Cosa passa nella mente degli adolescenti?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Chiara Bidoli

DATA: 19 maggio 2024

Il loro cervello è una lente di ingrandimento sul mondo, particolarmente sensibile a cogliere gli stimoli dall’esterno e a vivere nuove esperienze, in un equilibrio precario tra potenzialità ancora inespresse e fragilità

È un periodo unico nella vita dell’individuo in cui si fanno scelte (e rinunce) che definiranno la persona che si sarà in età adulta. L’adolescenza descrive il passaggio dall’infanzia alla completa maturazione, che biologicamente avviene tra gli 11 e i 25 anni, caratterizzato dalla trasformazione corporea e dallo sviluppo dei sistemi neurobiologici (quelli che determinano l’elaborazione delle informazioni e orientano i comportamenti). Questi processi portano a una riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello che andrà a definire molte delle capacità, abilità e modalità che costituiranno il modo di agire e pensare «da grandi».

La nostra identità, come ragioniamo e ci rapportiamo con gli altri trova le sue basi in questa fase della vita ricca di potenzialità, ma anche delicatissima, in cui molto di ciò che viviamo e sperimentiamo, che è in costante rapporto «dialettico» con il nostro patrimonio genetico, ha effetti strutturali a lungo termine. L’esposizione a «fattori positivi», di tipo fisiologico (sonno, alimentazione, attività fisica), relazionale (legami affettivi ed educativi) ed esperienziale (scuola, viaggi, attività), così come quella a «fattori tossici» (utilizzo di sostanze stupefacenti, alcol, insonnia, psicopatologie non trattate) non solo orientano ma plasmano e scolpiscono il cervello. Gli stimoli ricevuti durante l’infanzia generano la formazione di reti neurali che consentono l’apprendimento delle abilità, ma è poi in adolescenza che avviene il fenomeno dell’use it or lose it in cui si sceglie che cosa rinforzare e che cosa «potare» (il fenomeno è detto pruning sinaptico), una selezione che andrà a determinare chi saremo in età adulta.

Se l’adolescenza è un passaggio fisiologico all’età adulta caratterizzato dalla trasformazione corporea e da una profonda riorganizzazione strutturale e funzionale del cervello, che è particolarmente malleabile, plastico e portato all’apprendimento, quella di oggi, che riguarda la cosiddetta Generazione Z, è considerata particolarmente a rischio. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono tra il 10 e il 20% i bambini, ma soprattutto gli adolescenti, che soffrono dal punto di vista psichico, con il 75% delle patologie che esordisce prima dei 25 anni e la metà che presenta sintomi entro i 14 anni, in particolare depressione, ansia e disturbi comportamentali.

 

Perché la Generazione Z è così in crisi? Colpa della pandemia di Covid?

«Quello a cui assistiamo non dipende solo dall’esperienza vissuta durante la pandemia, che certo ha inciso negativamente sulla psiche dei ragazzi. Occorre innanzitutto riconoscere che la nostra epoca è caratterizzata da profonde trasformazioni di “tempo e spazio” a causa dello sviluppo iperbolico e rapidissimo della tecnologia, — spiega Giovanni Migliarese, psichiatra direttore SC Salute Mentale Lomellina Asst Pavia e segretario della sezione lombarda della Società Italiana di Psichiatria —. Negli ultimi anni c’è stato uno stravolgimento degli “assi cartesiani” su cui si basa la nostra esistenza e, come società, siamo ancora in piena trasformazione. Gli spazi sono diventati fluidi, non ci sono confini, il tempo è accelerato: la iper-connessione ci porta a non “staccare mai” e a essere sempre sotto stimolo. Ciò ha un impatto sulla salute psichica di tutti, ma soprattutto dei giovani. Basti pensare che il mondo in cui i ragazzi imparano, giocano e interagiscono è cambiato di più negli ultimi 15 anni che nei 500 precedenti e anche il ritmo di penetrazione dei dispositivi tecnologici è senza precedenti: 38 anni per la radio, 20 per il telefono e solo 2 anni per il tablet.

«Ciò incide particolarmente sui giovani perché le nuove tecnologie rispondono alle tipiche esigenze del periodo adolescenziale: desiderio di condivisione tra pari, volontà a essere sempre “connessi”, tendenza alla sperimentazione, ricerca delle novità. La specifica responsività adolescenziale del sistema del piacere viene costantemente stimolata da social network, giochi online, video e dagli altri prodotti digitali multisensoriali. Il rischio per il cervello è un’iperstimolazione sensoriale, mentre avrebbe bisogno di selezionare le informazioni e avere periodi di riposo (i cosidetti resting state) necessari per elaborare gli inputriorganizzare le reti neurali ed eliminare le scorie prodotte. Di solito questa attività avviene di notte, ma qui c’è un altro punto dolente: il sonno degli adolescenti, per colpa, anche dell’iper-connessione, è spesso disturbato con effetti che riguardano non solo l’aumento del livello di stress ma anche modificazioni sistemiche, tra cui alterazioni degli equilibri ormonali e immunitari», risponde lo psichiatra.

 

Di cosa ha bisogno un ragazzo in questa particolare fase della vita?

«L’adolescente deve poter sperimentare per imparare a conoscersi, per comprendere chi è, domanda centrale del suo compito evolutivo. Ma dovrebbe poter effettuare una sperimentazione reversibile, da cui possa tornare indietro. Un conto è sbagliare e poter rimediare, un conto è fare un errore con conseguenze irrimediabili. Compito dei genitori è, quindi, quello di favorire uno spazio di sperimentazione sufficientemente protetto».

«È inoltre importante che l’adolescente senta che gli si vuole bene. Va precisato che l’adolescenza non arriva all’improvviso, va “preparata prima”, creando un legame affettivo nell’infanzia che significa, molto semplicemente, avere il piacere di “fare cose” insieme e mantenere, negli anni, queste abitudini. Aver creato semplici routine che permettono la condivisione di spazi o momenti è un prezioso investimento nel tempo. Qualsiasi tradizione familiare, come per esempio vedere le partite o un film insieme, diventa un’ancora che, anche nei momenti più conflittuali, consente di “rimanere attaccati” ai figli. È un modo efficace per esserci reciprocamente, anche in quei momenti in cui è più difficile parlare perché si isolano o alzano un muro», dice Migliarese.

 

Se si isolano come si può comunicare con loro?

«Gli adolescenti sono emotivamente molto sensibili e possono avere reazioni spropositate di fronte a situazioni neutre. Quando sono all’interno di una “tempesta emotiva”, che è fisiologica, è inutile cercare di essere razionali e farli ragionare. Occorre reagire senza amplificare la crisi, lasciando che le questioni siano affrontate quando è tornata la calma. Così li si allena al contenimento emotivo, che aiuta a gestire frustrazioni ed emozioni», consiglia l'esperto.

Perché è importante prendersi cura della salute mentale degli adolescenti?

«In adolescenza l’influsso di fattori biologici, psicologici e sociali scolpisce il cervello, potenziando alcune competenze (fisiche, cognitive, relazionali, affettive ed emotive): quello che costruiamo in questi anni varrà poi per tutta la vita, per questo va considerato come un periodo su cui investire e su cui porre particolare attenzione perché è una fase di vulnerabilità neuro-psicologica. «È nel periodo adolescenziale, infatti, che esordiscono la maggior parte delle patologie psichiche che, se non riconosciute e curate, possono influenzare il percorso di vita. L’adolescenza è come la primavera: se si investe bene i fiori si rinforzeranno e durante l’estate (l’età adulta) si potranno cogliere i risultati della semina», spiega Migliarese.

 

I segnali da monitorare

Come capire se certi comportamenti in età adolescenziale sono fisiologici o rientrano in un campo patologico? «Se diventano di una certa intensità e frequenza o se impattano sulla qualità della vita meglio approfondire. Un altro elemento da monitorare è quello delle “reazioni immodificabili”. Si tratta di una sorta di “loop comportamentali” che non consentono al ragazzo di trovare vie di uscita. A tutti capita di affrontare delle difficoltà ma il nostro obiettivo, con il tempo e l’esperienza, è maturare quelle capacità che ci permettono di superarle. Nel corso del nostro sviluppo, e in generale per tutta la vita, perfezioniamo il nostro modo di adattarci e trovare soluzioni alternative. Ci sono alcune difese che funzionano bene fino a un certo momento e poi non funzionano più e occorre diversificare. Se questo non avviene e i problemi si estendono a tutti ambiti è bene parlarne con uno specialista», commenta lo psichiatra.

