Docenti e didattica vanno ripensati. Non scarichiamo le colpe sui presidi

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Claudia Voltattorni

DATA: 3 settembre 2016

Gli istituti scolastici non devono essere per due terzi della giornata dei mausolei vuoti ma delle fabbriche della cultura

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Presidi con funzioni manageriali. Più insegnanti assunti. Prof scelti direttamente dalle scuole a seconda del bisogno. Premi a chi fa meglio il proprio lavoro. Studenti nel mondo del lavoro già durante l’anno. Professor De Mauro, il 2017 sarà l’anno in cui finalmente la scuola italiana farà un passo in avanti? 
Linguista, ministro dell’Istruzione con il governo Amato, professore e presidente della Fondazione Bellonci, Tullio De Mauro sorride: «Oggi (ieri per chi legge, ndr ) è Sant’Elpidio, che, come dice il nome, è il santo della speranza. Dunque, si può sperare che il nuovo anno non sia peggiore dei precedenti. Ciò che chiamiamo scuola è dappertutto un organismo complicato e diversificato, tanto più in un Paese con realtà per conto loro altrettanto diverse ed eterogenee. Le norme della “buona scuola” erano e sono assai lontane dall’aver tenuto conto di questo. Vedremo i singoli interventi previsti e in parte ora in via di attuazione che rimbalzi avranno in concreto nelle diverse realtà». 

Gli studenti italiani trarranno dei benefici reali da tutte queste novità? Cioè: avranno davvero prof più preparati, lezioni più interessanti, saranno più motivati? 

«Gli studenti delle scuole dell’infanzia e delle elementari hanno avuto finora, e dagli Anni 80, una delle migliori scuole del mondo, come, per le elementari, dicono i risultati delle indagini comparative internazionali (e come troppi dimenticano). Per le scuole dei gradi ulteriori, in particolare per le superiori, avere insegnanti più preparati e lezioni più interessanti richiede un ripensamento radicale dei modi di formazione e di aggiornamento in servizio degli insegnanti in funzione di un altrettanto radicale ripensamento dei contenuti didattici e dei modi di farne oggetto di reale e durevole apprendimento. In Francia con modi più bruschi, in Finlandia con saggia cautela, si sta andando su questa via. Questo sforzo di chiamata a raccolta di esperienze pratiche e di studio è mancato ai provvedimenti governativi. Prima o poi dovremo deciderci a farlo». 

In Italia l’immagine degli insegnanti continua a essere non all’altezza della sua importanza per la vita degli individui. Stipendi tra i più bassi d’Europa e scarsa considerazione dall’opinione pubblica. C’è un modo per cambiare tutto ciò in profondità? 

«Cambierà se e quando il Parlamento e un governo decideranno di fare dell’istruzione scolastica e dello stato della cultura di adulte e adulti un oggetto specifico e periodico della loro attività e, come c’è ogni anno la discussione e definizione di una finanziaria, ci sarà annualmente una “culturale”».

I presidi sono uno dei nodi della riforma: hanno un ruolo sempre più centrale e manageriale. Farà bene alla scuola tutto ciò? 

«In omaggio a Sant’Elpidio, si può sperare che non faccia troppo male. E che non si scarichi sui presidi la responsabilità di quanto non funzionerà nelle scuole». 

Contro la dispersione scolastica la ministra Giannini pensa di aprire sempre più la scuola anche oltre l’orario di lezione. È d’accordo? 

«Sarebbe, anzi è assolutamente necessario che l’Italia attivi, come fanno altri Paesi e come da anni ci chiede con insistenza l’Ocse, un sistema organico di educazione degli adulti che svolga le sue attività negli istituti scolastici, nei due terzi della giornata in cui sono un mausoleo vuoto e devono invece diventare, come è stato detto, “fabbriche della cultura”. Le condizioni della popolazione adulta italiana, in cui assai più di due terzi hanno difficoltà a leggere un qualunque testo scritto, non possono non riflettersi su ragazze e ragazzi e ostacolare gravemente il lavoro della scuola, oltre che pesare negativamente sull’intera vita sociale». 

Cosa pensa dell’alternanza scuola-lavoro con studenti che trascorrono dei giorni di scuola nelle aziende o negli uffici? 

«L’idea è buona, ad avviso di molti. Ma le modalità di attuazione richiedono di essere collegate a quel ripensamento cui ho accennato. Altrimenti rischia di far solo confusione. Anche qui, però, sarebbe stato e sarebbe necessario considerare quel che avviene altrove nel mondo e quel che di positivo si è realizzato in Italia in anni passati negli istituti tecnici». 

