Giocare per crescere, dieci regole per aiutare i bambini a esplorare l’ambiente e le proprie emozioni

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Valentina Rorato

DATA: 25 ago 2025

Antonio di Pietro, pedagogista ludico: «Con il gioco i nostri figli apprendono l’autoregolazione, la risoluzione dei problemi, la gestione del rischio e molte altre competenze che migliorano la qualità della vita»

«È naturale che l’anima del fanciullo abbia bisogno di gioco. I fanciulli sono per natura portati a inventare giochi e basta che si ritrovino insieme perché il più delle volte ne scoprano uno», insegna Platone, tratteggiando con una semplicità incredibile il senso del gioco per i bambini, che non è solo piacere e divertimento ma è una palestra per crescere, essendo un’esperienza vitale. Perché è così importante? Lo abbiamo chiesto ad Antonio di Pietro, pedagogista ludico, referente pedagogico del coordinamento regionale di Nati per la musica Toscana e collaboratore del Centro per la salute delle bambine e dei bambini (Csb onlus). «Come prima cosa direi che il gioco è importante "semplicemente" perché per i bambini è importante. Basta osservarli: giocano ogni qualvolta se ne crei l'occasione, giocano senza che nessuno glielo chieda. Poi quando giocano lo fanno con tanto impegno. Allo stesso tempo il gioco genera divertimento, ovvero un piacere che permette di ricercare, scoprire e conoscere qualcosa di nuovo rispetto a sé stessi, agli altri, al mondo intorno a noi».

Autonomia

Giocare è una motivazione a saperne sempre di più, che permette al bambino di esplorare l’ambiente, acquisendo il senso del tempo e dello spazio, imparando a conoscere il proprio corpo, ad allenare la fantasia, a regolare le sue emozioni e a confrontarsi con gli altri. È un’attività estremamente complessa con cui il piccolo allena la coordinazione mano-occhio, assimila modelli comportamentali adulti grazie all’imitazione. È consigliabile lasciarli giocare da soli o è meglio che siano guidati nelle attività ludiche? «Se pensiamo ai giochi della nostra infanzia molto probabilmente ricordiamo maggiormente i giochi autonomi, quelli sufficientemente lontani dallo sguardo degli adulti. Se la nostra memoria mantiene queste immagini un motivo deve pur esserci. Significa che il gioco autonomo è importante quanto quello condotto da un adulto - prosegue il pedagogista -. In una giornata con una forte presenza dell'adulto è fondamentale che i bambini si dedichino ampiamente al gioco autonomo, un tempo dove cavarsela da soli, accordarsi con gli amici, sentirsi liberi di partecipare. Aspetti da considerare anche quando si conduce un gioco».

Il decalogo

Per guidare bambini e genitori nella buona pratica del gioco, il pedagogista ha stilato un decalogo:

Andiamo dove ci porta il gioco. «Proponiamo i giochi della nostra infanzia: un bel modo per condividere le storie di vita, tenere accesa la propria giocosità e per apprezzare il giocare con "niente" (con le mollette per i panni, con la terra). Proponiamo nuovi giochi e giocattoli scegliendoli in base ai valori che rispecchiano. E poi andiamo dove ci porta il gioco, seguendo il "flusso" dello stare bene insieme».

Garantiamo giochi di tutti i generi. «Il gioco è una forma di nutrimento per la crescita e gli apprendimenti dei bambini. E una buona "dieta ludica", è quella sana e varia. Garantiamo un equilibrio sia fra la qualità dei materiali di gioco (legno, metallo, tessuto), sia fra le diverse tipologie di gioco (narrazione, strategia, movimento), evitando l'etichetta "giochi da maschi" e "giochi da femmine"».

Giochiamo sul serio. «Facciamoci caso, i bambini giocano con impegno e serietà. Giochiamo con loro impegnandoci anche noi nello stare al gioco. Se ne accorgono se siamo sinceramente interessati a giocare. Prendiamoci del tempo per stare ludicamente connessi ai figli, staccando da tutto il resto (pensieri, messaggi, social), disponibili esclusivamente in una "modalità gioco"».

Mettiamoci in gioco con gli schermi. «Scegliamo con cura i giochi con gli schermi, facendo attenzione ai contenuti (tematiche, grafica) e ai tempi: l'Organizzazione mondiale della sanità e l'Accademia americana dei pediatri indicano di non utilizzare i device prima dei due anni, massimo 60 minuti a sei anni, poi non più di due ore. Fondamentale, quando i bambini utilizzano gli schermi (anche per giocare), è stargli accanto».

Costruiamo congegni ludici. «Meravigliosi, nella loro "imperfezione" e nel loro significato affettivo, sono i giochi e i giocattoli auto-costruiti. Realizziamo oggetti di gioco, tavolieri per i figli, costruendoli con loro. Ricerchiamo materiali e strumenti per far sì che i bambini possano creare con le proprie mani i loro congegni ludici».

Organizziamo incontri giocosi. «I bambini adorano giocare con altri bambini, ne hanno bisogno. Organizziamoci in modo che si possano incontrare fra loro per condividere il tempo libero giocando insieme, sia a casa (propria e dei compagni) sia all'aperto sia in spazi organizzati (ludoteche, parchi pubblici). Ci sorprenderanno».

Accogliamo la scintilla ludica della noia. «Sentirsi dire dai figli "mi annoio" potrebbe indurci a pensare di non fare abbastanza per loro, per poi correre ai "ripari" riempiendoli di cose da avere e da fare. I bambini hanno necessità di spazi con poche cose e di qualità, di tempi liberi e liberati, di calma e lentezza. Una sana noia è una scintilla che fa nascere idee giocose».

Giochiamo all'aperto. «Per salvaguardare la salute fisica, mentale e sociale, i bambini dovrebbero trascorrere ogni anno almeno mille ore all'aperto. Sono sempre più noti i molteplici benefici dello stare fuori. Facciamo giocare i bambini all'aperto, ancor meglio se in ambienti naturali, durante tutte le stagioni vestendoli in modo adeguato».

