In centomila chiusi nelle loro stanze. Neet, ragazzi che si ritirano dalla società

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Dario Di Vico

DATA: 6 novembre 2016

Sono i più fragili tra chi non studia né lavora: più esposti i maschi, educati alla regola del successo. Li chiamano Neet, si barricano nella loro cameretta, il computer sempre acceso, musica e libri, i pasti consumati lì.

neet

Ritiro sociale è un’espressione ancora poco nota. La utilizzano psicologi e operatori delle Onlus per definire i comportamenti del segmento più fragile dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Per avere un’immagine immediata di cosa significhi il ritiro sociale si può pensare a un ragazzo barricato nella sua cameretta con le tapparelle abbassate, il computer sempre acceso, musica e libri, il cibo consumato lì in una segregazione auto-imposta. Il fenomeno è molto conosciuto in Giappone — li chiamano hikikomori — ed è iniziato negli anni 80. Riguarda per lo più maschi primogeniti e il primo sintomo è la rinuncia a frequentare la scuola. Motivo: la pressione della società che chiede una competizione alla quale il giovane risponde negandosi. Le stime nipponiche variano da 400 mila a 2 milioni di coinvolti, il trend però è in crescita. Anche da noi la prima manifestazione del ritiro sociale è l’auto-esclusione dalla scuola, annunciata ai genitori una mattina a sorpresa senza segnali premonitori. Le stime italiane sono di 100 mila ragazzi — un altro primato europeo di cui non essere fieri — ma ovviamente non è facile elaborare dati così delicati. A monitorare il fenomeno sono realtà come la cooperativa Minotauro, che ha pubblicato di recente un testo dedicato ai ritirati e dal titolo eloquente: «Il corpo in una stanza». Anche in Italia a essere colpiti sono molto più i maschi perché a loro è stata trasmessa un’identità fortemente condizionata dal ruolo sociale e dal successo lavorativo.

L’annuncio a sorpresa

I corpi in una stanza non hanno «voce» e l’unica strada per capirne di più è riannodare il filo partendo dai racconti dei genitori. Così abbiamo fatto, organizzando un focus group nella sede del Corriere a Milano. Rompe il ghiaccio Carmen: «Una sera che non dimenticherò mai, Sandro si è seduto sul mobile della cucina e mi ha detto: da domani a scuola non ci vado più, e così è stato. Era in quarta liceo. Per tre anni è vissuto nella sua camera, ha piantato il calcio, è diventato vegano e ha smesso anche di mangiare a tavola con la famiglia». Racconta Giulia, un’altra mamma: «Marco ha finito il liceo regolarmente, i guai sono arrivati dopo. Ha lavorato come venditore per un’azienda, ma dopo diversi mesi non gli hanno voluto riconoscere un contratto e non l’hanno pagato. E da lì ha spento la luce, si è rifiutato di continuare gli studi e ha introiettato un senso di vergogna e inadeguatezza. Voleva fare il deejay e adesso l’unica compagnia che ha scelto è la musica». Si inserisce Nicoletta: «Francesco un giorno mi ha confessato che andare a scuola era diventato un incubo quotidiano. Si è ritirato in camera e si è costruito una rete di amici virtuali in diverse città, ha perfezionato l’inglese ubriacandosi di serie tv e non ne ha voluto più sapere dell’istituto turistico. L’ultima delusione è stata l’impossibilità di essere assunto in un hotel, che pure lo avrebbe preso, perché ancora minorenne». Le storie raccolte si assomigliano molto e evidenziano il fallimento del rapporto con la scuola, l’assenza dei padri, la vergogna nei confronti dei compagni di classe, la creazione di circuiti di socializzazione a distanza.

