Lo sport in adolescenza è il primo fattore protettivo per la salute di corpo e mente

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Bidoli

DATA: 19 settembre 2025

Praticare un’attività regolarmente, soprattutto se in team, migliora l’autostima e la capacità di relazionarsi con gli altri. Il rischio per i giovani è che il risultato e la perfomance rappresentino stimoli distruttivi e non benefici

Correre, saltare, giocare all’aria aperta sin dalla prima infanzia e poi praticare uno sport sono, insieme a una sana ed equilibrata alimentazione, i pilastri della salute a breve e a lungo termine. Secondo le linee guida dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) fra i 3 e i 17 anni si dovrebbe praticare un’attività fisica quotidiana di intensità moderata-vigorosa per almeno un’ora al giorno. Il che significa, per i più piccoli gioco libero, che allenare naturalmente la coordinazione dei movimenti, e per i più grandi, scegliere un’attività sportiva che abbia effetti benefici non solo sulla salute fisica, ma anche mentale. In particolare, in pre-adolescenza e adolescenza, praticare uno sport, specie se di squadra, permette di aumentare l’autostima, di migliorare la gestione dei rapporti con i coetanei e ha impatti positivi sulla qualità del sonno, oltre a tenere lontane cattive abitudini come fumo e alcol.

Praticare sport in adolescenza può proteggere da dipendenze e isolamento ma, perché abbia un impatto significativo, dev’essere iniziato «prima»: è soprattutto nell’infanzia che si adottano abitudini che poi si consolideranno negli anni, ed è in questa fase della vita che si orientano le traiettorie di salute di una persona. Se guardiamo alla situazione in Italia i dati, però, non sono confortanti: il nostro Paese è tra i primi per obesità infantile (17%) e sovrappeso nei bambini fra i 7 e i 9 anni (39%) (fonte European health report 2024, Oms). Tra questi ultimi il 70% trascorre almeno due ore al giorno davanti a uno schermo, a scapito di un’attività motoria, percentuale che tende ad aumentare con l’età, soprattutto tra i soggetti più svantaggiati a livello socioeconomico.

Gioco di squadra contro ansia e frustrazioni

Praticare regolarmente un’attività fisica è fonte di benessere, e questo gli italiani sembrano averlo ben compreso. Negli ultimi 30 anni è in aumento la pratica sportiva continuativa che, per quasi metà del campione interpellato, corrisponde ad almeno un allenamento a settimana. Una consapevolezza che però sembra non appartenere agli adolescenti: il cosiddetto dropout sportivo riguarda soprattutto loro, ed è in aumento. Quali sono le ragioni per cui i ragazzi abbandonano lo sport, che nella fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta può essere un’esperienza formativa? Rispondono al Corriere Ilaria Polenghi, specialista in Psicologia Clinica dell’Università Vita-Salute San Raffaele e Stefano Faletti, formatore nazionale del Csi (Centro Sportivo Italiano).

«Lo sport di squadra è un buon alleato nel periodo delicato dell’adolescenza perché promotore di benessere e salute ed è uno dei fattori protettivi per eccellenza rispetto ad alcune psicopatologie: aiuta a gestire ansia, rabbia e le fatiche tipiche di questa fase della crescita — spiega la psicologa —. In alcuni casi, però, può essere anche un fattore di rischio, specie in quelle situazioni in cui la comunicazione è poco sana, molto giudicante, in contesti estremamente performanti nei quali può anche diventare il fattore scatenante di alcune fragilità. Per questo è prioritario costruire una buona rete intorno ai ragazzi così da aiutarli nella regolazione delle emozioni».

Educatori prima di tutto

Al centro della rete di sostegno ci sono gli allenatori che hanno bisogno di strategie nuove per essere efficaci con i giovani di oggi.
«Il ruolo degli educatori sportivi è cambiato molto negli ultimi anni soprattutto perché dietro ai ragazzi, spesso, non ci sono più le famiglie e c’è una povertà di valori condivisi — spiega il formatore sportivo—. Fino a qualche anno fa quando si riprendeva un giocatore perché svogliato, la sgridata o la punizione serviva per stimolarlo a fare meglio. Oggi di fronte a un commento negativo è facile che il ragazzo preferisca cambiare o abbandonare».

