Ritorniamo ad alzare lo sguardo

FONTE: La Nuova Bussola Quotidiana

DATA:  6 settembre 2020

La scuola si è tramutata in una scuola-azienda o centro commerciale, molti sono promossi senza aver imparato nulla, l’esplosione dei certificati sui disturbi dell’apprendimento ha messo da parte il sacrificio. Invece, la persona va rimessa al centro e riscoperta la dimensione dell’anima. Ne scrive Susanna Tamaro in “Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere. Il dovere di educare”

Una bella riflessione sulla scuola, sui giovani e sul mondo contemporaneo è quella che la nota scrittrice Susanna Tamaro affida a una lunga lettera indirizzata a un’insegnante toccando domande centrali nella vita di ogni uomo, oggi troppo spesso evase o censurate. Il titolo è già di per sé molto significativo: Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere. Il dovere di educare (Solferino, 2019).

Il presupposto è che l’insegnante che ami il suo lavoro «ha un compito molto importante: quello di trasmettere la sua passione». Per questo si trova ogni giorno, ogni ora di lezione di fronte a un bivio:

«può decidere di esporre pedissequamente o può, percorrendo vie insolite, riuscire ad accendere di luce lo sguardo di chi lo sta ascoltando, ad aprire una piccola porta nella sua mente, e forse anche nel suo cuore, permettendo a quel ragazzo o a quella ragazza, un giorno, di salvarsi».

Potremmo anche sintetizzare con questa opzione: insegnare nozioni o suscitare passioni. Il caso della letteratura è molto emblematico: il suo studio «non è una scatola piena di dettagli noiosi ma qualcosa che parla alla profondità della nostra inquietudine e alle domande che ne scaturiscono». Si può insegnare letteratura «come natura morta» o «come parte irrinunciabile della nostra vita».

La letteratura diventa interessante quando diventa viva e parla. Questo può, però, accadere solo se le si pongono delle domande, le giuste domande, quelle che fanno del patrimonio letterario un universo sempre contemporaneo in dialogo nei secoli. La letteratura riguarda l’avventura affascinante di inoltrarsi nella realtà, di conoscerla meglio, di conoscere meglio l’uomo e il suo cuore, immutabile nel corso della storia.

L’Italia è cenerentola d’Europa negli indici di lettura, afferma la Tamaro avvalendosi della sua esperienza e dei tanti incontri tenuti nelle scuole, a causa della «diseducazione letteraria attuata nel percorso scolastico». La scuola non riesce spesso a insinuare nel bambino e nel ragazzo «un solo germe di curiosità» che costituisce poi la molla alla lettura una volta che il giovane diviene adulto. La «curiosità, voglia di saperne di più», costituisce «il principale antidoto all’indottrinamento». Purtroppo, invece, «i dieci anni di scuola obbligatoria rimarranno, nella memoria dei più, come un lungo e grigio inverno di cui non aspettavano altro che la fine».

La scuola si è tramutata in una scuola-azienda o scuola-centro commerciale. Si chiede, però, la Tamaro:

«Promuovere gli ignoranti e i negligenti, le persone che si preparano per un mestiere per cui non avranno la minima competenza è davvero un rendimento, o è piuttosto un fallimento? Un rimandare la resa dei conti offrendo una colossale presa in giro dei ragazzi e delle loro famiglie? A quale efficienza mira questo sistema? Direi soltanto a quella delle statistiche. Tot iscritti, tot promossi. La scuola funziona!».

Ma in questo sistema le vittime sono proprio loro, coloro che vengono promossi senza aver imparato nulla.

«La nostra scuola invece crea una grande confusione di concetti che cerca poi di risolvere grazie all’abbondanza di crocette […] e con la compilazione di fotocopie i cui puntini sospesi indicano la direzione da intraprendere».