Lasciamoli giocare. «Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi sull'importanza del gioco autonomo. Teniamo conto che i bambini per crescere hanno bisogno di cavarsela anche un po' da soli. Oggi il gioco autonomo è sempre più considerato un indicatore di qualità della vita. Ci sono ricerche che evidenziano una correlazione fra gioco autonomo durante l'infanzia e uno stare bene in adolescenza».

Giochiamo tanto per giocare. «Giochiamo tanto, nel senso di dedicare tempo al gioco a tutte le età. Ricordiamoci che quando giochiamo con i figli e quando loro giocano da soli o con i compagni, i bambini giocano per il gusto di giocare, quindi la finalità è il gioco stesso. In questo modo apprendono l’autoregolazione, la risoluzione dei problemi, la gestione del rischio e molte altre competenze che migliorano la qualità della vita».

24 agosto 2025

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Pietro Bordo ha parlato di scuola su Rai 1, a Unomattina Estate, insieme a Carlo Conti e Daniele Novara

FONTE:

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 13 agosto 2025

Pietro Bordo ha parlato di scuola su Rai 1, a Unomattina Estate, insieme a Carlo Conti e Daniele Novara.

Il link per vedere il video è appena sopra.

La scaletta è cambiata durante la diretta. Il tempo era finito e per riuscire ad accennare all'energia atomica dell'amore, rivoluzione copernicana che può cambiare la scuola (relazioni umane, personali fra docenti, alunni e genitori), ha dovuto insistere, non si vede nel video, con Alessandro Greco.

Il capoautore gli ha prospettato la possibilità di approfondire a Unomattina Inverno…

ChatGPT fa male al cervello? I sorprendenti risultati di uno studio del MIT di Boston sul «debito cognitivo»

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Federico Fubini

DATA: 20 giugno 2025

ChatGPT fa male al cervello? I sorprendenti risultati di uno studio del MIT di Boston sul «debito cognitivo»

L’intelligenza artificiale ci rende stupidi? Un’analisi (preliminare) del Massachussets Institute of Technology mette in guardia dall’uso massiccio per compiti di scrittura di questi strumenti , che possono ridurre la connettività cerebrale del 55%. I rischi (e i possibili «antidoti»)

Più conformisti, dissociati dalle nostre stesse idee, meno capaci di pensare in modo autonomo e soprattutto meno capaci di apprendere. L’intelligenza artificiale ci rende stupidi?
È una domanda legittima dopo la pubblicazione (preliminare) di un nuovo studio sperimentale del Media Lab del Massachusetts Institute of Technology sugli effetti dei «large language models».

Il titolo del paper

Il paper ha un titolo esplicito: «Il tuo cervello e ChatGPT: accumulazione di debito cognitivo nell’usare un assistente di intelligenza artificiale per compiti di scrittura». 

A guidare lo studio è Natalia Kosmyna, una ricercatrice con un dottorato in informatica che lavora sull’interazione fra i computer e il cervello umano. Il modello di ricerca di Kosmyna e dei suoi colleghi, fra i quali vari neuroscienziati e studiosi del linguaggio, è stato del tutto sperimentale.

I tre gruppi che compongono il campione

Kosmyna ha formato tre gruppi da un campione di 54 volontari, incaricando ciascuno dei componenti di scrivere tre brevi testi per tre sessioni successive su temi predefiniti, per un periodo esteso su un trimestre.

Il primo gruppo («Brain-only») poteva scrivere solo sulla base delle proprie risorse mentali, senza accesso né a internet né a uno schermo. 

Il secondo gruppo aveva accesso al motore di ricerca di Google.

Il terzo gruppo invece aveva accesso all’intelligenza artificiale generativa, in particolare ChatGPT di Open AI. Il cervello dei partecipanti a tutti e tre i gruppi è stato analizzato, connettendolo a degli elettrodi per un elettroencefalografia mentre svolgevano il compito richiesto.

La connettività celebrale

I risultati sono sorprendenti. Lo sono sia nell’immediato che negli effetti successivi dell’esperimento sui comportamenti e le capacità mentali delle persone sottoposte al test.

In primo luogo, nello stesso processo di scrittura i componenti dei tre gruppi hanno manifestato un’attivazione molto diversa delle loro menti. Rispetto al livello del gruppo che scriveva senza supporto digitale, il gruppo con accesso al solo motore di ricerca ha registrato una connettività cerebrale fra il 34% e il 48% più bassa; il gruppo con accesso a ChatGPT (nella forma di GPT-4o) ha mostrato una connettività cerebrale del 55% più bassa. In sostanza, più consistente è il supporto e più si riduce l’ampiezza dell’attività del cervello.

Le aree del cervello interessate

Era forse prevedibile che andasse così. Ma anche la qualità del lavoro cambia.

Il gruppo «Brain-only» evidenzia un’attivazione delle aree del cervello connesse con l’ideazione creativa, con l’integrazione dei significati fra loro e con l’automonitoraggio: le funzioni necessarie a generare contenuti, pianificarli e rivederli.

Invece chi usa Google fa lavorare soprattutto la corteccia occipitale e visuale: le aree che presiedono ad assimilare tramite la vista l’informazione ottenuta sullo schermo e poi raccoglierla. Infine, chi usa ChatGPT attiva soprattutto le aree per funzioni pressoché automatiche e entro un’impalcatura esterna.

Che cosa succede con l’Ai

I lavori prodotti sono risultati molto vari e diversi gli uni dagli altri nel caso del gruppo «Brain-only», ma estremamente omogenei e simili fra loro per il gruppo che ha usato l’intelligenza artificiale.

In sostanza, affidarsi all’AI genera conformismo di pensiero e messaggi. 

Qui però è arrivata una sorpresa ulteriore: nell’83% dei casi, chi aveva lavorato con ChatGPT ha poi avuto difficoltà nel citare frasi dai propri stessi testi già pochi minuti dopo averli consegnati; come se chi aveva scritto con ChatGPT non avesse sviluppato nessun senso di appartenenza riguardo al contenuto del proprio lavoro e tutta l’attenzione fosse andata solo a come riprodurre passivamente informazioni generate all’esterno. Al contrario, pressoché tutti coloro che avevano lavorato da soli sono riusciti a citare frasi dai testi appena scritti quasi esattamente, mostrando molta più attenzione al contenuto e al senso del lavoro svolto (non solo alle modalità).