Perché i giovani oggi di fronte alle difficoltà tendono a bloccarsi e scelgono di non mettersi alla prova?
«L’idea che mi sono fatto è che valori come spirito di sacrificio, solidarietà e propensione alla collaborazione stiano venendo meno e abbiano lasciato maggiore spazio a egocentrismo, egoismo e a una conclamata incapacità di rapportarsi con gli altri. Basta guardarli quando affrontano le sfide con i videogiochi. Lo fanno preferendo i livelli più bassi dove risultano sempre vincitori. Non c’è da stupirsi, quindi, se poi non riescono ad affrontare la frustrazione di un fallimento reale», continua l’esperto.

In adolescenza il livello sportivo si alza, spesso, a scapito del divertimento. «Con la crescita dei ragazzi ci si dimentica che, oltre alle prestazioni e agli obiettivi da raggiungere, conta in egual modo l’aspetto ludico — sottolinea Ilaria Polenghi —. E questo vale anche per i professionisti. Che significa prevedere degli attimi di relax intorno al momento della partita. Ne è un esempio Sinner che, prima di entrare in campo, è solito giocare a palla con il suo staff. La parte ludica è fondamentale perché è quella che tiene “agganciati” i ragazzi al contesto sportivo e permette di affrontare il match con la giusta serenità. Anche ai genitori va ricordato che ai giovani, oltre agli allenamenti, serve vivere dei momenti più leggeri, in grado di allentare la tensione e mantenere alta la motivazione».

 

La gestione della rabbia

Come gestire la frustrazione sul campo che, talvolta, si trasforma in rabbia?
«In presenza di un discontrollo emotivo di un giocatore che compie un’azione “eccessiva” durante il gioco è necessario che intervenga non solo lo staff sportivo, che dovrebbe avere gli strumenti corretti per gestire questo genere di episodi. Le cose funzionano di più quando riesce il gioco di squadra, non solo tra giocatori, ma tra allenatori, staff e genitori. Il ragazzo che ha sbagliato, o che ha subito un’azione violenta da parte di un avversario, può essere accompagnato, sia singolarmente che con il gruppo, nella rielaborazione dell’esperienza negativa vissuta. Allenatori e preparatori valuteranno che cosa è più efficace fare a livello educativo e in alcuni casi può essere necessario ricorrere a uno specialista, soprattutto se il livello di frustrazione rimane alto nel tempo. Non sempre, però, viene valutata questa possibilità. Si ricorre facilmente a un fisioterapista per un problema muscolare, mentre, molto meno, ci si rivolge a uno psicologo sportivo se il problema è di natura mentale», continua l’esperta.

Livelli di performance

Dietro all’aggressività in campo, in molti casi, c’è la fragilità di chi non ha gli strumenti per affrontare le difficoltà e regolare le emozioni. «Ci troviamo di fronte, sempre più spesso, a “genitori spazzaneve” che cercano di liberare la strada del figlio dai problemi o sofferenze, ma questo non li allena ad affrontare i problemi della vita — spiega Faletti —. Ed è così che la fragilità può diventare rabbia, violenza, arroganza. Di fronte a un ostacolo i ragazzi di oggi rispondono malamente oppure si arrendono. In alcuni casi arrivano a cambiare squadra perché si sentono incompresi, ma nella maggior parte dei casi sono destinati a non trovare mai una realtà in linea con le loro, false, aspettative. E poi c’è il tema del ruolo. All’interno di una squadra, quello da “primo attore” è per pochi, ma non tutti accettano di essere al servizio del gruppo. In questi casi molti ragazzi anziché prendere ispirazione dai migliori, preferiscono rimuginare sulla loro condizione dando la colpa alla sorte o agli allenatori, per poi scegliere di cambiare squadra o abbandonare lo sport».

Ansia da prestazione

La «generazione ansiosa» descritta nel libro omonimo dallo psicologo statunitense Jonathan Haidt affronta con difficoltà le sfide, anche nell’ambito sportivo. Come aiutarla? «Per prima cosa occorre evitare di minimizzare le emozioni e il vissuto che sta provando il ragazzo ma, piuttosto, usare frasi empatiche come, per esempio, “dev’essere una sfida per te affrontare questa gara”, “è normale sentirsi così, ti capisco”, l’approccio dev’essere sempre positivo. Al posto di “calmati” si può dire “respira”, incoraggiando il ragazzo a visualizzare un ricordo positivo, una situazione in cui si è sentito bene, non necessariamente una vittoria, così che possa riprendere consapevolezza del proprio corpo e rilassarsi», consiglia la psicologa. E poi ci sono gli allenatori che devono, per primi, accettare gli errori dei loro atleti.