 

A chi rivolgersi in caso di dubbi o problemi?

«In prima battuta al proprio medico di famiglia, che di solito ha una sufficiente esperienza sulle problematiche di salute mentale e ha un approccio che parte dalla valutazione dei sintomi. In generale, poi, è meglio che il percorso terapeutico abbia un approccio integrato, che possa prevedere la presenza di diverse figure (neuropsichiatra infantile, psichiatra, psicologo...), che ci sia continuità nelle cure durante la crescita e che coinvolga i genitori. Un adolescente in difficoltà riversa sull’ambiente le proprie problematiche e ha bisogno di un supporto ampio che va oltre il momento della “terapia”. E poi che ci siano degli step: avere dei tempi per valutare dove si sta andando permette ai ragazzi di sentirsi “in controllo” nel percorso di cura e ai curanti di valutare gli esiti, evitando pericolose perdite di tempo», conclude Migliarese.

Psicologa Nastri: “L’uso precoce e massiccio di smartphone modifica la massa bianca del cervello…

FONTE: Orizzonte Scuola

AUTORE:  Andrea Carlino

DATA: 2 maggio 2024

Psicologa Nastri: “L’uso precoce e massiccio di smartphone modifica la massa bianca del cervello. Scuola e famiglia per costruire un rapporto sano con la tecnologia”.

A Orizzonte Scuola interviene Federica Nastri, psicologa, criminologa, pedagogista e mediatrice familiare, per un’approfondita analisi del rapporto tra bambini e tecnologia.

Nell’era digitale, l’esposizione precoce e spesso incontrollata agli schermi pone serie questioni sullo sviluppo psicofisico dei più piccoli. La psicologa Nastri ci guida alla scoperta dei segnali di un uso problematico della tecnologia, delle conseguenze a lungo termine e di strategie efficaci per genitori ed educatori.

La maggior parte dei bambini oggi entra in contatto con i dispositivi digitali già nei primi anni di vita, creando una sorta di “prolungamento” degli arti. Questo rende difficile distinguere tra un uso normale e uno problematico, poiché il problema spesso nasce dall’adulto che fornisce il dispositivo al bambino.

Come si accompagna un bambino per strada, così bisogna accompagnarlo nel mondo digitale, educandolo alla prevenzione dei rischi. Condividere esperienze personali e aprire un dialogo basato sulla fiducia può aiutare i bambini a comprendere i pericoli senza spaventarli eccessivamente. Educare i bambini alla gestione del tempo fin dalla tenera età è fondamentale per un uso sano e responsabile della tecnologia. Far sperimentare la noia e l’attesa aiuta a sviluppare la creatività, l’intelligenza emotiva e la capacità di vivere nel mondo reale.

La dipendenza digitale può influenzare negativamente il rendimento scolastico, distogliendo l’attenzione dagli obiettivi e creando difficoltà cognitive e comportamentali. La scuola, in collaborazione con professionisti della salute mentale, può promuovere un uso sano della tecnologia attraverso programmi specifici e attività che stimolino la sfera emozionale, il contatto con la natura e le persone, lo sport e l’affettività.

Dottoressa Nastri, quali sono i segnali di un’esposizione eccessiva agli schermi in bambini così piccoli? Come possono i genitori distinguere tra un uso normale e uno problematico?

Secondo gli studi più recenti, sulle abitudini in ambito tecnologico dei bambini dai 6 mesi ai 4 anni, risulta che il 96,6% utilizza media device e molti di loro iniziano a usarli già nel primo anno di vita.  Comprendiamo quindi che, a oggi, per la maggioranza dei bambini, i dispositivi elettronici rappresentano un vero e proprio “prolungamento” dei loro arti: nascono con loro, crescono con loro, si evolvono con loro inducendoli a una involuzione sotto ogni punto di vista. Fino a un decennio fa potevamo parlare dei “segnali” fondamentali affinché i genitori potessero monitorare l’uso o abuso della tecnologia; ora che l’età di utilizzo è scesa vertiginosamente ai pochi mesi, ahimè, capiamo quanto il problema non dipenda più dal bambino fin troppo piccolo per scegliere individualmente di impiegare il suo tempo muovendo le dita su uno smartphone ma dell’adulto che glielo consegna. Perciò, il tempo trascorso dai bambini molto piccoli davanti agli schermi risulta associato al modo in cui i loro stessi caregiver utilizzano la tecnologia. Pertanto, diviene complicato stabilire già per gli adulti un proprio autocontrollo all’uso, e che ne stabilisca un “uso normale o problematico”. Sicuramente, i primissimi campanelli d’allarme a cui prestare attenzione sono: reazioni spropositate di rabbia e frustrazione, costanti sbalzi d’umore, impulsi incontrollabili nel “controllare” il dispositivo, sintomi d’astinenza nel distacco dall’oggetto vissuto come indispensabile.

Quali sono le conseguenze a lungo termine di un’esposizione precoce e incontrollata agli schermi sullo sviluppo psicofisico del bambino?

Il mondo digitale, rimanda al modello stimolo-risposta, nonché qualcosa di astratto rispetto a un pensiero concreto di qualsiasi cosa. L’utilizzo precoce e massiccio di queste tecnologie, cambia il modo di organizzare la conoscenza del bambino così radicalmente da modificare la struttura della massa bianca del cervello e alterare le aree fondamentali per lo sviluppo del linguaggio, delle capacità di alfabetizzazione e delle funzioni esecutive (memoria, attenzione, inibizione, flessibilità cognitiva, pianificazione). Se il bambino impara a usare questi strumenti prima ancora di iniziare a parlare, il rischio è di focalizzare la conoscenza sullo stimolo specifico, piuttosto che sulle relazioni e interazioni tra oggetti, ciò potrà implicare anche ritardo nello sviluppo motorio, aumento di disturbi alimentari, disturbi del sonno, disturbi dell’apprendimento e disturbi comportamentali, depressione infantile, ansia, psicosi, disturbi della personalità, autismo e infine aumento dell’aggressività e violenza.

Come possono i genitori riconoscere i segnali di dipendenza digitale nei loro figli?

L’uomo è un essere sociale, geneticamente programmato per sopravvivere aggregandosi con la comunità e la tecnologia più si presta per soddisfare il bisogno di connessione degli esseri umani. Come? Estraniandoli e isolandoli. Sembrerebbe un controsenso, eppure l’isolamento, il disinteresse e la dissociazione rappresentano i segnali più profondi di una dipendenza digitale, susseguiti, come dicevamo dalla necessità di trascorrere un numero sempre più cospicuo di ore in connessione, sono sintomi depressivi o ansiosi, agitazione psicomotoria in caso di riduzione o interruzione, riduzione della vita reale e degli interessi lontani dal digitale.

Come possono i genitori parlare ai loro figli dei pericoli online in modo che li comprendano senza spaventarli eccessivamente?

Lascereste mai un bambino da solo per strada? Come gli direste che non può starci da solo? Le infinite vie di internet si snodano tra curve a gomito, discese vertiginose e salite ripidissime, e devono essere ormai considerate come un mondo “reale” e pericoloso in cui un bambino si accompagna e si sostiene. Perciò avviare alla tecnologia (preferibilmente dopo almeno i 4/5 anni) abituando al controllo costante di qualcuno e magari attraverso le app dedicate alle attività di sviluppo sarebbe già un buon modo per indirizzare ed educare alla prevenzione di rischi. Non esiste il discorso perfetto per spiegare la sicurezza informatica ai bambini ma è fondamentale che siano a conoscenza di quanto il mondo virtuale possa nascondere pericoli reali. “Sai, hanno provato a rubarmi l’identità, ed io ho…”, oppure: “Una volta mi hanno preso in giro sul web, così ne ho parlato con la mia famiglia e…”, ecc.. ecc.. questi esempi di dialogo possono rappresentare una modalità di apertura all’argomento attraverso l’immedesimazione e la fiducia reciproca, dando così non solo spiegazione delle problematiche ma anche informazioni su come difendersi.

Come si può aiutare un adolescente a gestire autonomamente il tempo trascorso online e a trovare un equilibrio sano tra vita digitale e vita reale?