I concetti non vengono assimilati

In sostanza, l’uso dell’intelligenza artificiale ha reso le persone sottoposte al test dei semplici assemblatori di concetti che non vengono assimilati dai loro stessi autori. 

I testi poi sono stati esaminati come piccoli saggi scolastici. I valutatori basati sull’intelligenza artificiale hanno assegnato voti più alti di testi scritti con la stessa intelligenza artificiale. Invece i valutatori umani, gli insegnanti, hanno subito riconosciuto quali erano i testi scritti con l’intelligenza artificiale e li hanno valutati meno degli altri.

L’inversione dei gruppi

Ma quel che è accaduto dopo dà ancora di più da riflettere.

C’è infatti stata una quarta sessione del test, nella quale le parti si sono invertite. Al gruppo che aveva sempre usato l’intelligenza artificiale è stato chiesto di comporre un testo a tema fisso senza alcun supporto digitale; al contrario, chi aveva scritto fino ad allora senza supporto ha potuto usare ChatGPT.

Si crea un debito cognitivo

Il risultato è destinato ad aprire un dibattito sulla pericolosità dell’uso dell’intelligenza artificiale.

Chi si era abituato ad usare ChatGPT ha mostrato difficoltà a ricreare il tipo di robusta attività cerebrale, ricca di connessioni, che occorre per sostenere un’attività di creazione autonoma di contenuti. Fra loro si è evidenziato quello che Kosmyna definisce un «debito cognitivo». Il tema dello scritto richiesto era uguale a quello di scritti precedenti, ma coloro che si erano abituati a ChatGPT sono riusciti a citare un elemento qualunque appena due su dieci, ora che potevano contare solo sulla propria mente.

Invece chi aveva contato solo sul proprio cervello all’inizio, allenandolo in modo autonomo, è riuscito a produrre testi più ricchi e precisi proprio grazie all’uso dell’AI nella sessione finale.

Attivazione cerebrale più debole

Anche l’elettroencefalografia ha confermato i risultati.

Chi era abituato a contare su ChatGPT ha mostrato comunque un’attivazione cerebrale più debole quando è rimasto senza supporto digitale, come se la mente fosse divenuta più pigra e incapace di creatività, giudizio di merito e memoria profonda.

Invece chi aveva già imparato a pensare e produrre lavoro in autonomia ha potenziato le proprie capacità cognitive con ChatGPT.

Le conclusioni

Conclude lo studio: «Quando i partecipanti (al test, ndr) riproducono dei suggerimenti (dell’intelligenza artificiale, ndr) senza valutarne l’esattezza o la pertinenza, rinunciano non solo ad appropriarsi delle idee espresse, ma rischiano di interiorizzare prospettive superficiali o distorte».

In altri termini, diventano individui più manipolabili da ogni sorta di propaganda o interesse. 

Le implicazioni per la democrazia e per la scuola o l’università non potrebbero essere più grandi: una società di persone libere e capaci di elaborare idee e un giudizio autonomo usa sì l’intelligenza artificiale; ma solo dopo aver allenato molto bene - e a lungo - quella naturale.  

Il più grande rimpianto di Cesare Romiti, amministratore delegato di Alitalia, Fiat (25 anni con Agnelli), Impregilo e RCS

FONTE: TV2000 – Corriere TV

AUTORE: 

DATA: 18 agosto 2020

Il più grande rimpianto di Cesare Romiti, amministratore delegato di Alitalia, della Fiat per 25 anni a fianco dell’Avvocato Agnelli, poi di Impregilo e RCS

https://video.corriere.it/economia/cesare-romiti-quando-tv-diceva-il-rimpianto-piu-grande-ho-lavorato-molto-non-ho-mai-conosciuto-miei-figli/8da8cffe-e123-11ea-b799-96c89e260eb4?vclk=video3CHP%7Ccesare-romiti-quando-tv-diceva-il-rimpianto-piu-grande-ho-lavorato-molto-non-ho-mai-conosciuto-miei-figli

Giovani, il poco sonno rallenta lo sviluppo del cervello: colpevoli smartphone e social. Lo studio (e le conseguenze)

FONTE: Il Messaggero

AUTORE: Redazione

DATA: 15 maggio 2025

Giovani, il poco sonno rallenta lo sviluppo del cervello: colpevoli smartphone e social. Lo studio (e le conseguenze)

Una ricerca che confermerebbe il legame profondo tra un sonno regolare e lo sviluppo sano del cervello

Si sta tenendo in questi giorni il Convegno nazionale congiunto di Sinpf (Società italiana di neuropsicofarmalogia) e Sinpia (Società italiana di neuropschiatria dell'infanzia e dell'adolescenza): tra le altre cose gli scienziati riuniti hanno lanciato l'allarmare sui giovani, il cui cervello rallenta il proprio sviluppo con poco sonno.

 

Il parere degli esperti

I presidenti di Sinpf, Matteo Balestrieri e Claudio Mencacci, e Sinpia, Elisa Fazzi hanno infatti commentato i dati epidemiologici, che evidenziano come la gran parte dei disturbi psichici cronici inizia proprio tra i più giovani - perfino in infanzia e preadolescenza - e che intervenendo tempestivamente è possibile migliorare gli esiti futuri. In particolare, spiegano gli esperti, il sonno è fondamentale per uno sviluppo cerebrale sano.

Lo studio

Uno studio dell'università di Cambridge e di Shanghai ha infatto rilevato come «andare a letto tardi e dormire poco può avere un impatto sulla crescita del cervello, che si traduce in una connettività cerebrale più debole, in volumi cerebrali più piccoli e in prestazioni cognitive inferiori». E ancora: «All'origine del problema c'è quasi sempre una cattiva igiene del sonno, spesso caratterizzata da una vera e propria inversione del ritmo sonno-veglia, che può essere legata all'iperconnessione: molti ragazzi trascorrono tempo sui social media a letto, influenzando la durata e la qualità del riposo».