Oggi nella scuola italiana, fin dalla primaria, è cresciuto a dismisura il numero degli alunni con disturbi dell’apprendimento. È possibile, si chiede l’autrice, che ci sia un numero così alto di allievi disturbati, che già all’asilo arrivino tanti bambini con il loro certificato in mano, che tante mamme preferiscano o pretendano talvolta che i figli abbiano il loro percorso facilitato piuttosto che desiderino che essi imparino e crescano con sacrificio e fatica? Piuttosto che esonerare un bambino già dai sette o otto anni conviene educarlo all’esercizio, alla pazienza, alla costanza con modalità opportune. «Questo non si chiama educare ma costringere alla povertà».

L’autrice scrive partendo dalla propria esperienza personale di grave difficoltà che ha vissuto a scuola per tanti anni, esperienza che lei racconta con grande schiettezza e libertà, perché il suo fine è mostrare che le fatiche vanno affrontate, non scansate. Se fosse stata trattata come un BES (acronimo per “bisogno educativo speciale”) avrebbe avuto probabilmente la strada scolastica facilitata, ma avrebbe lavorato costantemente cercando di migliorare sempre?

Queste parole dovrebbero interrogare molto tutto il mondo della scuola odierno: sono scritte da qualcuno che ha vissuto in prima persona le difficoltà (da qualche anno l’autrice ha dichiarato di soffrire della sindrome di Asperger) e che nel 1994 ha pubblicato Va’ dove ti porta il cuore, best seller che ha venduto nel mondo sedici milioni di copie e che è stato inserito nel 2011 tra i centocinquanta libri che hanno segnato la storia d’Italia.

«La psichiatrizzazione dell’infanzia è l’atto finale di un processo di distruzione con cui non si vuole fare i conti. Più comodo fornire certificati, più comodo somministrare psicofarmaci che aprire gli occhi e ammettere di essere di fronte a una catastrofe di proporzioni spaventose» (Tamaro).

Il nostro Paese è capace di retorica sull’infanzia, ma non si preoccupa delle aree di gioco dei bambini («degrado, abbandono, sporcizia sono la condizione comune») e continua a tagliare le risorse della scuola. Non ci addentreremo oltre nelle interessanti e provocatorie riflessioni della Tamaro sul mondo scolastico contemporaneo.

Le sue considerazioni invitano senz’altro ad alzare lo sguardo. Questo può accadere ripartendo da quattro domande fondamentali: chi sono? Da dove vengo? Dove devo andare? A chi dovrò rendere conto, un giorno, della mia vita?

«Dobbiamo avere il coraggio di riproporre come prioritaria la dimensione del cuore. E “cuore” vuol amore per la bellezza, per l’armonia e per la generosità. Non aver timore delle ridicolizzazioni dei profeti del nulla. […] L’univocità dell’uomo […] è legata alla dimensione della parola. E la parola è strettamente legata alla dimensione della verticalità. Potremmo parlare allo stesso modo, se fossimo costretti a vivere a quattro zampe? […] L’essere umano organizza tutto il suo sviluppo intorno all’ascolto. […] Per realizzarsi nella vita bisogna sapersi mettere in ascolto. Non solo della propria playlist preferita nelle cuffie, ma ascoltare la voce dell’universo, quella voce che ci parla attraverso l’infinita profondità del cielo stellato e l’umile bellezza di un prato fiorito».

Riscopriremo così la dimensione dell’anima, un concetto che l’uomo ha appreso già da millenni, ma oggi dimenticato e scomodo per molti. Per questo la riscoperta dell’anima ha oggi una portata rivoluzionaria. «L’anima è come un albero, stenta a crescere senza cure».  Tornare a nutrirla potrà servire a cambiare il mondo in meglio.

 

Meno tennis e cinese, più «no» ai nostri figli

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Rita Querzè

DATA: 31 dicembre 2013

La «valigia giusta» per crescere? La psicologa: «Troppe aspettative fanno male. Meglio insegnare il sacrificio»