È importante partire dall’infanzia ancor prima che dall’adolescenza, in modo tale da fornire già al bambino piccolo, futuro uomo, quegli strumenti adatti a fronteggiare i passaggi di crescita tanto delicati quanto fondamentali della sua vita. L’educazione al “tempo”, alla dimensione del tempo, alla gestione del tempo e all’impiego di questo sono il principio di ogni sfera umana: individuale, familiare, sentimentale, relazionale e professionale. Far sperimentare la “noia”, senza riempire il “buco”. Far godere dell’attesa, senza azzerarla uccidendo il desiderio. Spronare così alla creatività e indipendenza, sviluppare l’intelligenza emotiva, la possibilità di trasformazione, l’opportunità di evoluzione. II bambino abituato al modello stimolo-risposta avrà difficoltà a gestire il suo tempo di noia e di attesa, avvertito come “vuoto”. D’altra parte perderà il suo tempo in quanto estraniato in un mondo virtuale. Educare alla realtà, e quindi a questo “tempo reale”, è il primo passo per l’educazione alla vita digitale e a quell’equilibrio tra l’essere e il non-essere, esistere e scomparire.

Coma cambia il rendimento scolastico in giovani con dipendenza digitale? Può la scuola contribuire a promuovere un uso sano e responsabile della tecnologia tra gli studenti?

Qualsiasi tipo di dipendenza, e in questo caso nello specifico quella digitale, distrae dall’obiettivo inibendo il raggiungimento dei traguardi. Perciò un dipendente dalla tecnologia avrà come priorità estrema un mondo virtuale lontano dalla realtà e quindi lontano anche dall’interesse per le cose, le persone, le relazioni, lo studio e l’apprendimento. Sarà privato della curiosità proprio perché abituato ad un modello stimolo-risposta che è opposto alla conoscenza profonda e autentica. A ciò si aggiungono le difficoltà cognitive, comportamentali e delle funzioni esecutive alimentate dall’abuso dei dispositivi digitali che implicano disturbi dell’apprendimento e di conseguenza un abbassamento del rendimento scolastico. In particolar modo, le evidenze scientifiche dimostrano come il disturbo di attenzione e iperattività (ADHD) sia correlato a tale dipendenza. Affinchè venga fronteggiata una situazione di emergenza simile, è necessario che la scuola collabori innanzitutto con professionisti della salute mentale creando percorsi specifici per genitori/figli, genitori/figli/istituzione scolastica. Solo un costante e collaborativo monitoraggio e potenziamento della sfera emozionale, delle attività a contatto con la natura e le persone, dello sport, e della stimolazione affettiva possono promuovere non solo un uso sano e responsabile della tecnologia, ma di tutta l’intera vita dell’individuo.

Scuola, il ritorno del corsivo. «Obbliga a usare il cervello». A Roma un alunno su 5 ha problemi nello scrivere

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: Lorena Loiacono

DATA: 1 dicembre 2023

Scuola, il ritorno del corsivo. «Obbliga a usare il cervello». A Roma un alunno su 5 ha problemi nello scrivere

Diversi Stati Usa reintroducono per legge l’insegnamento della calligrafia. In Italia prof divisi. Lucisano (La Sapienza): «Ma per i bambini è fondamentale»

È arrivato il momento della rivincita del corsivo. Per anni è stato messo da parte, considerato fuori moda, vecchio, complicato. Superato dallo stile stampato che, tipico della scrittura digitale, è di certo più semplice e veloce da imparare. Un bambino su 5 non sa scrivere in corsivo. Ma adesso è il momento di tornare a usarlo. Lo teorizzano gli esperti e lo stanno mettendo in pratica diversi Stati americani a cominciare dalla California dove, a gennaio, entrerà in vigore una nuova legge che impone l’insegnamento del corsivo a tutti i bambini delle scuole elementari. Anche i legislatori del Michigan hanno promosso un disegno di legge per spingere le scuole a insegnare a scrivere in corsivo. Nascono anche concorsi ad hoc, come il Cursive Is Cool (“Corsivo è fico”) organizzato dalla Campaign for Cursive, un progetto dell’American Handwriting Analysis Foundation.

Un ritorno al corsivo, da parte degli Stati americani, che rappresenta un dato significativo visto che proprio negli Stati Uniti, diversi stati decisero di mettere in un angolo la scrittura in corsivo. Era il 2010 quando il Common Core State Standards, una sorta di linee guida per rendere la scuola pubblica americana uguale in tutti gli Stati, ha messo da parte l’insegnamento del corsivo dai programmi e solo alcuni Paesi americani hanno continuato ad utilizzarlo. In Italia non c’è mai stata un’abolizione ufficiale ma, di fatto, gli esercizi di calligrafia sono sparito da molti anni, in gran parte delle classi elementari.

Molte insegnanti non chiedono più ai bambini di compilare pagine intere con la singola lettera dell’alfabeto, come si faceva una volta, per imparare a scriverla correttamente con le giuste proporzioni e l’attenzione nel restare nei margini. Un esercizio che, una volta, occupava le prime settimane della prima elementare e che, di fatto, oggi è sparito. O almeno non gli viene più dato tutto quello spazio. I bambini imparano a scrivere in stampatello maiuscolo e minuscolo, magari copiando lo stampato che leggono sul tablet o sullo smartphone.

 

LA CALLIGRAFIA

Il lavoro si semplifica, ma forse troppo. Per gli esperti, infatti, imparare a scrivere con una bella calligrafia porta diversi vantaggi: «Saper tenere in mano una matita con una punta ben curata o una penna - spiega Pietro Lucisano, presidente della Sird, la Società italiana di ricerca didattica, e professore di pedagogia sperimentale dell’università La Sapienza di Roma - significa essere capaci di portare avanti un esercizio di alta concentrazione. È fondamentale perché impariamo anche dai nostri movimenti: alcune attività, che comportano l’acquisizione di uno stile, hanno un impatto diretto sul cervello. Il corsivo obbliga ad usare il cervello. Così come saper dipingere usando con consapevolezza il pennello. Scrivere in corsivo rappresenta una seria complessità per un bambino di terza elementare ma gli insegna a maneggiare la penna con la giusta delicatezza. Se togliamo la gestualità togliamo anche il controllo e l’attenzione nei movimenti sottili e questo impatta sulla capacità di apprendere. È importante tornare ad insegnare a scrivere in corsivo, anche per educare i bambini al bello che, di fatto, è alla base del made in Italy che ci distingue nel mondo».

 

Oggi una percentuale sempre più ampia di alunni mostra seri problemi nella capacità di scrivere in corsivo. Uno studio portato avanti dai ricercatori del Policlinico Umberto I e dell’Università Sapienza di Roma dimostra come un bambino delle elementari su 5 non lo sa usare. Al suo posto ci sono lo stampatello e la digitazione sugli smartphone. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Occupational therapy in health care dagli studiosi Carlo Di Brina (neuropsichiatra infantile dell’Umberto I), Barbara Caravale (università La Sapienza) e Nadia Mirante (ospedale Bambino Gesù). «Abbiamo fotografato come scrive la popolazione scolastica dei bambini romani - hanno spiegato Di Brina e Caravale - e dopo quasi due anni abbiamo visto che il 21,6% di bambini è a rischio di sviluppare un problema di scrittura. Un 10% dei bambini ha una scrittura “disgrafica” ma si tratta di molti bambini: troppi per essere un disturbo».

La grafologa: “Scrivere a mano accende il nostro cervello, ma non dite ai bambini di scrivere come vogliono. Ecco perché”

FONTE: www.orizzontescuola.it

DATA: 12 maggio 2023

La grafologa: “Scrivere a mano accende il nostro cervello, ma non dite ai bambini di scrivere come vogliono. Ecco perché”

“Una cosa che riscontro molto e che mi fa arrabbiare è che nella scuola primaria molti insegnanti dicono ai bambini: scrivete come volete. Il fatto è che questo crea una gran confusione nei bambini, che non sono in grado di valutare ciò che è importante fare e scelgono quello che sembra più semplice.

Se vengono date delle indicazioni fin dall’inizio possiamo avere invece una scrittura funzionale”. La netta presa di posizione della grafologa Giorgia Filossi, grafologa dell’età evolutiva, prende le mosse dalla nostra intervista al professor Piero Crispianiprofessore onorario all’Università di Macerata e professore straordinario Link Campus University di Roma, da anni uno dei più convinti assertori dell’indispensabilità del corsivo per la formazione completa dell’individuo. Crispiani nell’affermare l’importanza dello scrivere in corsivo aveva aggiunto, in coda all’intervista, che “basta dare fogli e penne e far scrivere senza curare – all’inizio – la grafia, ma il senso, la destinazione, ovvero la base della umanità stessa e della cultura”, dando in parte l’idea che sia sufficiente far scrivere liberamente in corsivo, abbracciando una posizione spontaneistica, insomma lasciando ai bambini la libertà di scrivere come vogliono. “E’ una posizione che io non condivido”, ci spiega Giorgia Filossi: “Imparare a scrivere – precisa – è un apprendimento complesso che necessita di precise indicazioni”.