Genitori e insegnanti

«La scuola non raccoglie il dolore» sostiene Carmen. I giovani che per qualche motivo incontrano la sofferenza negli anni della crescita — un incidente, una malattia, la separazione conflittuale dei genitori — rimangono segnati e il sistema scuola non riesce a reincluderli, aumentando le loro probabilità di diventare Neet. Nel focus group il giudizio sulla scuola è stato materia incandescente: i genitori raccontano episodi di insensibilità degli insegnanti, di demotivazione professionale, di trasmissione di un senso di inadeguatezza e la conseguenza è l’aumento del tasso di dispersione. L’abbandono scolastico è la prima fabbrica di Neet e infatti cresce (è al 15%) in corrispondenza con l’aumento del tasso di disoccupazione. Secondo la ricerca della onlus WeWorld denominata «Ghost», proprio perché dedicata ai ragazzi-fantasma, un quarto di loro ha alle spalle iter scolastici accidentati. Se i conflitti con la scuola potevamo prevederli il focus group ha evidenziato un’altra costante: la totale assenza dei padri. Il genitore maschio di fronte al ritiro sociale del figlio si scopre impotente e cede spesso alla tentazione di squalificarlo. Lo considera un fannullone, un incapace, un «disfunzionale». In uno dei casi il padre ha addirittura diseredato il figlio e persino sul sostegno economico i papà si eclissano. La gestione del ritiro pesa tutta sulle madri, che delle volte trovano maggiore aiuto nei nuovi compagni di vita, più disponibili dei veri padri. Ci sono anche casi in cui le donne maturano un senso di auto-colpevolizzazione, come Nicoletta che si chiede «se non ho sbagliato, è come se l’avessi tenuto nella pancia anche dopo la nascita impedendogli così di crescere». «Economicamente è stato un disastro — riepiloga Giulia — ho dovuto vendere una casa che avevamo ereditato e tentare di costruire un percorso formativo. Un curriculum di speranza che lo aiutasse un giorno a reinserirsi». Se è vero che i padri latitano, una funzione di supplenza la ricoprono le Onlus del terzo settore, che partono dal sostegno psicologico e poi si incaricano di stimolare il ragazzo per fargli recuperare interesse per il mondo reale fuori dalle quattro mura. In questo modo sperano di farlo transitare negli altri segmenti di Neet, i ragazzi che fanno volontariato oppure che si aggrappano alla pratica sportiva per socializzare . «Attacchiamoli alla vita» è il leitmotiv degli operatori.

L’aiuto della Rete

È poi singolare come di fronte alle sconfitte dei soggetti «caldi» — la famiglia e la scuola — il «freddo» Internet, l’elettronica impersonale e mangia-privacy, diventi una ciambella di salvataggio, un assistente sociale h24. La virtualità attenua la vergogna sociale, ne riduce l’impatto fisico, il filtro del computer rassicura e lascia sempre aperta la via di fuga. Smaterializza le amicizie e riduce il rischio delle delusioni. Sono nate così pagine Facebook e chat di Skype per gli hikikomori italiani con più di mille iscritti. «Francesco ha sempre subito le dinamiche di gruppo perché maturo di testa e piccolo nel fisico, sulla Rete invece ha trovato amici a Firenze, Bari e Roma. Più grandi di lui con i quali gestisce ore e ore di chiacchiere al computer» racconta Nicoletta. La spiegazione degli psicologi è che nella dimensione virtuale i giovani ottengono le gratificazioni che la vita reale ha negato loro. Come l’offesa di non ricevere nemmeno una risposta formale agli Sos che inviano a pioggia sotto forma di curriculum e lettere di presentazione ad aziende, centri per l’impiego e possibili datori di lavoro. Gli stessi studiosi motivano il carattere prevalentemente maschile del ritiro sociale — le ragazze in Giappone sono solo il 10% — con la trasmissione al femminile di un’idea di realizzazione del sé più larga e sfaccettata e non riconducibile agli stereotipi del successo/identità lavorativa. È un lascito di genere — e non un’esperienza maturata sul campo — che però funziona da anticorpo, evita di aggiungere esclusione a esclusione.