 

Gli scienziati consigliano dunque di evitare l'uso dello smartphone e del tablet la sera, prestando particolare attenzione all'uso dei dispositivi menzionati per accedere ai social media, che assorbono il tempo e la concentrazione dei giovani, rendendo più difficile andare a dormire a un orario più sano.

Pietro Bordo al convegno “Le radici del futuro”, Camera dei Deputati. Presente il ministro della pubblica istruzione e del merito, Giuseppe Valditara

FONTE:

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 9 aprile 2025

LINK: 

 

L’8 aprile 2025 alla Camera dei Deputati, Sala Tatarella, si è tenuto il convegno “Le radici del futuro”, con la presenza del ministro della pubblica istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, con il quale ho avuto l’onore di parlare in privato.

Ho avuto la possibilità di tenere un intervento, al cui video porta il seguente link

Erano presenti anche l’on.le Paola Frassinetti, sottosegretario di stato del Ministero della Pubblica Istruzione e del Merito; alcuni senatori e deputati di FdI; docenti, dirigenti ed esponenti di alto livello del mondo della scuola e della cultura.

Hanno partecipato anche i coordinatori della commissione tecnica ministeriale che ha scritto le “Nuove Indicazioni Nazionali per la Scuola”.

La Presidente della commissione tecnica ministeriale mi ha chiesto il testo del mio intervento; ed il Ministro il biglietto da visita...

Il poco tempo che ho avuto a disposizione mi ha costretto a parlare velocemente. Per questo motivo, consiglio di visualizzare i sottotitoli.

 

Testo dell’intervento

Grazie al sottosegretario Paola Frassinetti per aver organizzato questo incontro. Grazie al Governo per le nuove indicazioni nazionali, grazie a chi le ha scritte.

Ho insegnato per quarantasette anni in ogni tipo di scuola primaria esistente in Italia: parificata, privata, paritaria, pubblica.

Ho studiato tutto il testo, un gran bel lavoro.

Velocemente… benissimo per le materie orali, ho trovato le tabelline, i riassunti… che bello.

Arte ed immagine: bellissime parole, ma fra gli obiettivi io avrei evidenziato con parole inequivocabili il più importante: portare il bambino a sapersi difendere dalla pubblicità, intesa in senso lato. Anche da chi subdolamente ti vuol imporre le proprie opinioni.

Di getto mi è venuto da dire che voi ingegneri coordinatori avete migliorato moltissimo l’automobile: la carrozzeria, i sedili, il confort, il colore. Ma, da meccanico, da autista, vedo che non avete pensato molto al motore: l’auto da voi indicata invece che a passo d’uomo, come va oggi, dopo il vostro intervento potrebbe andare come una bicicletta. L’energia ottimale che serve per farla correre come una Ferrari pochissimi la usano. Questa energia, la più potente dell’universo è l’amore; con i suoi derivati.

Il carburante che serve per far andare veloce una macchina così importante sono le relazioni umane, personali, in tutte le direzioni, fra il bambino, i docenti ed i genitori. Che oggi sono affidate all’iniziativa individuale e improvvisatrice di pochissimi docenti.

Ciò che ho letto fino a pag. 13 della bozza è tutto un sogno: non accade quasi mai. Non ipotizzo, non immagino: ho un universo di riferimento di centinaia di colleghe della pubblica che venivano da tante scuole nelle mie e di centinaia di genitori, sia della privata che della pubblica. Universo esplorato per quarantasette anni, scusate, con successo documentabile. Mi chiedono periodicamente incontri i miei alunni di tutte le età, gli ultimi vicini ai cinquant’anni.

Di seguito i sogni (non ci sono nel video):

1-…la scuola accompagna bambini e adolescenti, sin dalla scuola dell’infanzia, a capire chi sono, da dove vengono…

2-… esso può esplicarsi con efficacia solo grazie all’indispensabile alleanza con le

famiglie che svolgono un ruolo complementare a quello della scuola…

3-…scuola e famiglia costituiscono, in ragione delle grandi valenze educative e affettive l’una e per l’azione sistematica e intenzionale di istruzione l’altra…, le due colonne portanti del percorso di apprendimento di bambini e adolescenti…

Tutto un sogno, non accade quasi mai ed infatti oggi il palazzo crolla (tanta violenza, tutti i giorni) perché le due colonne, famiglia e scuola, quando va bene si ignorano, quando va male, frequentemente, sono in conflitto.

Le relazioni umane per svilupparsi necessitano di contatti personali. Fra gli obiettivi dei docenti deve esserci l’impegno a realizzare una relazione almeno buona con i genitori e significativa con tutti gli alunni, fatta non solo di insegnamenti ed informazioni.

Il bambino deve capire che è accolto, accettato, amato a prescindere da qualsiasi altra considerazione

Allora il ragazzo darà il meglio di sé. Con me è sempre successo. Tutto ciò in stretta collaborazione con i genitori, con effetto sinergico sempre constatato. Ed accade ad altri docenti, pochissimi.

Il tutto si potrebbe realizzare, più o meno bene, prevedendo, nelle linee guida, un tempo scolastico da dedicare ai colloqui individuali dei docenti con gli alunni e con i genitori. Gli ultimi anni ai colloqui con i genitori io e le mie colleghe, eravamo almeno in sei, avevamo sette minuti per ogni famiglia. Ridicolo. Ma i miei colloqui individuali con ogni bambino non sono mai mancati: uscivo dall’aula approfittando della presenza dell’insegnante di sostegno.

Pag. 38: …scopo primario della scuola è insegnare a leggere, a comprendere, e a scrivere in modo corretto.

Le prove Invalsi testimoniano le carenze degli alunni, soprattutto in lingua italiana, che ha una funzione propedeutica per tutti gli apprendimenti e per lo sviluppo ottimale delle funzioni intellettive, del pensiero.