Giorgia Filiossi vive a Modena. E’ grafologa dell’età evolutiva e giudiziaria, educatrice del gesto grafico e rieducatrice della scrittura. Lavora come libera professionista, ha uno studio nella città geminiana, collabora con “Progetto Crescere” di Reggio Emilia, e in generale con scuole e associazioni culturali ed educative. Si occupa di bambini e ragazzi con difficoltà grafomotorie o disgrafie accompagnandoli in percorsi individuali di educazione e rieducazione del gesto grafico e della scrittura. Organizza e conduce corsi di formazione per insegnanti delle scuole d’infanzia, primarie e secondarie e laboratori per gli studenti. E’ docente di Educazione del gesto grafico alla scuola di grafologia “Arigraf Milano”. E’ consulente peritale di studi legali e promuove attività di orientamento per studenti e insegnanti delle scuole secondarie. E’ pure referente regionale per l’Emilia Romagna del Cesiog che ha tra i suoi obiettivi primari la costituzione di un albo per i grafologi e il riconoscimento del rieducatore della scrittura come professione sanitaria.

“La scrittura manuale – spiega Giorgia Filossi – è frutto dell’interazione tra sistema nervoso, sensoriale e motorio. L’uso della mano mantiene in forma il cervello: l’esercizio quotidiano della scrittura rafforza le aree cerebrali tanto che l’attività grafica è consigliata anche per rallentare gli effetti dell’invecchiamento cognitivo”. Una bella scommessa nell’epoca dei computer e delle tastiere. “Scrivendo a mano impariamo di più e più rapidamente. Ma non ne farei una battaglia ideologica tra mano e computer”, dice. “Preferisco soffermarmi sui tanti vantaggi della scrittura. I bambini, per esempio, imparano a leggere meglio se contestualmente viene insegnato loro a scrivere. Una parola scritta viene memorizzata e riconosciuta facilmente, cosa che non avviene digitandola soltanto. Vale anche per gli adulti. Nel prendere appunti, per esempio, selezioniamo le informazioni e le trascriviamo con parole nostre elaborandole in maniera personale. Scrivere a mano ci aiuta anche a sviluppare creatività e capacità di sintesi, a migliorare l’autocontrollo e la gestione delle emozioni”.

Il problema, secondo la professionista emiliana, riguarda soprattutto bambini e ragazzi. Esistono dei criteri ben precisi per stabilire se una scrittura va rieducata: la scarsa leggibilità, la poca fluenza e rapidità e, in alcuni casi, anche l’insorgere di dolori e affaticamento: “Credo – aggiunge – sia non più differibile la formazione specifica del personale educativo, a partire almeno dalla scuola dell’infanzia, per dare ai bambini quel patrimonio fondamentale di abilità e competenze che costituiscono i cosiddetti pre-requisiti. Alla scuola primaria, poi, andrebbe dedicato più tempo all’apprendimento del gesto grafico ad oggi sottovalutato rispetto ai contenuti linguistici.

Imparare a scrivere non avviene spontaneamente, ci vuole tempo, pazienza, gradualità e una didattica corretta, aspetti oggi molto trascurati. A scuola si scrive poco. Mancano direttive chiare che favoriscano approcci corretti e univoci. Dispensare un bambino dallo scrivere oltre che penalizzante per la sua crescita è spesso inutile: noi professionisti del gesto grafico siamo al servizio di famiglie e scuole per accompagnare e dare le corrette informazioni. Non possiamo delegare ad un tablet, uno smartphone o un pc tutta la nostra attività mentale. Cogliamo il senso di un calcolo aritmetico se lo facciamo a mente, cosa che non avviene utilizzando la calcolatrice.

Usare il correttore automatico riduce la consapevolezza dell’errore ortografico. Abusare del copia e incolla ci priva della capacità di ragionare su ciò che stiamo scrivendo. Questo vale a maggior ragione nei bambini perché influisce negativamente sul cervello in piena evoluzione, finendo per provocare difficoltà di attenzione, di memoria, di concentrazione, ansia e generale declino delle capacità di apprendimento. Scrivere a mano accende il nostro cervello molto più che digitare sulla tastiera: scrivendo su carta, gli occhi e i movimenti della mano seguono la creazione della lettera. Il corsivo è un carattere sviluppato per correre sul foglio con fluidità grazie a collegamenti che favoriscono il pensiero consequenziale.

E’ l’unico carattere realmente personalizzabile perché si impregna di tutti i vissuti e gli stati d’animo, rappresentando in maniera unica e irripetibile gli aspetti intellettivi e caratteriali dello scrivente. Lo stampatello, invece, è lento e spersonalizzato perché i tratti grafici richiedono continui stacchi della penna dal foglio.Ci sono tanti modi per mantenere viva e attiva la nostra abilità scrittoria. L’importante è non privarci del piacere di scrivere: lettere, appunti, note, scarabocchi, disegni. Non deleghiamo tutto ad un computer, ma difendiamo la prerogativa di distinguerci anche attraverso il gesto grafico”.

Dottoressa Giorgia Filossi, lei non condivide l’idea che il bambino debba essere lasciato libero di imparare a scrivere in corsivo in maniera spontanea, senza regole. E’ così?

“Non condivido quando si afferma che sia sufficiente far scrivere in corsivo abbracciando una posizione spontaneistica, perché imparare a scrivere è un apprendimento complesso che necessita di precise indicazioni. Il professor Crispiani, che conosco, avendo seguito vari seminari, ribadisce questo concetto, ma nella parte finale dell’intervista fa capire che è importante che i ragazzi scrivano indipendentemente dal fatto che debbano seguire una metodologia. Io mi trovo in contrasto con questa tesi. Per il percorso duale che ho fatto, sia di studio, sia di rieducazione della scrittura, io vedo che la didattica è fondamentale, perché la scrittura si può personalizzare”.

Ci faccia capire meglio

“La scrittura attraversa tre fasi fondamentali. La prima è la pre-calligrafica, che è dedicata all’apprendimento, segue il modello presentato a scuola e dura i primi due anni. Poi c’è la fase calligrafica in cui il bambino sperimenta il modello, si rafforza e diventa sempre più abile, tanto che in virtù di questo passa alla fase post-calligrafica. Se però nelle fasi precedenti ci sono stati degli intoppi, cioè se il modello non è stato acquisito, se non sono state superate quelle difficoltà, allora non si riesce a passare alla fase della personalizzazione, perché le difficoltà non consentono l’automatizzazione della scrittura perché nel momento in cui la scrittura è automatizzata non pensiamo più a come eseguiamo i grafemi, in quel momento la nostra scrittura si impregna degli aspetti emotivi individuali della persona, segue un percorso neurologico nuovo, diventa una scrittura capace di esprimere la personalità dell’autore”.

Un po’ come nella lettura?

“No. Mentre la lettura è un apprendimento che può avvenire spontaneamente, qui questo non succede: qui ci vuole un insegnamento, che significa dare delle regole di esecuzione che riguardano il punto di partenza, la direzione, i collegamenti tra le lettere e dove eseguire gli stacchi. Tutto questo però va fatto secondo un criterio, altrimenti, se lasciato al caso, succede che la scrittura viene eseguita come se si trattasse di un disegno. Solo se diamo delle regole iniziali possiamo ottenere poi una scrittura funzionale. Che non significa bella. Significa scorrevole, significa avere una scrittura che non crea fatica, che non crea dolore in chi scrive, che sia leggibile”.

Le scuole, secondo lei, sono consapevoli di questa necessità?

“Una cosa che riscontro molto e che mi fa arrabbiare è che nella scuola primaria molti insegnanti dicono: scrivete come volete. Ma questo crea una gran confusione nei bambini, che non sono in grado di valutare ciò che è importante fare ma scelgono quello che sembra più semplice. Se vengono date delle indicazioni fin dall’inizio possiamo avere una scrittura funzionale”.

Ci sono però dei bambini che presentano evidenti difficoltà

“E’ vero, ci sono dei bambini che hanno delle oggettive difficoltà. Ma a quel punto, quando sono stati individuati, abbiamo ripulito il quadro facendo una netta distinzione tra quelli che hanno una didattica corretta e hanno imparato e quelli che nonostante la didattica corretta hanno delle difficoltà. In questi casi è doveroso fare una valutazione di disgrafia, perché significa che il bambino ha delle caratteristiche a livello neurobiologico che rendono difficile raggiungere un livello funzionale di scrittura”.

