusione e nel recupero degli studenti più poveri e disagiati.  Più nello specifico i quindicenni che usano moderatamente i computer a scuola tendono ad avere un miglior apprendimento dei coetanei che lo usano poco o nulla, ma quelli che lo utilizzano in modo massiccio tendenzialmente peggiorano nella lettura, in matematica e nelle scienze. Si legga l’articolo su Nova24tech.   È quello sotto, intitolato   Il computer in classe «da solo» non migliora il rendimento degli studenti. Ma per l'Ocse è questione di tempo

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L’interpretazione dei dati. Secondo l’Ocse una interpretazione di questi risultati è legata a un deficit nell’interazione tra studenti e insegnanti. La tecnologia, scrivono nel report,  “sometimes distracts from this valuable (prezioso) human engagement (“fidanzamento”). Another interpretation is that we have not yet become good enough at the kind of pedagogies that make the most of technology; that adding 21st-century technologies to 20th-century teaching practices will just dilute the effectiveness of teaching. If students use smartphones to copy and paste prefabricated answers to questions, it is unlikely to help them to become smarter. If we want students to become smarter than a smartphone, we need to think harder about the pedagogies we are using to teach them. Technology can amplify great teaching but great technology cannot replace poor teaching”.