Le docenti di italiano delle superiori dicono che il 75% degli studenti che escono dalle medie hanno competenze linguistiche insufficienti o scarse.

Non c’è da stupirsi: oltre alle carenze di relazioni umane di cui ho detto prima, alla primaria nelle quaranta ore settimanali del tempo pieno le ore dedicate a lingua italiana sono sei. Sì, sei. Fa ridere; anzi, piangere. Ho provato per anni a cambiare, impossibile, dicevano le varie presidi.  Devono dirlo le indicazioni nazionali: almeno dieci-dodici ore settimanali.

Immagino numeri simili alle medie.

Riassumo. Il vostro obiettivo è migliorare la scuola italiana. E migliorerà con le ottime nuove indicazioni nazionali. Ma l’efficacia del vostro lavoro potrebbe essere infinitamente maggiore se sfruttaste l’energia più potente dell’universo: l’amore.

In concreto, se dedicaste attenzione alla metodologia relazionale fra le persone della scuola e deste indicazioni in tal senso, come ho già detto prima; se indicaste un numero minimo adeguato di ore settimanali per italiano, matematica ed inglese.

Aggiungo che buoni rapporti personali tra prof, alunni e famiglie danno un grande aiuto per disinnescare bullismo e violenza a scuola e fuori.

Non è il giorno per parlare della valutazione dei docenti, la madre delle riforme.

Grazie dell’attenzione.

Se la poesia (come diceva Montale) è inutile, perché insegnarla? “Perché è bellezza e la dimensione estetica matura la persona”

FONTE: Orizzonte Scuola

DATA: 2 aprile 2025

La scuola – dice lui – non deve occuparsi di ciò che i giovani faranno, ma innanzitutto di ciò che essi saranno”Stefano Picciano è docente di Lettere presso l’Istituto Comprensivo 1 di Riccione. Ha 44 anni, è anche musicologo e ricercatore in Storia della musica, autore di vari libri, scrive sul quotidiano Il Foglio. “È attraverso la pura dimensione estetica – prosegue il professore – che la scuola mette a fuoco il suo obiettivo principale: la maturazione della persona in quanto tale.”

Picciano è animato da una grande passione per l’educazione: “Il tema della scuola e dell’educazione – ammette – mi ha sempre appassionato”. E in particolare quello della parola, come ci aveva rivelato in una precedente intervista sull’importanza del lessicoIn una successiva conversazione c’eravamo soffermati con lui sui temi del bello e dell’utile”. Uno studente “che maturi i fondamenti della percezione estetica, l’amore per la bellezza oppure il rispetto per i tesori della cultura difficilmente maltratterà le persone o le cose. Noi cerchiamo con dei progetti di insegnare delle competenze che in realtà sono già implicite nella nostra tradizione culturale. Difficilmente un ragazzino che suona, per esempio, il pianoforte maltratterà un compagno, poiché ha una percezione fondamentale della bellezza, che è una dimensione educativa essenziale della persona”.

L’educazione la scuola, la bellezza. Che cosa manca? Che cosa mancava. Mancava quella cosa inutile – per dirla con Montale – che è la poesia: “Nel 1966, all’atto di ricevere il Premio Nobel – rammenta Picciano – Eugenio Montale ironicamente osservò: ‘Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile’. Proprio nei giorni scorsi, il 21 marzo, è stata celebrata la giornata mondiale della poesia ideata dall’UNESCO nel 1999: un invito a riflettere – come abbiamo scritto su queste colonne – sul potere del linguaggio e sul pieno sviluppo delle capacità creative di ogni persona.

Professor Stefano Picciano, perché dare spazio alla poesia nella scuola, se Montale la definiva inutile?

“Montale sapeva bene che ciò che appare inutile è, a ben vedere, ciò che serve di più alla crescita della persona. Imparare a memoria le poesie – come dedicare tempo ad ogni forma d’arte – libera la mente dai vincoli troppo stretti dell’utilità e della necessità e pone finalmente al centro il soggetto. La didattica non deve dimenticare di porre in primo piano la dimensione estetica, l’arte, la bellezza, liberandosi dalla miopia di una concezione di scuola che fa prevalere la dimensione professionalizzante. Come ho detto in altre occasioni, la scuola non deve occuparsi di ciò che i giovani faranno, ma innanzitutto di ciò che essi saranno. È attraverso la pura dimensione estetica che la scuola mette a fuoco il suo obiettivo principale: la maturazione della persona in quanto tale. Ha scritto Hans-Georg Gadamer: ‘Nell’incontro con l’arte vediamo attuarsi un’esperienza che realmente modifica colui che la fa’”.

Si discute molto negli ultimi tempi dell’utilità di imparare a memoria le poesie. Lo stesso ministro Valditara ha rilanciato il tema di recente. Che cosa ne pensa?

“La consuetudine di imparare a memoria le poesie – il celebre linguista Luca Serianni ne parlava come di ‘un’abitudine che non si celebrerà mai abbastanza’ – appare opportuna, come ogni attenzione alla letteratura, alla musica, all’arte, proprio perché ciò che in termini generali la poesia mette a tema è l’uomo stesso: ‘L’argomento della mia poesia, e credo di ogni possibile poesia –notava ancora Montale– è la condizione umana in sé considerata’. La scuola ha bisogno di custodire la dimensione disinteressata del puro sguardo alla bellezza come fattore capace di formare la persona: è il tempo dell’otium – in greco scholé –, quello nel quale i ragazzi cercano sé stessi, le proprie inclinazioni, la propria identità. Un domani, certo, lo studente sceglierà una professione, ma questo passo sarà posto sul terreno di una formazione fondamentale che si colloca a un livello precedente. Il periodo della scuola non deve servire a nulla se non alla crescita umana del soggetto”.

La scuola come otium

“La scuola è un tempo libero nel quale dare ai giovani ciò che pone per così dire le fondamenta della persona: è importante leggere e rileggere le grandi pagine della letteratura, le poesie, poi tornarvi e scoprire che esse svelano sempre qualcosa di nuovo, ascoltare le grandi opere musicali, dare tempo all’osservazione dell’arte e poi, naturalmente, dedicarsi alla riflessione, alla scrittura, all’argomentazione”.