«Senza errori non si impara, ma se l’errore è vissuto solo come fallimento il ragazzo non può apprendere e questo genera ansia. Per insegnare a rialzarsi di fronte a una delusione andrebbe insegnato che cos’è “la vittoria”, che non è necessariamente, o solo, vincere la partita ma, come per i maratoneti, dare il proprio massimo e migliorare rispetto al proprio record personale, alle proprie capacità», sottolinea il formatore. Prima di ricominciare l’anno sportivo è importante che i genitori si interroghino su ciò che serve davvero ai figli. «Non tutti i giovani si sentono a proprio agio nell’agonismo e possono gestire serenamente prove ad alta intensità. Per questo è importante osservare il ragazzo che abbiamo davanti e pensare al suo benessere, assecondando le sue inclinazioni naturali. Il successo sportivo non è mai più importante del benessere psicologico, anche perché se il benessere psicologico viene meno, il successo sportivo non arriva o non dura. Non è il risultato sportivo a determinare il valore di un’atleta», conclude la Polenghi.

Consigli per gli allenatori

Un buon allenatore deve aiutare il ragazzo a individuare gli obiettivi, mantenendo un atteggiamento positivo. Un portiere, per esempio, dovrà concentrarsi sul parare un rigore, non sulla possibilità che l’attaccante sbagli. E poi bisogna aiutare i ragazzi a dare attenzione al momento, senza pensare al domani: la troppa frenesia porta a bruciare le tappe. Il miglioramento sportivo, è provato, avviene alternando lavoro e riposo ed è proprio il recupero che determina l’obiettivo. A livello mentale ci sono momenti in cui bisogna spingere e altri in cui è necessario staccare la spina. L’allenatore deve capire quando accelerare e quando consolidare ciò che si è appreso. E poi è necessario che ciascuno, compresi i genitori, accetti il suo ruolo senza invadere altri campi ma facendo sempre un gioco di squadra», spiega Stefano Faletti, formatore nazionale CSI.

Consigli per i genitori

«Il punto di vista dei genitori dev’essere sempre e solo fuori dal campo, che significa osservare quello che succede senza mai intervenire da un punto di vista tecnico. I genitori dovrebbero fare il tifo per i propri figli, osservare ed ascoltare. Valutare, in base alla situazione, se intervenire con un supporto attivo (fornendo consigli) o più improntato all’autonomia. I ragazzi hanno bisogno di tempo per elaborare un’esperienza per loro importante, devono avere un margine di autonomia in cui sperimentare delusioni e fallimenti. Solo quando sono in grado di tradurre le loro emozioni in parola possono essere guidati in una riflessione che li aiuti ad aumentare la consapevolezza di ciò che hanno vissuto. Può, invece, essere utile condividere i propri insuccessi con i figli. Uno dei modi migliori per trasmettere un “modello di resilienza” che li aiuti a capire che fa tutto parte del percorso di crescita», spiega Ilaria Polenghi psicologa, Univ. Vita-Salute San Raffaele.

Il ruolo di endorfine, serotonina e dopamina

Praticare uno sport o fare attività fisica regolarmente durante il periodo di crescita, in cui avvengono tanti cambiamenti fisici e psichici, ha un ruolo importante anche per lo sviluppo del cervello. «Da un punto di vista neurobiologico muoversi stimola il rilascio di endorfine, della serotonina e della dopamina, che sono neurotrasmettitori legati al benessere, alla regolazione dell’umore, alla parte cerebrale che attiva “la motivazione” che guida le nostre azioni — spiega la psicologa Ilaria Polenghi —. Tra gli effetti dello sport c’è anche la riduzione dell’ansia e dello stress tantoché muoversi ha un effetto ansiolitico, particolarmente utile per supportare le fragilità, in aumento, delle nuove generazioni. L’attività sportiva consente a corpo, mente ed emozioni di agire insieme e permette di vivere nel presente, nel mondo reale dell’offline, in cui poter rimanere concentrati sul “qui e ora” senza dover pensare al domani che, come sappiamo, è motivo di stress e incertezze per l’intera società, ma soprattutto per i più giovani.