E a quel punto quanto si può fare per questi bambini?

“Diciamo che oggi ci sono moltissimi bambini che hanno difficoltà. Ci sono quelli che non hanno avuto una didattica adeguata – aggiungiamoci anche i problemi causati dal Covid – e poi ci sono quelli che hanno delle difficoltà che sono superabili. Con tutti si riesce ad avere risultati, ma alcuni non riusciranno ad avere una scrittura funzionale nonostante i miglioramenti. Questi avranno bisogno di un’attenzione diversa e misure dispensative e compensative”.

Quanto conta avere frequentato la scuola giusta, da questo punto di vista?

“Io vedo una differenza tra bambini che hanno avuto la fortuna di fare un percorso scolastico buono – e in questo caso si vede che il bambino ha una buona gestione dello spazio del foglio, adotta delle direzioni funzionali nello scrivere – e bambini che sono completamente disorientati del tutto. Che non si sanno muovere nello spazio del foglio. Ad esempio non rispettano le righe e i quadretti, con il risultato di avere un foglio molto confuso. Il sapersi muovere male nello spazio del foglio ha sempre come corrispettivo una difficoltà di muoversi nello spazio in cui ci si muove normalmente”.

Che cosa vuol dire?

“La partenza dell’apprendimento dovrebbe partire nella scuola dell’infanzia, con il muoversi nell’ambiente circostante come prerequisito per muoversi sul foglio”.

Lo si fa?

“Lo si fa in maniera poco consapevole. Si fanno tante attività casuali e non sempre consapevoli. Ma il lavoro che si fa all’infanzia è fondamentale per poter lavorare bene alla primaria. Prendiamo ad esempio il problema dell’impugnatura: questo è un aspetto che non viene considerato, e invece andrebbe impostato già dalla scuola dell’infanzia, ma non solo insegnando al bambino come si fa ma facendo fare attività che gli rendano naturale impugnare in maniera corretta, si apprende attraverso l’esperienza”.

Lei ritiene che occorra iniziare a scrivere nell’età della scuola dell’infanzia?

“No, a quell’età occorre creare i prerequisiti per arrivare alla scuola primaria con un bagaglio valido, in modo che diventi più semplice. Invece oggi i bambini non sanno più usare le mani perché nel frattempo non giocano fuori, fanno giochi tecnologici e tocca poi a chi fa rieducazione farglieli fare. Occorrere praticare giochi di manipolazione che rendano le mani più abili, fare dei nodi o anche semplicemente strappare lo scotch con le dita ma non lo sanno fare. Il bambino inoltre viene spesso imboccato dalle mamme. E invece è importante imparare a impugnare correttamente una posata. Se non s’insegna a impugnare bene una posata un bambino non saprà impugnare una matita. Un po’ il genitore si sostituisce al bambino per motivi di fretta o di timore, i genitori sono apprensivi e questo fa sì che il bambino sperimenti sempre meno cose”.

Servirebbe una cultura diffusa su questi temi

“Come associazione professionale dei grafologi, il Cesiog, stiamo lavorando sul fronte dell’informazione ai docenti e ai genitori. E anche sul fronte del lavoro di rieducazione della scrittura. La nostra è una professione spesso sconosciuta mentre ci sarebbero le possibilità di recupero di tante difficoltà evitando tante diagnosi di disgrafia, che invece lievitano. Dopo la diagnosi di disgrafia spesso si dice: scrivete come volete, usate il pc…Tante volte sarebbe sufficiente invece fare un recupero e un potenziamento della scrittura e ci sarebbero meno costi sociali perché appena ci sono delle difficoltà vengono attivate le visite presso la Neuropsichiatria.

Ma anche in quell’ambito la nostra figura non viene riconosciuta e allora che succede?”

Che cosa succede?

“Il bambino viene visitato da uno psicologo, viene fatta la diagnosi ma la figura non solo non viene coinvolta ma nemmeno viene suggerita. La professione viene riconosciuta, certo, ma non è vista come una professione sanitaria. La nostra associazione da anni si batte perché venga istituito un albo dei grafologi, mentre in altri ambiti come quello forense la professione è riconosciuta e apprezzata”.

Il tutto si inserisce in un’epoca che vede come protagonisti i pc, le tastiere, gli schermi, le tecnologie sempre più sofisticate…

“E’ ovvio che l’utilizzo del pc è per tutti fondamentale, ma questo non significa che il pc debba sostituire la scrittura. Il fatto è che dobbiamo far usare meno schede, meno penne cancellabili e dobbiamo invece fare usare strumenti più idonei. Nella scuola dell’infanzia ci vogliono meno pennarelli perché non aiutano a imparare la gestione della pressione e l’accuratezza del gesto. I bambini colorano senza stare attenti al rispetto dei bordi: con degli strumenti più idonei si sarebbe un aiuto maggiore ai bambini anche perché alla primaria non ci sono indicazioni sui quaderni da usare, nel senso che ci sono insegnanti che insegnano lo stampato sulla riga e il corsivo nel quadretto perché non ci sono delle direttive”.

All’università queste cose vengono insegnate?

“All’università non ci sono esami che riguardino la didattica della scrittura e questo ce lo dicono le insegnanti che sono preparate sul tema”.

Proviamo a dare un paio di consigli utili ai genitori

“Innanzitutto occorrerebbe dare ai bambini l’opportunità di fare le cose da soli in funzione dell’età. Un bambino deve imparare ad allacciare le scarpe con gradualità, diamo il tempo di mangiare da soli, di infilare il bottone nell’asola, ci sono tanti giochi che sviluppano anche l’intelligenza, anche il gioco della palla va bene, occorre insegnare al bambino a diventare via via più autonomo. Pelare la frutta sarebbe importante ma non so quanti bambini lo sappiano fare. Certo è che nel momento in cui un bambino si sa muovere bene a livello spaziale nel proprio ambiente, acquisisce la capacità di sapersi muovere nei testi che legge e nello studiare in maniera più efficace”.

MIO COMMENTO: Lo dice anche Microsoft…      Potete trovare su questo blog l’articolo “Microsoft: la penna batte la tastiera, se scrivi a mano impari di più” nella categoria “Apprendimento”

I bambini devono usare la penna, non la tastiera

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE:  Daniele Novara

DATA: 14 giugno 2021

Diversi studi scientifici dimostrano come la scrittura manuale sviluppi connessioni neurocerebrali assenti in chi batte sulla tastiera. «L’uso della penna facilita l’apprendimento perché i tempi dilatati costringono il cervello a selezionare i concetti»

Mentre la scuola si accinge alla digitalizzazione della didattica, penso sia importante mettere qualche paletto per evitare che la moda prevalga a prescindere da ogni consapevolezza scientifica, pedagogica e psicoevolutiva. Il punto più importante della questione è che ogni cosa ha il suo tempo e quello che vale per un ragazzo di 15 anni non può valere per un bambino né di un anno, né di 3, né di 5, né di 6, né di 7, né di 8. L’infanzia è una fase della vita molto particolare dove la sensorialità, l’esperienzialità, la motricità, il movimento e la socialità devono prevalere su tutto e su tutti. Dare, viceversa, la precedenza assoluta al mondo virtuale appare una scelta estremamente incauta. Fra la penna elettronica e la penna su carta quest’ultima ha il vantaggio di poter incidere su un vero materiale fisico sviluppando così, in modo più completo, le tante connessioni neurocerebrali in gioco.

 

Molte ricerche mettono in luce il pericolo di voler a tutti i costi passare dalla penna alla tastiera, come a suo tempo si fece dal pennino alla penna. Non è la stessa cosa. Già nel 2007, una ricerca pubblicata da Connelly – psicologo della Oxford Brookes University - e altri sul British Journal of Educational Psychology dimostrava che i temi scritti a mano dai bambini delle Scuole Primarie erano migliori rispetto a quelli scritti con una tastiera. Addirittura, dallo stesso studio emerse che i temi scritti al computer sembravano fatti da soggetti il cui sviluppo era indietro di due anni (un bambino di terza scriveva quindi come un bambino di prima). Nel 2011, lo studio di Sandra Sulzenbruck e altri analizzò il rischio che l’utilizzo continuo della tastiera per la produzione di testi possa contribuire in modo significativo alla perdita delle capacità di scrittura a mano. I vari studi condotti dalla neuroscienziata norvegese Audrey Van de Meer, dimostrano l’importanza dell’aspetto sensomotorio della penna sulla carta.