Ragazze e maternità

Non vuol dire che l’intero universo Neet — oltre i ritirati — non sia colorato di rosa, ma le traiettorie sono differenti: incide molto la maternità attorno ai 20 anni, la scelta di restare a casa con i figli e non presentarsi sul mercato del lavoro. Se i genitori dei ritirati sociali di fronte al compito che si para loro davanti lottano per non disperarsi, anche gli altri padri e madri dell’universo Neet finiscono per essere spaesati. Come sintetizza Lucia Tagliabue di Jointly, una rete di orientamento professionale: «Non sanno che consigli dare ai loro ragazzi perché il mondo del lavoro viaggia a una velocità diversa e temono di risultare iperprotettivi o eccessivamente rigidi nelle imposizioni ai ragazzi».

P.S. Dal ritiro sociale fortunatamente si può uscire. Oggi Sandro ha 29 anni e fa l’insegnante di Tai chi.

Suonare uno strumento da piccoli rende il cervello più reattivo

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Redazione Scuola

DATA: 11 gennaio 2017

Ricerca canadese: imparare la musica può avere effetti benefici sulle attività cerebrali, anche sul lungo periodo, e aiuta a reagire più in fretta ed essere più vigili

strumento aiuta cervello

Studiare la musica da bambini aiuta il cervello da anziani. Lo afferma uno studio dell’università di Montreal, pubblicato sulla rivista «Brain and Cognition». Le conclusioni di Simon Landry, coordinatore dello studio, e dei ricercatori che hanno lavorato con lui sono due: imparare a suonare uno strumento rende il cervello più reattivo e sensibile agli stimoli sensoriali; e può prevenire alcuni effetti dell’invecchiamento negli anziani, aiutandoli a reagire più in fretta ed essere più vigili.

 

I musicisti

I ricercatori hanno infatti dimostrato che i musicisti hanno tempi di reazione agli stimoli sensoriali più rapidi dei non musicisti. «Quando si invecchia, i tempi di reazione diventano più lenti. Sapere quindi che suonare uno strumento musicale li migliora può essere utile per gli anziani», commenta Landry.

 

La ricerca

Nella ricerca sono stati messi a confronto i tempi di reazione di 16 musicisti (che avevano iniziato a suonare uno strumento tra i 3 e 10 anni e avevano studiato musica almeno per 7 anni) e 19 non musicisti. Tutti erano seduti in una stanza silenziosa e ben illuminata, con una mano sul mouse di un computer e il dito indice dell’altra mano su una piccola scatola che vibrava a intermittenza. Il loro compito era cliccare sul mouse quando sentivano un suono da chi parlava di fronte a loro, se la scatola vibrava o se accadevano entrambe le cose. Ognuna di queste tre stimolazioni (audio, tattile e audio-tattile) è stata eseguita per 180 volte. «Abbiamo riscontrato tempi di reazione decisamente più veloci nei musicisti per tutti e tre i tipi di stimolazione - continua Landry - L’allenamento musicale a lungo termine riduce i tempi di reazione non musicali, tattili e multisensoriali». L’obiettivo dei ricercatori è capire come suonare uno strumento musicale influisca sui sensi in un modo non collegato alla musica.

Il violino di Einstein, ovvero come crescere figli creativi (e geniali)

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Orsola Riva

DATA: 20 ottobre 2016

I consigli ai genitori del professor Adam Grant, autore del best-seller «Originals»: più valori che regole, puntate sul carattere e fate leggere i vostri figli. Con una postilla della psicologa Carol Dweck: non ditegli che sono intelligenti, così rischiate di bloccarli per la paura di sbagliare.