«A questo si aggiunge il valore che un’attività sportiva dà a livello relazionale e identitario. Lo sport offre uno spazio in cui i ragazzi possono mettersi alla prova, affrontare le proprie insicurezze, sviluppare capacità come resilienza, gestione della frustrazione, disciplina. Se poi si pratica un’attività di squadra, è lo spazio ideale per imparare a comunicare, a collaborare, a rispettare il proprio ruolo e quello degli altri, così come è un’esperienza che obbliga ad accettare regole e decisioni che poi tornano utili dentro e fuori dal campo di gioco. Perché si possa beneficiare degli effetti dello sport ha un ruolo cruciale l’allenatore che deve vedere il singolo anche nel gruppo e tenere presente che ognuno ha le sue sensibilità. Alcuni ragazzi hanno bisogno di toni più decisi, con altri è più efficace ritagliare un momento dedicato per confidarsi e commentare il da farsi, ma a bassa voce. In generale contano soprattutto i gesti, che non devono mai essere aggressivi, giudicanti e poco empatici».

Le sfide del Centro Sportivo Italiano

«Oggi più che mai, il CSI è chiamato ad affrontare sfide cruciali, prima fra tutte quella del contrasto alla sedentarietà, fenomeno in crescita, anche tra i più giovani, nonostante una maggiore consapevolezza sugli stili di vita sani. Con circa 14 mila società attive in tutta Italia, il Centro Sportivo Italiano apre ogni giorno le porte a tutti, indipendentemente da abilità, provenienza o condizione sociale: questo impegno per un’inclusione concreta nasce dalla nostra visione dello sport come strumento di giustizia sociale. Ma perché questi obiettivi possano essere raggiunti, occorre prima di tutto difendere la tenuta dei valori sportivi autentici: rispetto, gioco di squadra e lealtà. Restituire ai bambini e ai ragazzi il diritto di giocare, crescere e divertirsi attraverso la pratica sportiva significa promuovere il loro benessere fisico e psicologico e, allo stesso tempo, difendere il futuro dello sport stesso», ha dichiarato Vittorio Bosio, presidente nazionale del CSI.

13 settembre 2025

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Adolescenti e salute, come gestire al meglio l’età più difficile dei figli

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Elena Meli

DATA: 9 giugno 2014

Età difficile per eccellenza, l’adolescenza è una fase complicata per tutta la famiglia: per i ragazzini, in balia di un processo di cambiamento e crescita, fisica e psicologica, che li destabilizza, e per i loro genitori, in difficoltà di fronte al rebus di figli che da un giorno all’altro sembrano diventare “altre persone”. Per di più è un’età in cui nella maggior parte dei casi si è sani, ma in cui possono svilupparsi problemi con “strascichi” che condizionano tutta la vita futura, dalla dipendenza dal fumo alle malattie sessualmente trasmesse. Come assicurarsi, allora, che i figli crescano in salute e non corrano rischi?

 

Raccomandazioni ai genitori

«La prima raccomandazione per i genitori è che siano presenti nella vita degli adolescenti, in modo discreto ma attento — osserva Piernicola Garofalo, presidente della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza —. Spesso mamme e papà oscillano fra allarmismo e indifferenza, invece bisognerebbe essere sentinelle mute, per accorgersi subito dei segnali di allarme. Purtroppo, molti genitori sono i primi a chiudere le porte della comunicazione con i figli, perché, ad esempio, non sono mai a casa: i ragazzini hanno bisogno di sapere che qualcuno li sta seguendo, è presente, è un riferimento a cui rivolgersi». Osservare è il primo passo per accorgersi se qualcosa non va, come conferma Giuseppe Di Mauro presidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale: «Tutti i bruschi cambiamenti della quotidianità devono insospettire: un calo netto e repentino del rendimento scolastico, un isolamento marcato, l’abbandono dello sport, una variazione nel rapporto con il cibo sono tutti indici di un disagio da indagare con discrezione». Andarci con i piedi di piombo sembra indispensabile per non scontrarsi con un muro impenetrabile di mutismo, rischiando di complicare ancor di più i rapporti. In questo può aiutare, allora, il pediatra di famiglia, con cui i ragazzi spesso riescono a confidarsi più che con mamma e papà.