La penna consente connessioni neurocerebrali articolate e raffinate assolutamente improponibili e imparagonabili col puro e semplice battito del ditino su una tastiera come un criceto. Il movimento della mano che traccia lettere e parole, implica, nel bambino che sta incominciando a leggere e a scrivere, il riconoscimento di linee, curve, spazi, creando, dal punto di vista cognitivo, una connessione visivo-motoria. La scrittura manuale «costringe» in qualche modo a direzionare il movimento della mano a seconda della lettera che si deve scrivere. Il testo va orientato nello spazio e contenuto all’interno delle dimensioni di un foglio (per fare un esempio). Tutte queste azioni attivano la corteccia parietale preposta alla capacità di calcolo, linguaggio, orientamento spaziale e memoria. Più avanti, lo scrivere in corsivo richiederà necessariamente di saper collegare le lettere tra loro. La tastiera non richiede un simile sforzo: basta picchiare su tasti tutti uguali e le parole vengono da sé.

 

 

L’uso della penna, inoltre, facilita l’apprendimento anche per i suoi tempi «dilatati» che costringono il cervello a selezionare i concetti più importanti e, di conseguenza, assimilarli meglio. I rischi della scrittura su tastiera sono chiari: soprattutto nei bambini piccoli, viene impedito il corretto sviluppo di alcuni meccanismi cognitivi fondamentali. Sono noti i ritardi che l’uso della televisione, dei videoschermi, dei videogiochi e della tastiera provocano nei processi di lettoscrittura. Occorre ricordarli per evitare, fra anni, di ritrovarci con un aumento drammatico di disgrafie, disortografie se non, addirittura, ritardi nella vera e propria capacità di leggere e scrivere. Genitori e insegnanti non possono permettere che siano date informazioni non solo sbagliate, ma decisamente in malafede. A volte sono gli stessi venditori di questi prodotti che finiscono per promuovere convegni specifici sul passaggio dalla penna alla tastiera. Le ricerche scientifiche lasciano poco spazio ai dubbi e quindi i bambini vanno, ancora una volta, tutelati nel loro mondo e nel loro pensiero che è pratico, operativo, concreto e sensoriale. Solo in questo modo potranno crescere e raggiungere le altre fasi della vita.
*pedagogista

La dipendenza da smartphone ci cambia davvero il cervello

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Simona Marchetti

DATA: 20 febbraio 2020

La dipendenza da smartphone ci cambia davvero il cervello

Uno studio, condotto da un gruppo di scienziati della Heidelberg University, analizzando le immagini delle risonanze magnetiche di 48 individui ha evidenziato una riduzione del volume della materia grigia in alcune parti chiave dell'organo

La dipendenza da smartphone altera fisicamente il cervello, variandone forma e dimensioni in un modo simile a quanto succede per un tossicodipendente. Lo dimostra un recente studio - il primo a fornire una prova fisica del legame fra l’utilizzo dello smartphone e le alterazioni fisiche che avvengono nel cervello - pubblicato sulla rivista Addictive Behaviors e condotto da un gruppo di scienziati della Heidelberg University tedesca. Esaminando le immagini scattate da uno scanner per la risonanza magnetica su 48 persone (22 con dipendenza da smartphone e 26 senza alcuna dipendenza), i ricercatori hanno notato una riduzione del volume della materia grigia in alcune parti chiave del cervello nei soggetti con il disturbo (un effetto analogo a quello registrato nella mente di chi è dipendente da sostanze), a cui si accompagnava anche una minore attività cerebrale rispetto alle persone senza dipendenze.

Smartphone innocui?

«Gli individui con dipendenza da smartphone hanno evidenziato un volume più ridotto della materia grigia nell’insula anteriore sinistra e nella corteccia temporale inferiore e paraippocampale», scrivono gli autori, sottolineando come la diminuzione di materia grigia in una di queste aree, ovvero nell’insula, fosse stata precedentemente collegata alla dipendenza di sostanze. Il concetto di innocuità degli smartphone - concludono - «è da rivedere, perlomeno nei soggetti che potrebbero essere a rischio maggiore di sviluppare comportamenti di dipendenza».

Suonare uno strumento da piccoli rende il cervello più reattivo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Redazione Scuola

DATA: 11 gennaio 2017

Ricerca canadese: imparare la musica può avere effetti benefici sulle attività cerebrali, anche sul lungo periodo, e aiuta a reagire più in fretta ed essere più vigili

strumento aiuta cervello

Studiare la musica da bambini aiuta il cervello da anziani. Lo afferma uno studio dell’università di Montreal, pubblicato sulla rivista «Brain and Cognition». Le conclusioni di Simon Landry, coordinatore dello studio, e dei ricercatori che hanno lavorato con lui sono due: imparare a suonare uno strumento rende il cervello più reattivo e sensibile agli stimoli sensoriali; e può prevenire alcuni effetti dell’invecchiamento negli anziani, aiutandoli a reagire più in fretta ed essere più vigili.

 

I musicisti

I ricercatori hanno infatti dimostrato che i musicisti hanno tempi di reazione agli stimoli sensoriali più rapidi dei non musicisti. «Quando si invecchia, i tempi di reazione diventano più lenti. Sapere quindi che suonare uno strumento musicale li migliora può essere utile per gli anziani», commenta Landry.

 

La ricerca

Nella ricerca sono stati messi a confronto i tempi di reazione di 16 musicisti (che avevano iniziato a suonare uno strumento tra i 3 e 10 anni e avevano studiato musica almeno per 7 anni) e 19 non musicisti. Tutti erano seduti in una stanza silenziosa e ben illuminata, con una mano sul mouse di un computer e il dito indice dell’altra mano su una piccola scatola che vibrava a intermittenza. Il loro compito era cliccare sul mouse quando sentivano un suono da chi parlava di fronte a loro, se la scatola vibrava o se accadevano entrambe le cose. Ognuna di queste tre stimolazioni (audio, tattile e audio-tattile) è stata eseguita per 180 volte. «Abbiamo riscontrato tempi di reazione decisamente più veloci nei musicisti per tutti e tre i tipi di stimolazione - continua Landry - L’allenamento musicale a lungo termine riduce i tempi di reazione non musicali, tattili e multisensoriali». L’obiettivo dei ricercatori è capire come suonare uno strumento musicale influisca sui sensi in un modo non collegato alla musica.

Tanti stimoli in famiglia e poco stress. E il cervello dei bambini si modifica

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Giuseppe Remuzzi

DATA: 30 luglio 2015

Corteccia cerebrale più spessa nelle aree che governano la capacità di apprendere. 
La ricerca sul rendimento degli studenti

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 «Papà, dunque i ricchi sono più forti di tutti a questo mondo?» «Sì, Ilyusha, al mondo non c’è nessuno più forte di chi è ricco» (Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»). Proprio così, ragazzi che vengono da famiglie benestanti hanno rendimenti scolastici decisamente superiori rispetto a ragazzi con meno possibilità economiche o addirittura poveri. A questo punto chi si occupa di educazione di giovani e politiche dell’istruzione - almeno negli Stati Uniti - vorrebbe sapere perché, con l’idea che saperne di più potrebbe anche aiutarci a trovare delle soluzioni.

L’ambiente modifica il cervello

Insomma, perché chi è ricco va meglio anche a scuola? Per anni nessuno è stato in grado di rispondere a questa domanda in modo convincente e abbastanza sofisticato. Ma qualcosa sta cambiando. Uno studio del Mit e dell’Harvard University dimostra che ci sono differenze strutturali fra il cervello di ragazzi che stanno bene rispetto a quello di chi viene da famiglie meno abbienti. Cosa vuol dire di preciso? Che le aree della corteccia cerebrale associate alle percezioni visive e quelle dove si accumulano le conoscenze sono meglio rappresentate e più sviluppate nei giovani delle famiglie benestanti. Che vivere in un ambiente familiare e sociale sfavorevole si potesse tradurre in risultati scolastici meno brillanti lo si sapeva già ma che lo si potesse apprezzare studiando il cervello nessuno fino a qualche tempo fa l’avrebbe potuto nemmeno sospettare.