Come organizzerebbe, lei, l’ora di poesia?

“Innanzitutto, semplicemente, leggendo il testo più volte. Gli studenti non possono affezionarsi ad un testo se ad essere messa in primo piano è la sua analisi: questa deve essere fatta, certo, ma solo come strada verso la familiarizzazione con l’opera in sé. La poesia è qualcosa che accade, che vive nella voce di chi la legge. Si tratta di permettere a quelle parole di accendersi nuovamente e, rivestite del tono di una espressione sempre nuova, mostrarsi a noi nel loro inesauribile significato. Ben venga, dunque, l’imparare a memoria, se è per ricordare, cioè – letteralmente – tenere nel cuore qualcosa di bello: significa custodire dentro di sé un piccolo tesoro”.

E come descriverebbe questo tesoro?

“Nella quotidianità ad un tratto un verso emerge dalla memoria e si mostra capace di illuminare ciò che viviamo. Imparare le grandi poesie a memoria permette che il segreto racchiuso in quei versi ci sorprenda, in seguito, magari nei frangenti più inaspettati, mostrandoci d’improvviso la profondità di un frammento di vita, rendendo più intenso il nostro rapporto con le cose, suggerendoci un approfondimento dello sguardo, insegnandoci a cogliere la densità di un istante, svelandoci uno stralcio di verità”.

Faccia un esempio.

“A volte gli studenti mi hanno raccontato l’esperienza di un’insoddisfazione, nei loro particolari, anche piccoli desideri, a partire da versi come quello in cui Ungaretti scrive ‘In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare’, oppure quello di Cardarelli: ‘Non so dove i gabbiani abbiano il nido / ove trovino pace. / Io son come loro / in perpetuo volo’. L’importante è fare esperienza del fatto che quei versi parlano di noi. Leggendo una poesia scopro che l’autore descrive non appena la sua vita, bensì la mia”.

La poesia che porta il lettore verso se stesso…

“Certamente. La poesia è amica del silenzio. Quel silenzio in cui l’uomo entra in rapporto con sé stesso, con la propria interiorità. Per questo essa non di rado mette a tema quella particolare nostalgia che caratterizza l’uomo. Lo stesso Montale accennò ad una strutturale mancanza che contraddistingue l’essere umano, notando l’abitudine delle persone a riempire il tempo di ‘occupazioni che colmino quel vuoto’. E aggiungeva: ‘Pochi sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto’. È impressionante, a questo proposito, il frammento concepito da Mario Luzi: ‘Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne / sei pieno? / Di che?’. Ed è significativo il fatto che questo passo sia stato scritto alla vigilia del nuovo millennio, quasi a sottolineare il fatto che l’uomo contemporaneo, apparentemente appagato dalla società dei consumi in tante esigenze superficiali, eleva ancora questo ‘tacito grido’ che scaturisce dal fondo del suo animo”.

La memorizzazione non rischia di essere solo un esercizio meccanico?

“Non bisogna cercare una fredda memorizzazione come esercizio di bravura, benché sia importante mostrare agli studenti che in genere utilizziamo pochissimo le potenzialità della memoria. Ciò che importa è una familiarizzazione con l’opera che sia carica di senso, quindi anche di ammirazione per quel verso, per quella parola che ha la capacità di avvicinarci ad una verità su noi stessi o sulle cose attorno a noi. Scrisse suggestivamente Italo Calvino: ‘E’ verso la verità che ci muoviamo, la penna ed io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo di una pagina bianca’”. È l’affascinante immagine per cui la parola è sempre una ‘ricerca’: come scrisse Eugenio Montale, la parola è ‘qualche cosa che si approssima ma non tocca’. Come possiamo interpretare queste parole? ‘Si è sempre scontenti’ – dichiarò in proposito Ungaretti – perché ‘la parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi… solo lo avvicina’. La poesia è un ambito sui generis, nel quale si potrebbe dire che le parole più vere non sono quelle scritte sulla carta ma, per usare la suggestiva espressione di John Keats, ‘quelle non dette, quelle che naufragano nei silenzi’. Qui risiede il mistero dello spazio bianco che circonda i versi: quel ‘biancore’ non è un vuoto ma, come un giorno sorprendentemente mi disse una studentessa, è ‘lo spazio in cui avviene il significato’. Fermai la lezione, che da lì in avanti non fu che un tentare di comprendere questa intuizione. È la nota esperienza di non poter fissare per iscritto ciò che si vorrebbe dire. C’è una meravigliosa espressione di Clarice Lispector che spiega questo: ‘Ciò che ti dico non è mai ciò che ti dico, bensì qualcos’altro’. La poesia è un’approssimazione ad una verità che non può essere racchiusa nelle parole che vengono scritte: il poeta Davide Rondoni ha notato che ‘la poesia appartiene a quell’esperienza della lingua in cui si prova a dire ciò che non si comprende appieno’, aggiungendo: ‘Si cercano le parole (…) per provare a mettere a fuoco quel che ci colpisce, perché il mondo chiede di essere svelato al di là delle prime apparenze’”.

Dunque la poesia nasce dalla meraviglia.

“Si impara a non dare per scontato ciò che si vede, come accennava Charles Peguy in riferimento a Victor Hugo: ‘Egli non vedeva il mondo con uno sguardo abituato (…). È lo stupore che conta (…). Il vecchio Hugo, amico mio, vedeva il mondo come se fosse stato appena fatto (…), come se finalmente fosse appena venuto al mondo. Egli vedeva il mondo come se esso uscisse dalle mani del fabbricante’. Anche Paul Valéry, nei suoi Cahiers, scrive un’annotazione significativa in proposito: ‘È proprio della mia natura trovarmi di colpo davanti alle cose come se fossero del tutto sconosciute’. La poesia – un po’ come la fotografia – svela il valore assoluto di ogni istante e conduce l’uomo – per usare ancora le parole di Montale – nei ‘silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto’”.

E in che cosa potrebbe consistere questo segreto?