 

«Check-up» a otto anni

«Il momento giusto per un “check-up” è il “bilancio di salute”, che dagli otto anni in poi dovrebbe essere eseguito almeno ogni due anni, meglio se una volta l’anno — riprende Di Mauro —. Si tratta di una visita in cui si controllano il peso, l’altezza, la pressione, la schiena, l’apparato genitale e tutto il resto, ma che diventa l’occasione per parlare e capire se qualcosa non va. Un vero strumento di prevenzione, perché, oltre a valutare se è tutto a posto e consigliare, se serve, una visita dallo specialista del caso, è soprattutto un’occasione per educare le famiglie e presentare opportunità preziose, come la vaccinazione contro il papilloma virus, da proporre a tutte le dodicenni per prevenire il tumore al collo dell’utero in età adulta: la copertura vaccinale in Italia non arriva al 50 per cento proprio perché spesso “perdiamo” il contatto con gli adolescenti che, non avendo problemi evidenti di salute, non vengono dal medico. I bilanci invece vanno fatti, perché sono la chiave per avere ragazzi sani». In Italia non sono obbligatori e sta quindi ai genitori e al pediatra “impegnarsi” per farli regolarmente.

 

Gli screening

Oltre a questi check-up generali, servono anche periodiche analisi del sangue e test più accurati? Alcune linee guida, ad esempio quelle del National Heart, Lung and Blood Institute statunitense, raccomandano lo screening per il colesterolo, la glicemia e altri parametri già a partire dai 9-11 anni, ma non tutti sono d’accordo e l’American Academy of Pediatrics, ad esempio, non consiglia test a tappeto su tutti i ragazzini. «Lo screening va guidato. Fare regolarmente le analisi del sangue a tutti gli adolescenti non serve, né avrebbe un buon rapporto costo-beneficio — spiega Garofalo —. Il medico deve individuare i “lati deboli” del ragazzo che cresce, in base alla sua storia personale e familiare: se il papà ha il diabete sarà opportuno stare attenti a non farlo ingrassare, perché altrimenti rischia di ammalarsi pure lui e in giovane età; se una sorella è intollerante al glutine e c’è qualche lieve sintomo sospetto, sarà bene fare i test per la celiachia».

 

Cattive abitudini

Fra le “minacce” che mettono più in pericolo la salute degli adolescenti ci sono diverse cattive abitudini, prima fra tutte l’alimentazione sregolata: uno studio statunitense appena pubblicato su Public Health Nutrition spiega, ad esempio, che alle soglie della pubertà la qualità degli spuntini e dei pasti inizia a diminuire, per diventare pessima in piena adolescenza a causa della maggior libertà e dei pasti consumati fuori casa assieme agli amici. «Una dieta adeguata è senza dubbio fondamentale a questa età, così come spronare allo sport perché diventi una sana passione con cui occupare il tempo libero: purtroppo, invece, proprio nell’adolescenza molti abbandonano l’attività fisica — dice Di Mauro —. Va incentivato il movimento all’aria aperta, organizzato e non, anche per “salvare” i ragazzi dalla prigionia di computer, tablet e cellulari su cui spesso si isolano, rischiando vere e proprie dipendenze con ripercussioni psicologiche gravi che possono arrivare fino alla depressione. Altrettanto importante è parlare con i ragazzi dei danni da fumo, alcol e abuso di sostanze, insidie molto concrete per la loro vita: mettere la testa sotto la sabbia non serve, occorre discuterne». «Purtroppo i giovanissimi hanno una fruizione spesso acritica di queste sostanze, non le scelgono per trasgredire ma solo perché il contesto li porta a farlo, per questo serve informarli sulle conseguenze — osserva Garofalo —. Anche i disordini alimentari sono molto frequenti fra gli adolescenti, in costante crescita pure fra i maschi, così come sono un grande pericolo le malattie sessualmente trasmesse o le gravidanze indesiderate: non c’è un’educazione alla corporeità, si fa sesso in modo sconsiderato perché tutti lo fanno, banalizzandolo, senza pensare alle conseguenze. È invece indispensabile educare i ragazzi alla sessualità; è assurdo che non si parli di contraccezione responsabile e poi le ragazzine vadano in cerca della pillola del giorno dopo». «Una gravidanza indesiderata, l’HIV, una dipendenza da sostanze sono problemi che poi cambiano radicalmente il futuro. Gli adolescenti sono sani, ma hanno il potenziale per farsi molto, molto male. Per questo genitori e pediatri devono star loro vicino, parlare, informarli: solo così cresceranno consapevoli dei pericoli a cui potrebbero andare incontro» conclude Di Mauro.