 

Sogni il Nobel per la fisica? Studia il violino

Sognate che vostro figlio/figlia un giorno vinca il Nobel per le fisica? Allora fategli suonare il violino, come faceva mamma Einstein con il piccolo Albert. All’inizio detestava andare a lezione, poi si appassionò veramente. Tanto che una volta disse che se non fosse stato capace di pensare in musica non avrebbe mai potuto elaborare la teoria della relatività.

einstain-col-violino

I bambini creativi sono i grandi visionari di domani. Non i primi della classe, i piccoli geni della matematica o del computer di cui noi genitori andiamo così fieri, ma quelli che studiano per passione più che per zelo, che non cercano di compiacerci con i bei voti e il dieci in condotta ma che sanno pensare con la propria testa. Solo belle parole? Niente affatto, sostiene il professor Adam Grant, docente alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, autore del bestseller Originals: How Non-Conformists Move the World. Che genio e creatività vadano a braccetto, dice Grant in un video pubblicato da The Atlantic, lo dimostra il fatto che se si fa un censimento degli scienziati che hanno vinto il Nobel, molti di loro sapevano anche suonare uno strumento musicale, scrivevano poesie, erano discreti pittori dilettanti, ottimi ballerini, amavano recitare o fare giochi di prestigio... Ecco allora alcuni consigli ai genitori per incoraggiare la creatività dei propri figli.

 

Valori più che regole

In primo luogo il professor Grant consiglia di non puntare tutto sulle regole. I bambini che le seguono pedissequamente finiscono per diventare compiacenti, mentre quelli che vi si ribellano rischiano di non imparare ad affrontare i problemi ma solo a schivarli.

Anche se - va detto - in letteratura le pagine più belle sulla creatività dei bambini le hanno scritte proprio i disobbedienti. Vale su tutte la lezione, immortale, di Tom Sawyer che, dopo l’ennesima marachella, viene messo per punizione dalla zia a dipingere la staccionata di casa. Cosa si inventa Tom per spuntarla ancora una volta? Non solo riesce a convincere un gruppo di amichetti a imbiancare la staccionata al suo posto ma si fa pure pagare per il lavoro.

staccionata

 

Conta il carattere, più del comportamento

Se troppe regole fanno male, anche l’eccesso opposto rischia di essere dannoso, sostiene il professor Grant. Inutile continuare a dire: «Non seguire il gregge, non fare il pecorone».

 

pecore 

 

Vietato dire ai figli che sono intelligenti (IO, PIETRO B., NON SONO D’ACCORDO, IN BASE ALL’ESPERIENZA. BiSOGNA AGGIUNGERE CHE SENZA LA VOLONTà NON SI VA DA NESSUNA PARTE)

A proposito dell’importanza del carattere, vale la lezione della psicologa americana Carol Dweck, che da anni sostiene come non ci sia niente di più sbagliato che continuare a lodare i propri figli dicendo loro in continuazione che sono tanto intelligenti e dotati. Così si rischia soltanto di bloccarli per la paura di sbagliare. Mentre il solo modo per aiutarli è puntare non sulle loro presunte capacità innate ma sul carattere inteso come impegno continuo e resilienza: se cadi, rialzati; se sbagli, riprovaci.

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E’ il processo che conta (con buona pace del totem americano dell’IQ, il quoziente d’intelligenza). Ecco la ricetta migliore per crescere dei figli davvero intelligenti (e creativi): non dirgli che lo sono!

 

La lezione che viene dai libri

Una delle cose che plasma maggiormente l’immaginazione di un’intera generazione sono i libri per ragazzi. I nostri nonni, i nostri padri e pure noi ci dividevamo in due squadre: Verne contro Sandokan. Da un lato l’avventura con la A maiuscola, quella dei viaggi al centro della terra, sulla luna o in fondo agli abissi, dei capitani Nemo e delle isole misteriose; dall’altro, l’esotismo della giungla, fra pericolosi sikh armati di kriss (i pugnali malesi con la lama a biscia) e perle di Labuan...

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I nostri figli sono cresciuti invece alla scuola di Hogwarts, ma in fondo fa lo stesso. Secondo il professor Grant uno dei modi migliori per stimolare la creatività dei bambini è chiedergli di mettersi nei panni dei loro eroi di carta: cosa farebbero Harry Potter o Ermione in una determinata situazione? Aiuta a guardare le cose con gli occhi degli altri, a pensare in modo creativo. Anche se, certo, con la bacchetta magica è tutto molto più facile...