“Innanzitutto l’essere stesso delle cose è un mistero. È suggestivo, in proposito, quanto scrive il filosofo Max Picard sull’esperienza della pura osservazione: ‘Guardo l’oggetto attentamente e quasi un po’ spaventato, poiché in fondo non l’ho mai visto, il fatto di vederlo è veramente un avvenimento e mi sembra anzi di essere un uomo che lo veda per la prima volta’. Il punto focale della poesia è forse la sua capacità di recuperare uno sguardo originale sulle cose, coglierle in una visuale che si spinge oltre l’apparenza, oltrepassare la cortina di apparenza che rende le giornate tutte uguali, superare l’illusione ‘di chi crede / che la realtà sia quella che si vede’”.

C’è anche una valorizzazione del singolo istante…

“Certamente. La poesia ci pone in una condizione – per usare un termine di Peter Handke – di intensa vigilanza, quella che permette di ‘aprirsi ogni giorno un varco verso gli spigoli luccicanti della vita’. La poesia ci accompagna insomma ad uno sguardo più profondo verso le cose, facendoci cogliere quella che Mario Luzi chiamava l’immensità dell’attimo”.

Ha già deciso quali saranno i poeti da proporre ai suoi studenti? Quali le preferenze?

“Se volessimo selezionarne tre, direi innanzitutto Giovanni Pascoli, in cui c’è una valorizzazione estrema per il dettaglio, il particolare: la campana, la culla, la neve, il ruscello, la finestra, il grano, la strada, l’aratro. Le piccole cose diventano il luogo di una vibrazione sconosciuta dell’essere, che viene innalzato ad una dimensione assoluta: come scrive la sapienza orientale, ‘in verità tutte le cose piccole sono belle’. In secondo luogo naturalmente dedicherei del tempo a Leopardi, per il modo in cui descrive agli uomini le capacità dell’animo proprio, insegnandoci che cosa sia il desiderio. Infine sceglierei Ungaretti, per il ‘peso’ inedito che dà alla parola, mettendo in luce il valore originale di ogni vocabolo, la ricerca instancabile nel mondo del lessico: ‘Io ho da dire questo, diceva; come posso dirlo con il numero minore di parole, anzi con quell’unica parola che lo dica nel modo più completo possibile?’”. Tutto sta nel portare questo tesoro letterario agli studenti in un modo che possa essere per loro affascinante. È fondamentale fare in modo che l’ora di lezione sia bella, qualcosa che il giorno dopo sia desiderabile tornare a cercare. Soprattutto nelle discipline di ambito estetico si tratta di ‘innescare’ la loro libertà, perché l’ammirazione per la bellezza è qualcosa che non si può imporre, ma solo proporre. Freud definiva l’insegnamento un’attività impossibile, perché in certa misura è sempre dipendente dalla libertà di adesione dell’allievo. Per questo l’attenzione deve essere incentrata sull’esperienza: deve essere chiaro che leggiamo quei versi perché parlano di noi. Se gli studenti capiscono di essere protagonisti, possiamo insegnare loro a custodire la ricchezza del patrimonio che il passato ci consegna”.

Sempre connessi, quali conseguenze per i figli?

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Claudio Mencacci

DATA: 15 febbraio 2025

Ai genitori andrebbe ricordato che l’uso di tecnologia in loro presenza nuoce alla salute mentale dei loro bambini e raccomandato di dare esempi positivi

L’interferenza della tecnologia nelle interazioni quotidiane e nelle relazioni personali è al centro di diverse ricerche. Quali sono le conseguenze nei bambini e negli adolescenti esposti a genitori eccessivamente assorbiti dalla tecnologia? Quali conseguenze emotive, sociali, comportamentali e cognitive ciò comporta? L’uso eccessivo della tecnologia digitale può interrompere le interazioni tra genitori e figli a tutte le età, un fenomeno chiamato tecnoferenza. In particolare la tecnoferenza genitoriale ha un impatto profondo e duraturo sulla psiche dei figli con conseguenze che si protraggono nella vita adulta. Grande la sensibilità dei neonati e dei bambini dagli 1 ai 5 anni se esposti a genitori che trascorrono più di 5 ore al giorno sul loro smartphone e, per il 27% del tempo trascorso con il loro bambino, sono impegnati con il loro dispositivo digitale.

Nella prima infanzia la tecnoferenza genitoriale è associata a diminuzione del coinvolgimento genitore-figlio, a ridotta capacità di notare e soddisfare i bisogni del gioco congiunto, a turni di conversazione meno frequenti e a qualità di risposte più negative al comportamento dei bambini. Quando i bisogni emotivi e fisici dei bambini vengono costantemente ignorati, o quando si risponde in maniera inappropriata, aumentano i rischi di sviluppare patologie come depressione, ansia, iperattività e disattenzione. Genitori sottoposti a notifiche eccessive, all’uso dei social network, al controllo degli smartphone, alla paura di perdere qualcosa di importante (FOMO, fear of missing out) o che guardano il telefono mentre parlano con i figli, riducono la qualità delle interazioni facendo percepire ai bambini un interesse minore nei loro confronti. Inoltre l’eccessiva delega a tablet-smartphone e TV come baby sitter riduce ulteriormente il tempo di qualità.

La percezione da parte del bambino di una mancanza di attenzione facilita lo sviluppo di sentimenti di insicurezza e svalutazione, favorendo l’imitazione dell’uso compulsivo della tecnologia dei genitori. Sugli adolescenti i dati sono più consistenti, tanto da far dire all’autorità sanitaria USA che la crisi della salute mentale tra i giovani è un problema urgente, e i social media hanno avuto un peso importante in negativo: quando si trascorrono più di 3 ore al giorno sui social media si osserva nei giovani un raddoppio del rischio di sintomi di depressione e di ansia tanto da raccomandare etichette con la scritta, come per i pacchetti di sigarette, «nuoce alla salute». Ai genitori andrebbe ricordato che l’uso di tecnologia in loro presenza nuoce alla salute mentale dei loro bambini e raccomandato di dare esempi positivi perché i «bambini ci guardano».