Si parla molto e si comunica poco. Che fare se i figli «non ascoltano»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Marta Ghezzi

DATA: 16 maggio 2014

Le parole che educano sono poche. L’errore più frequente? Mortificare 
Per educare non è sufficiente parlare, serve l’esempio e la regola

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La frase è nota. Un refrain comune a nove genitori su dieci: «Mio figlio non mi ascolta». Il ragazzo con le orecchie sigillate ha, in genere, un’età in zona adolescenza, ma con sempre più frequenza il «disturbo» colpisce, stranamente, anche la prima infanzia. Non c’è tono, pacato, normale, stridulo, acuto, imperioso, che riesca a raggiungere, e superare, la barriera del timpano filiale. È una cosa che diverte molto il pedagogista Daniele Novara. Nel suo simpatico accento emiliano ricorda a mamme e papà che: 
A. l’idea non ha base scientifica. 
B. al contrario, i bambini sono normalmente portati ad ascoltare i genitori.
La prova? Il bilinguismo. Se in casa si parlano lingue diverse, i piccoli le acquisiscono prestando attenzione alle parole dei genitori. 

Novara sa, però, che il tema comunicazione con i figli è un terreno minato. Delicatissimo. In queste settimane riparte un nuovo ciclo di incontri della Scuola Genitori, ideato dal CPP, Centro PsicoPedagogico per l’Educazione e la Gestione dei Conflitti e sponsorizzato da Doremi Baby, e l’esperto ha deciso portare in cattedra l’argomento. «Farsi ascoltare! Come comunicare efficacemente con i figli» è il tema del suo intervento del 7 aprile alla Sala Provincia, via Corridoni 16 a Milano.

Perché i figli «non ascoltano»? 
«È un problema di natura educativa. I genitori di oggi hanno un modello educativo tipo peluche: morbido, compiacente, servizievole. Così si è creato l’equivoco che per educare sia sufficiente parlare. Un errore serio, perché l’educazione è esattamente il contrario: non si insegna con l’eccesso verbale, tipico delle nuove generazioni, ma con l’esempio e la regola. I problemi sorgono se si sostituisce una buona e chiara organizzazione educativa con le parole». 

Come parlare ai figli? 
«Quando sono piccoli, in modo chiaro e semplice. Se gli si chiede di fare una cosa o gli si affida un compito bisogna evitare la comunicazione ridondante, ricca di dettagli. Gratifica molto il genitore ma crea confusione nel figlio. Viceversa, quando sono adolescenti, bisogna imparare a tenersi a distanza. Dosare le parole per evitare il conflitto, per non farsi trascinare nella bagarre emotiva». 

Le parole dei figli possono essere taglienti. O accendere campanelli d’allarme. Come valutarle?
«Mai prendere troppo alla lettera quello che dicono i figli. Fino ai dieci anni il bambino ha una propensione al pensiero magico. Frasi preoccupanti come “a scuola mi rubano le matite” o “non mi regali mai niente” indicano un’autoreferenzialità che ha ancora caratteristiche magiche. Se ci si attiene solo al senso, si rischia di incagliarsi. L’adolescente, invece, parla spinto dall’enfasi emotiva, per svincolarsi dal controllo genitoriale. Quindi esagera ed esplode con frasi come “se non mi lasci uscire te la faccio pagare”. Il consiglio, quindi, è di ascoltare e cercare di capire cosa si nasconde dietro a una comunicazione magica o enfatica». 

Quale è l’errore più comune che blocca la comunicazione con i figli?
«Mai mortificare. Frasi, purtroppo frequenti, come “sei sempre il solito”,’“non capisci niente”,”non mi posso proprio fidare” sono deleterie. Minano l’autostima e hanno implicazioni negative sulla relazione genitori-figli. Non si arriva al rispetto delle regole con urla e sgridate». 

Per non essere soffocanti e rigidi si sceglie la carta dell’amicizia. Mossa giusta o sbagliata?
«Un clima amichevole in famiglia è piacevole. Ma attenzione: mamme e papà devono accettare la privacy dei figli e il fatto che è giusto che i ragazzi non dicano tutto. Oggi c’è questa nuova genitorialità-online, che permette di seguire, controllare, spiare. Non va bene: si alimenta una morbosità sbagliata, la pretesa di essere i migliori confidenti dei figli è un errore». 

Che fare quando si è esasperati e prossimi a “esplodere”? 
«Sono sempre molto scettico riguardo alle punizioni. Regole chiare e semplici sono lo strumento più efficace per arrivare a un buon livello di comunicazione. Se serve una pausa, penso sia utile provare con la tattica del silenzio attivo. Esplicitato. Di brevissima durata per i piccoli, quattro-cinque minuti al massimo durante i quali i genitori non parlano. Più lungo, ma mai eccessivo, se si tratta di adolescenti fino ai 15-16 anni».