FONTE: Corriere della Sera
AUTORE: Silvia Turin
DATA: 16 febbraio 2017
Maxi ricerca evidenzia i benefici di un’integrazione soprattutto per persone carenti. Riaperto il dibattito. Il ministero della Salute UK: «Non ci sono ancora prove sufficienti»
Integrare l’alimentazione con l’aggiunta di vitamina D potrebbe ridurrebbe le morti e i costi del servizio sanitario. Lo sostiene un maxi studio globale che mostra come questo composto riesca a ridurre il rischio di raffreddori, influenza e altre infezioni pericolose, come la polmonite.
Lo studio e i numeri
La ricerca, diretta da scienziati della Queen Mary University di Londra (QMUL) e pubblicata sul British Medical Journal, è stata condotta attraverso l’analisi di dati relativi a circa 11mila persone che hanno preso parte a 25 trial clinici condotti in 14 paesi (inclusa l’Italia). È emerso che l’integrazione di questa vitamina - che il corpo riesce a produrre in autonomia solo quando ci si espone al sole - protegge da infezioni delle vie respiratorie, probabilmente stimolando la produzione di antimicrobici nei polmoni. Il beneficio è stato più marcato in coloro che avevano bassi livelli di vitamina D nel corpo (persone che escono poco, che si coprono anche d’estate o che hanno pelli scure). L’assunzione regolare di un integratore ha dimezzato il tasso di infezioni respiratorie nelle persone con più bassi livelli di vitamina D, ma ha anche ridotto del 10% le infezioni tra chi aveva soglie più alte del composto.
Meno infezioni respiratorie
Lo studio è coerente col fatto che le infezioni respiratorie sono tipiche dei mesi freddi quando siamo meno esposti alla luce solare perché stiamo più al chiuso e le giornate sono corte, per cui il corpo riesce a produrre meno vitamina D. I ricercatori hanno calcolato che introdurre integratori ogni giorno o settimanalmente potrebbe significare 3,25 milioni di infezioni respiratorie in meno nel Regno Unito, ipotizzando una popolazione di 65 milioni di individui. «La nostra ricerca rafforza l’idea che sia opportuno prevedere un’integrazione nell’alimentazione per migliorare i livelli di vitamina D in paesi come il Regno Unito, dove la carenza è comune», hanno scritto gli autori del lavoro.
Annoso dibattito e voci contro
Alcune voci dal mondo scientifico, però, frenano l’entusiasmo. Mark Bolland dell’Università di Auckland e Alison Avenell dell’Università di Aberdeen in un editoriale pubblicato sempre sul British Medical Journal (riportato dal Guardian) sostengono che sono necessari altri studi: «Le ricerche finora non supportano l’evidenza che l’uso di integratori di vitamina D serva a prevenire le malattie, salvo nelle persone a rischio di rachitismo, fragilità ossea e osteoporosi», scrivono. «I dati del nuovo studio sono molto significativi, visto che provengono da 11mila pazienti analizzati in studi clinici di buona qualità in tutto il mondo - commenta invece il dottor Benjamin Jacobs, un pediatra dell’ospedale Royal National Orthopaedic -. La necessità di fornire integratori di vitamina D è ora innegabile. I governi e gli operatori sanitari devono prendere questa ricerca in seria considerazione d’ora in avanti», conclude.
Cautela dal Ministero della Salute
Cautela anche dal Ministero per la Salute inglese: il professor Louis Levy, a capo del dipartimento di Nutrizione dichiara: «Il Ministero già raccomanda alla popolazione di prendere vitamina D durante i mesi invernali. Coloro che non si espongono al sole a causa delle caratteristiche della loro pelle o perché stanno sempre coperti per motivi religiosi o stanno in casa dovrebbero integrarla tutto l’anno». Tuttavia Levy non è convinto che la vitamina D possa proteggere contro raffreddori e influenza: «Questo studio non fornisce prove sufficienti a sostegno della tesi», ha concluso. Diverse ricerche scientifiche nel corso degli anni hanno consegnato evidenze contraddittorie sul tema. Alcune hanno dimostrato che bassi livelli di vitamina D aumenterebbero il rischio di fratture ossee, malattie cardiache, cancro del colon-retto, diabete, depressione, morbo di Alzheimer. Altre hanno asserito l’assenza di prove conclusive di un collegamento tra la presenza (o meno) di questo composto e il rischio di malattie.