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I figli, questi sconosciuti. Almeno per noi genitori. E non parliamo delle incomprensioni con ragazzi ormai adolescenti. Il problema c’è già dalle elementari, quando i nostri piccoli cominciano a mostrare la propria identità. Al bambino piace giocare a calcio? Noi siamo convinti che l’ideale per lui sia il basket. Il ragazzo è poco portato per la matematica? Secondo noi ha un futuro legato ai numeri. A scuola ha risposto con una parolaccia alla maestra? E’ lei ad aver capito male. L’elenco potrebbe continuare e ciascuno ha una propria casistica. Sempre legata, però, agli atteggiamenti dei genitori dei compagni di classe. Perché quando guardiamo gli altri, allora tutto risulta chiaro: «La mamma di Piergiorgio? Sta tirando su un teppista e non se ne rende conto». Noi, invece, siamo convinti di saperla lunga. Di conoscere alla perfezione di che pasta è fatto nostro figlio. Ma poi accade l’imprevisto. Un richiamo da parte di un insegnante, la telefonata di un altro genitore. La reprimenda di un vicino di casa. E ai più coraggiosi sorge qualche dubbio: «Mi sta sfuggendo qualcosa?». Urge il consulto di un esperto.

GUARDARE I FIGLI CON LE LENTI DELLE PROPRIE AMBIZIONI - «Il problema esiste, molto spesso i genitori guardano i figli indossando gli occhiali deformanti delle proprie speranze/aspettative - diagnostica Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell’età evolutiva -. I genitori dovrebbero fare uno sforzo e rispettare la natura e la personalità dei figli. Purtroppo spesso questo non avviene». A discolpa di mamme e papà c’è il fatto che i bambini in quanto tali sono esseri in divenire, con inclinazioni non ancora chiare e definite. Se davvero– chessò – sogni di avere una figlia ballerina classica non è poi così difficile convincersi che la ragazza abbia la stoffa per esibirsi sulle punte. «E’ una debolezza comprensibile. E c’è di più: è giusto proporre ai bambini stimoli e opportunità. Ma poi bisogna osservare le reazioni. Saper fare un passo indietro e lasciare lo spazio perché la loro indole si manifesti», continua Ferraris. Possibile che noi genitori siamo così egoisti? Non era la felicità dei nostri figli il primo degli obiettivi?

ASPIRAZIONI O STEREOTIPI? - Azzardiamo un’ipotesi. Il benessere e le sovrastrutture della società in cui viviamo aumentano il livello di attese rispetto ai nostri piccoli. E più la classe sociale dei genitori è elevata, più le aspettative crescono. Si tratta di aspirazioni spesso legate a stereotipi: il nostro ragazzo da grande dovrà essere laureato, «smart», suonare il pianoforte, parlare due lingue tra cui il cinese. E, naturalmente, eccellere nel tennis. E se invece volesse fare l’elettricista e si appassionasse al podismo? Va anche detto che di questi tempi noi genitori di soddisfazioni ne abbiamo pochine. Al lavoro (quando c’è) mediamente non va un granché bene. Di soldi ne girano pochi. Bisogna fare bene i conti e spendere meno. E’ in questo contesto che la mamma di Andrea ti prende da parte davanti alla scuola per informarti che tuo figlio ha fatto un occhio nero al suo piccolino, del tutto innocente. E’ umano che la prima cosa che ti viene alla mente sia la seguente: «Innocente un corno, Andrea se la sarà cercata». «Come no, tutta la comprensione per i genitori, ma un buon educatore deve prima di tutto saper leggere in se stesso e non farsi confondere dalle proprie aspettative», insiste Oliverio Ferraris, che volentieri si presta allo scomodo ruolo di grillo parlante. Per poi aggiungere: «Attenzione, se stiamo facendo degli errori meglio accorgercene subito». In fondo se la luce dei nostri occhi in seconda elementare ha fatto un occhio nero ad Andrea ancora si può rimediare. Con una bella reprimenda e spiegando che così non si fa. E poi chi l’ha detto che la laurea, il tennis, il pianoforte e il cinese facciano la felicità? Nessuno oggi sa cosa servirà davvero ai nostri figli per cavarsela nel mondo quando saranno adulti, tra 15-20 anni. Anzi, un attrezzo utile da mettere nella loro valigia forse ci sarebbe. Uno solo, ma preziosissimo. Si potrebbe definire così: «Determinazione, serenità e spirito di sacrificio in abbondanza per perseguire obiettivi complessi in un contesto difficile». Ma forse è proprio quello che ci stiamo dimenticando.