Ancora da studiare i motivi

«Adesso che lo sappiamo - ha dichiarato John Gabrieli professore di scienze cognitive al Mit - dobbiamo impegnarci tutti a cambiare le cose, siamo noi a dover dare più opportunità a chi non le ha avute in casa». Tanto più che negli ultimi anni negli Stati Uniti il divario tra i ragazzi benestanti e gli altri aumenta in modo preoccupante mentre quello fra etnie diverse si riduce. Non è ancora chiaro da che cosa dipendono gli effetti delle condizioni economiche della famiglia sulla struttura del cervello; forse da stress che i ragazzi più poveri avrebbero subito da piccoli oppure il non aver avuto accesso alle stesse opportunità educative degli altri ma anche più semplicemente dal fatto che quando erano piccoli gli si parlava di meno in casa.

Lo studio

I ricercatori di Boston sono partiti da 58 ragazzi fra i 12 e i 13 anni, 35 di loro erano benestanti, 23 venivano da famiglie indigenti. Trovare chi era ricco è stato facile ma come selezionare i ragazzi indigenti? L’hanno fatto scegliendo fra chi non si poteva permettere di pagare la mensa scolastica. I due gruppi di studenti prima sono stati sottoposti a diversi test per giudicare le loro performance intellettuali poi a risonanza magnetica di quelle regioni del cervello che presiedono a logica e ragionamento e poi linguaggio e percezioni sia sensoriali che motorie. Chi veniva da famiglie ricche aveva migliori risultati nei test che esplorano le capacità di apprendere e questo si associava a una corteccia più spessa nei lobi temporali e occipitali del cervello alla risonanza magnetica; le due variabili correlavano fra loro in maniera statisticamente significativa. Per il resto (altre aree della corteccia e quello che i medici chiamano sostanza bianca) non c’erano differenze.
Vuol dire che chi è povero resterà sempre con un cervello meno sviluppato almeno in certe aree? Niente affatto. C’è grande plasticità nel cervello ed è verosimile che educazione, supporto familiare e tanto d’altro possano cambiare in senso favorevole la struttura del cervello anche in chi parte svantaggiato. Finora lo sospettavamo, da adesso le modificazioni delle aree cognitive del cervello in rapporto a certi interventi che famiglia e scuola possono fare per aiutare i ragazzi meno fortunati li si potrebbero in teoria addirittura misurare. 

Intelligenza emotiva

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 1 settembre 1998, ma attualissimo

 

 

Probabilmente sarà capitato anche ad ognuno di voi di trovarvi in situazioni emotivamente forti e di esservi detti: "Non riesco a pensare". Ed immagino che in molte altre situazioni di leggera alterazione emotiva vi sarà capitato di aver avuto difficoltà a concentrarvi, o ad essere totalmente razionali; per, magari, poi pentirvi… di esservi lasciati andare, con tutte le conseguenze negative che avreste volentieri evitate.

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Sono esperienze comuni a tutti gli uomini e negli ultimi trent'anni alcune università degli USA ne hanno fatto oggetto di studi scientifici seri ed approfonditi. E questi studi hanno dimostrato come l'incapacità di riconoscere e controllare le alterazioni emotive sia un fattore negativo determinante nella vita delle persone. Ciò riguarda soprattutto i bambini, sia nel momento dello studio che in quelli del gioco e delle altre relazioni sociali e famigliari.

Le emozioni hanno un ruolo importante ai fini della razionalità.

Nel complesso rapporto fra sentimento e pensiero, la facoltà emozionale guida le nostre decisioni momento per momento, in stretta collaborazione con la mente razionale, consentendo il pensiero logico o rendendolo impossibile. Allo stesso modo, il cervello razionale ha un ruolo dominante sulle nostre emozioni, con la sola eccezione di quei momenti in cui le emozioni eludono il controllo e prendono, per così dire, il sopravvento, di prepotenza.

In un certo senso, abbiamo due cervelli, due menti; e due diversi tipi di intelligenza: quella razionale e quella emotiva. Il nostro modo di comportarci nella vita è determinato da entrambe: non dipende solo dal quoziente di intelligenza, ma anche dall'intelligenza emotiva, in assenza della quale l'intelletto non può funzionare al meglio.

Ecco perché ho studiato molto per realizzare un programma che insegni ai bambini quella che sopra ho chiamato intelligenza emotiva, un termine che include l'autocontrollo, l'entusiasmo e la perseveranza, nonché la capacità di automotivarsi. Così essi saranno messi nella condizione per far fruttare qualunque talento intellettuale la genetica abbia dato loro.

Ci sono prove crescenti del fatto che nella vita atteggiamenti fondamentalmente morali derivino anche dalle capacità emozionali elementari. Chi è alla mercé dell'impulso, chi manca di autocontrollo, è affetto da una carenza morale: la capacità di controllare gli impulsi è alla base della volontà e del carattere. Per lo stesso motivo l'altruismo non può prescindere dall'empatia, ossia dalla capacità di leggere le emozioni negli altri. Senza la percezione delle esigenze o della disperazione altrui non può esserci preoccupazione per loro.

Attualmente l'educazione emozionale è lasciata al caso, con risultati spesso disastrosi. Mentre, come ho già detto, l'emozione può rivelarsi un motore potente, capace di dare maggiore efficacia ai nostri sforzi, ad esempio nel trovare la motivazione per insistere e provare -provare ancora- nonostante gli insuccessi o nonostante la cosa non sia gradevole.

Oggi tanti bambini -ed adulti- sono affetti da dissemia, l'incapacità di comprendere i messaggi non verbali, senza che essa venga diagnosticata e quindi curata. E questo li danneggia molto, poiché raramente le emozioni dell'individuo vengono verbalizzate; molto più spesso esse sono espresse attraverso altri segni. La chiave per comprendere i sentimenti altrui sta nella capacità di leggere i messaggi che viaggiano su canali di comunicazione non verbale: il tono di voce, i gesti, l'espressione del volto e simili. Naturalmente con la dissemia non può esservi l'empatia. E questo, è dimostrato, danneggia il rendimento scolastico e le relazioni sociali.

L'empatia si sviluppa sin dai primi giorni di vita di un bambino e dipende soprattutto dal modo in cui i genitori riprendono i figli e dalla "sintonia" fra di loro (bambino-genitori). E una situazione negativa in tal senso si può riparare, a casa ed a scuola.

In aula, se l'insegnante sa stabilire un rapporto di sincronia fra lui e l'alunno, che poi vuol dire una coordinazione degli stati d'animo, versione adulta della importantissima sintonizzazione della madre con il neonato, può migliorare di molto i risultati del suo lavoro. Pertanto noi insegnanti non possiamo più disinteressarci dell'analfabetismo emozionale.

Quante crisi adolescenziali sono determinate anche dall'incapacità di individuare i sentimenti dolorosi e di controllarli, senza cadere nei disturbi alimentari (anoressia e bulimia). Quanti matrimoni vanno a rotoli anche per mancanza di intelligenza emotiva. Ad esempio per la mancanza della capacità di tenere a freno i propri sentimenti negativi o di saper ascoltare l'altro; oltre, soprattutto, opinione personale, alla scarsa percezione della sacralità della relazione e quindi alla mancanza di vero amore e di rispetto. Quante relazioni interpersonali non si sviluppano adeguatamente, o si interrompono bruscamente, o non si realizzano affatto, per analfabetismo emozionale.

Già in passato, senza un progetto organico razionale e conoscenze specifiche approfondite sull'argomento, ho realizzato attività che, me ne rendo conto ora, aiutano lo sviluppo dell'intelligenza emotiva. Ad esempio, il "gioco delle offese", durante il quale un alunno alla volta si mette in piedi davanti ai compagni per mostrare la sua capacità di autocontrollo davanti agli insulti che a turno i compagni gli proferiscono. Oppure l'invitare i due bambini che hanno appena litigato a dire davanti a tutti i compagni se in quel momento provano sensazioni di felicità; e a valutare se hanno agito correttamente per prevenire la lite, che ha portato loro tante spiacevoli conseguenze.

Ma non bastano queste iniziative: serve un corso organico, razionale e ben preparato, da svolgere in ambito scolastico, durante le normali ore di lezione. E del quale sarà parte integrante il ricordare ai genitori che debbono curare la loro intelligenza emotiva, se vogliono dare ai propri figli sin dalla nascita una eccezionale gamma di benefici e vantaggi che interessa tutto lo spettro dell'intelligenza emotiva e si spinge ad interessare tutte le componenti della vita.

Lo ripeto: dati sempre più numerosi dimostrano che il successo scolastico e la successiva vita da adulto dipendono in misura sorprendente dalle caratteristiche emotive formatesi negli anni precedenti all'ingresso del bambino nella scuola e che si può rimediare ad eventuali problemi affrontandoli razionalmente, sia a casa che a scuola, con le competenze necessarie.