In classe divisi per livello. «Modello sbagliato». «No, attento ai singoli»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Orsola Riva

DATA: 17 gennaio 2016

La polemica sulla circolare del ministero che dà facoltà ai presidi di suddividere i ragazzi in base alle competenze raggiunte

livelli

Un fantasma si aggira nelle scuole italiane. E’ bastato leggerne il nome in un documento del Miur poco prima di Natale perché sulla rete si scatenasse il panico: «Vogliono dividere gli studenti in bravi e asini». La pietra dello scandalo si nasconde in una riga della circolare dell’11 dicembre scorso in cui il ministero spiegava ai presidi che, nella stesura del nuovo Piano triennale dell’offerta formativa, potranno immaginare non solo di spezzare la rigidità dell’orario annuale di ciascuna disciplina articolandolo in moduli, ma anche di rompere il moloch della classe organizzando il lavoro per «gruppi di livello». Nel primo caso un dirigente potrebbe decidere, per assecondare i ritmi di apprendimento dei ragazzi, di concentrare tutte le ore di una materia nel primo quadrimestre, usando il successivo per un’altra disciplina. Nel secondo caso, pur facendo riferimento a «didattiche cooperative basate sulla modalità peer-to-peer (da pari a pari)» ovvero al fatto che chi è più avanti aiuti chi è rimasto indietro, si introduce esplicitamente la possibilità di lavorare appunto su gruppi di diverso livello.

Il sistema inglese

Una pratica corrente nel mondo anglosassone nel quale le lezioni sono differenziate a seconda delle abilità dei bambini: chi ha il pallino della matematica sta nel «top set» e macina più tabelline, chi invece ha qualche inciampo finisce nel «bottom set». «A me - commenta Raffaele Mantegazza, docente di pedagogia generale alla Bicocca di Milano – i gruppi di livello fanno tornare in mente le classi differenziali di infausta memoria. L’idea che i bravi devono stare con i bravi, gli scarsi con gli scarsi». Mantegazza ci tiene a precisare che lui non tifa certo per il mantenimento dell’unità classe così com’è. «Qualunque intervento sensato che spezzi questo totem sarebbe il benvenuto - spiega -. Lavorare per classi aperte anche per diverse fasce d’età è non solo utile ma necessario. Altro però è spaccare la classe a seconda dei livelli per potenziare i più bravi e recuperare i meno bravi. Cosa vuol dire più bravi e meno bravi? Nei 100 metri è più bravo chi è più veloce ma a scuola non si va solo per imparare, si va per socializzare il sapere. Un bimbo portato per la matematica che si mette a disposizione di chi ne sa meno di lui non solo aiuta l’amico, ma cresce lui. La scuola deve insegnare la democrazia. Il modello rampante inglese,che punta alla competitività, è contrario alla nostra Costituzione».

Ottimo matematico, pessimo cittadino

Non la pensa così Giuseppe Bertagna, docente di pedagogia generale all’Università di Bergamo, già consulente del ministro dell’Istruzione Letizia Moratti e autore di una proposta che prevedeva la costituzione di gruppi di livello. «Intanto nessuno è bravo in tutto. Nel sistema inglese lo stesso bambino può rientrare fra i più talentuosi in una materia e essere fra gli ultimi in un’altra. E poi il gruppo come lo vedo io si articola su più piani: c’è il gruppo di compito in cui si insegna a rifare il letto, quello per progetto, come l’allestimento di uno spettacolo, i gruppi elettivi - a me piace il calcio, a te il basket -, e infine il gruppo di livello che, contrariamente a quello che dicono i suoi detrattori, è uno strumento di integrazione perché serve agli insegnanti per tarare le lezioni non sulla base del programma ma dei bisogni del singolo, che dipendono appunto dal livello raggiunto». La suddivisione in gruppi per Bertagna non esclude affatto la possibilità di socializzare il sapere: chi è più avanti deve aiutare chi è più indietro. Certo - riconosce Bertagna - ci vuole molta sapienza da parte degli insegnanti, altrimenti si rischia di trasformare gli eccellenti in disadattati. «Cosa me ne faccio di un ottimo matematico se poi è un pessimo marito, padre o cittadino?».

Aiutare gli altri serve di più

Il punto è che la formazione di classi eterogenee non è solo più giusta ma anche più efficace. Nella classifica di ciò che funziona di più a scuola stilata da John Hattie in Visible Learning (una raccolta di oltre 50 mila ricerche che hanno coinvolto 80 milioni di studenti), la divisione per gruppi di abilità sta al 121esimo posto su 138. Il lavoro in piccoli gruppi in cui i ragazzi si aiutano reciprocamente al 24esimo.