Lezioni di intelligenza emotiva si svolgono da parecchi anni in scuole degli USA. Ed esse si fondono con materie quali letteratura, scrittura, scienze, studi sociali, religione. I programmi di arte ed immagine della scuola elementare italiana prevedono esplicitamente lo sviluppo di alcune capacità che costituiscono parte, seppur piccola, del bagaglio di competenze emotive indispensabili per ogni essere umano.

Per risultare più efficaci gli insegnamenti emozionali devono essere legati allo sviluppo del bambino e vanno ripetuti in diverse età in modi adatti alle mutevoli capacità di comprensione del ragazzo e alle nuove sfide che deve affrontare, anche perché allora il cervello li accoglie come percorsi consolidati, come abitudini neurali a cui ricorrere in momenti di costrizione, di frustrazione e di sofferenza.

Il programma funziona al meglio, come già accennato, quando le lezioni a scuola sono coordinate con quello che avviene a casa.

Il programma di alfabetizzazione emozionale dovrebbe comprendere quindi anche corsi speciali per i genitori, per insegnare loro ciò che i figli stanno imparando a scuola. E lo scopo non è soltanto quello di consentire ai papà ed alle mamme di integrare ciò che viene impartito ai ragazzi in aula, ma anche quello di aiutare coloro i quali sentono il bisogno di rapportarsi in maniera più efficace con la vita emotiva dei figli. In tal modo i ragazzi ricevono messaggi coerenti di competenza emozionale in ogni ambito della loro vita.

Queste linee parallele di rafforzamento delle lezioni emozionali -non solo in classe, ma anche sul campo di gioco; non solo a scuola, ma anche a casa- danno risultati ottimali. Si aumenta la probabilità che ciò che i ragazzi imparano nei corsi di alfabetizzazione emozionale non rimanga una semplice esperienza scolastica, ma venga messo alla prova, praticato e affinato nelle sfide reali della vita. E tutto ciò è ormai dimostrato.

Quelli che seguono sono gli obiettivi principali del curriculum della "scienza del sé", il programma per lo sviluppo dell'intelligenza emotiva. Dei tredici obiettivi fondamentali qui ne ho sviluppati, ed in parte, soltanto due.

1-Essere autoconsapevoli: osservare se stessi e riconoscere i propri sentimenti; costruire un vocabolario per i sentimenti; conoscere il rapporto tra pensieri, sentimenti e reazioni (migliorare quindi la capacità di comprendere le cause dei sentimenti e di riconoscere la differenza fra sentimenti ed azioni).

2-Decidere  personalmente: ...

3-Controllare i sentimenti: ...

4-Controllare lo stress: ...

5-Essere empatici: ...

6-Comunicare: ...

7-Essere aperti: ...

8-Essere perspicaci: identificare modelli tipici nella propria vita emotiva e nelle proprie reazioni, valutarli e imparare a migliorarli; riconoscere modelli simili negli altri e valutare quindi conseguentemente i loro comportamenti; migliorare la capacità di assumere il loro punto di vista; migliorare l'empatia e la sensibilità verso i sentimenti degli altri; migliorare la capacità di ascoltarli; aiutarli a migliorarsi, con tatto e delicatezza.

9-Autoaccettarsi: ...

10-Essere personalmente responsabili: ...

11-Essere sicuri di sé: ...

12-Saper entrare nella dinamica di gruppo: ...

13-Saper risolvere i conflitti: ...­

C'è una parola tradizionale per designare quell'insieme di abilità che sono rappresentate dall'intelligenza emotiva: il carattere.

Il carattere, scrive Amitrai Etzioni, teorico sociale della George Washington University, è il "muscolo psicologico richiesto dalla condotta morale". Possiamo sicuramente dire che l'educazione morale diventa molto efficace quando le lezioni vengono impartite non astrattamente, ma in presenza di accadimenti reali: è questo il modo dell'alfabetizzazione emozionale. E l'intelligenza emotiva rafforza il carattere.

La base del carattere è la disciplina; la vita virtuosa si basa sull'autocontrollo, come i filosofi, a partire da Aristotele, hanno sempre osservato. E l'intelligenza emotiva rafforza l'autocontrollo.

Un altro capisaldo del carattere è la capacità di motivare e guidare se stessi in ogni azione, dal fare i compiti, al portare a termine un lavoro, all'alzarsi dal letto al mattino. E l'intelligenza emotiva rafforza la capacità di automotivarsi.

Quella che fino ad oggi è chiamata volontà è un'altra serie di abilità emozionali elementari: la capacità di rinviare la gratificazione, di controllare ed incanalare i propri impulsi ad agire.

Abbiamo bisogno di saper controllare noi stessi, i nostri appetiti e le nostre passioni, per comportarci giustamente verso gli altri, oltre al riconoscerli come nostri fratelli. E l'intelligenza emotiva aiuta molto verso questi obiettivi.

La capacità di accantonare gli impulsi egoistici presenta benefici sociali: apre la strada all'empatia, all'ascolto degli altri, all'assunzione della prospettiva altrui. E l'empatia aiuta ad andare verso la benevolenza, l'altruismo, la compassione. Veder le cose dal punto di vista altrui infrange gli stereotipi ed i pregiudizi e alimenta perciò la tolleranza e l'accettazione delle differenze.

La scuola, insieme alla famiglia, può svolgere un ruolo importante nella maturazione del carattere, inculcando la disciplina e l'empatia, che a loro volta consentono un sincero impegno in difesa dei valori morali e civili.

A questo scopo non basta tenere ai ragazzi lezioni sui valori: hanno bisogno di metterle in pratica, e ciò avviene solo quando riescono a costruire le abilità emozionali e sociali essenziali.

In questo senso, l'alfabetizzazione emozionale va di pari passo con la formazione del carattere, con l'educazione alla crescita morale e con l'educazione civica, obiettivi che la nostra scuola dovrebbe perseguire con determinazione, con uno strumento a mio avviso fondamentale, come il pollice per la mano di un uomo: l'intelligenza emotiva.

Naturalmente non ho la presunzione di pensare di poter rapidamente risolvere tutti i problemi degli alunni, ma di aiutarli sul serio sì; ovviamente con la collaborazione dei genitori e con l'aiuto di uno psicologo. Anche perché mi son reso conto che empiricamente, episodicamente, sto lavorando da molti anni nella giusta direzione.

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Il cervello dei bambini è più sensibile alle radiazioni del Wi-Fi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Redazione Salute Online

DATA: 14 gennaio 2015

Uno studio lancia l’allarme sull’uso dei tablet da parte dei più piccoli. In realtà l’argomento è controverso: le onde Wi-Fi hanno una potenza molto bassa

 

Il cervello dei bambini è più sensibile al Wi-Fi perché i loro tessuti assorbono più radiazioni di quelli degli adulti. Lo sostiene un rapporto, pubblicato sul Journal of Microscopy e Ultrastructure, che sta facendo il giro del mondo e suggerisce a mamme e papà di limitare l’esposizione della prole al Wi-Fi.

Lo studio

Lo studio sostiene che, siccome i crani dei bambini sono più sottili e la loro dimensione relativa è più piccola, sono più a rischio rispetto agli adulti quando esposti alle radiazioni come a qualsiasi altro agente cancerogeno. E le onde emesse dal Wi-Fi potrebbero provocare la degenerazione della guaina mielinica protettiva che circonda i neuroni cerebrali. Infine ricorda che le stesse case produttrici di computer portatili e tablet suggeriscono di non superare la distanza minima dal corpo di 20 cm e raccomanda alle donne incinte di non portare addosso, nei vestiti o in tasca, i telefoni cellulari.

Wi-Fi ha una potenza radio molto bassa

Il rapporto in realtà è controverso come lo è l’argomento dei danni causati dalle radiazioni emesse dal Wi-Fi, che sono quelle trasmesse da televisori, forni a microonde e telefoni cellulari. Per fare un paragone: l’intensità della radiazione Wi-Fi però è 100 mila volte inferiore a quella di un forno a microonde domestico. Queste radiazioni quindi aumentano sì la temperatura dei tessuti esposti, ma a livelli molto elevati di esposizione: la cosiddetta “interazione termica”. 
La britannica Health Protection Agency in particolare sta monitorando da tempo la sicurezza del Wi-Fi. Secondo gli ultimi dati i segnali radio emessi dai dispositivi hanno una potenza molto bassa: per esempio sedere vicino a un dispositivo Wi-Fi per un anno intero equivale a ricevere la stessa dose di onde radio di una chiamata di 20 minuti al telefonino.