* Direttore Emerito Neuroscienze Salute Mentale Asst FBF-Sacco, Milano, Co-Presidente Sinpf

Maltrattamenti domestici in famiglia, boom di casi a Milano: quando i figli terrorizzano i genitori

FONTE: Corriere della Sera

AUTORE: Elisabetta Andreis

DATA: 25 gennaio 2025

Maltrattamenti domestici in famiglia, boom di casi a Milano: quando i figli terrorizzano i genitori

Allarme del Tribunale dei minori: impennata nei numeri. Il nodo delle comunità e il rischio «ghetto»

Ieri sera. Una coppia di genitori si presenta in lacrime alla porta della comunità La Casa del giovane. Chiede aiuto. Uno dei figli, neanche 16 anni, ha esplosioni di rabbia e grave violenza contro di loro. «I maltrattamenti domestici agiti da adolescenti e talmente gravi da finire nel penale sono aumentati in modo drammatico nel nostro distretto», fa sapere Luca Villa, procuratore capo del Tribunale per i minorenni di Milano. Fino al 2012 erano massimo sei all’anno, poi hanno iniziato a salire con un picco di 94 nel 2019, appena prima del Covid, e anche nel 2024 sono su questi livelli. È solo la punta dell’iceberg. «C’è un cambiamento antropologico complesso in atto e scarsa consapevolezza dei genitori — avverte il procuratore —. Dovremmo ragionare su molti aspetti, non ultima la diffusione degli smartphone in età precoce. I minori sono esposti a forme di dipendenza pericolosa, talvolta negli atti leggiamo descrizioni di violenze davvero raccapriccianti. Ti chiedi come possano venire certe fantasie a un 14enne».

Dentro le case

Mentre per strada non aumentano i reati predatori, il discorso della violenza in casa richiama quello degli omicidi e tentati omicidi che secondo i numeri del Tribunale sono triplicati, passando nel giro di un anno da otto a 24. Ma sono i ragazzi che escono di testa o il fenomeno chiama in causa madri e padri incapaci di creare le premesse per rapporti sereni? «Nella famiglia di oggi — spiega Luigi Colombo, psicoterapeuta e giudice onorario — il genitore ha difficoltà a porsi come tale, è quasi lui che ha bisogno del figlio, e non viceversa. Quando è piccolo, nessun problema: tutto procede apparentemente bene. Sottotraccia però si sviluppa una cultura della onnipotenza con pochi limiti che si rivela nell’età adolescenziale già difficile. A volte si aggiunge l’assenza del padre a casa e questo non aiuta la costruzione di un autentico sentimento normativo mentre il rapporto con i genitori cresce su un binario facilmente rivendicativo, predatorio e aggressivo alla prima frustrazione».

Realtà sottostimata

Il fenomeno, secondo gli esperti, è ancora sottostimato: «La maggior parte dei genitori picchiati in famiglia dai figli adolescenti — osserva Carlo Trionfi, psicoterapeuta e direttore del Centro Studi famiglia — fanno fatica a denunciare. Tendono a mantenere il segreto perché temono che la denuncia possa danneggiare il figlio e distruggere definitivamente quello che resta del loro rapporto in crisi invece che risolvere il problema. Non è la regola imposta dal padre a fare arrabbiare i figli, più spesso è lo sguardo deluso del genitore che provoca rabbia e aggressione».

Gestione e criticità

La gestione del fenomeno sul territorio è complessa. Trovare le comunità richiede spesso mesi e nel frattempo i ragazzi continuano a stare forzatamente in casa, ammette il Procuratore: «Viene da domandarsi se possa essere utile accorparli in comunità socio-terapeutiche da creare ad hoc, con équipe specializzate, o se invece collocarli in uno stesso luogo sarebbe invece disfunzionale». Il ghetto è proprio il contrario di quello che serve, risponde Simone Feder, educatore e psicologo: «Sono ragazzi cresciuti a patatine e Iphone che diventano padroni di casa senza che i genitori siano capaci di accorgersene — dice Feder —. Delegare la responsabilità genitoriale agli specialisti medici è inutile, bisogna seguire un modello diverso, metterli a contatto stretto con adolescenti che hanno disagio di crescita ma un rapporto ben integrato in casa». Secondo don Claudio Burgio della comunità Kayros «la maggior parte degli episodi sono legati al bisogno di soldi per le sostanze stupefacenti e a volte anche a debiti accumulati dai ragazzi per auto-medicare il loro disagio». I ragazzi chiedono soldi, i genitori cercano di negarli senza che ci sia un vero dialogo e a quel punto esplode la violenza. «Tante volte si tratta di genitori che rappresentano un modello (sia lavorativo sia di vita) in cui i figli non riescono a riconoscersi. Eppure colpisce sempre l’attaccamento alle figure genitoriali. Non di raro, anche subito dopo le violenze, mi sento dire “A loro voglio molto bene”».

Instaurare buoni rapporti tra prof, alunni e famiglie per disinnescare bullismo e violenza in classe

FONTE: Il Sole 24 ORE

AUTORE: Pietro Bordo

DATA: 17 febbraio 2025

Instaurare buoni rapporti tra prof, alunni e famiglie per disinnescare bullismo e violenza in classe

Il rapporto personale fra l'uomo docente e le persone genitori col futuro uomo, l'attuale ragazzo, rappresentano la vera soluzione dei tanti problemi della scuola e, di conseguenza, della società

di Pietro Bordo*

3' di lettura

La maggior parte dei docenti dice apertamente che non sanno cosa fare relativamente agli episodi, ormai quotidiani, di bullismo e di altri atti di violenza degli studenti. Eppure una soluzione c'è: quella che prevede una particolare metodologia relazionale scolastica, sperimentata con successo da me e centinaia di docenti in varie scuole d'Italia. Essa ridurrebbe drasticamente nelle scuole la violenza, gli episodi di bullismo, i casi di insuccesso scolastico e porterebbe molti altri benefici ai ragazzi, alle loro famiglie e quindi alla società.
Conosco bene la scuola elementare poiché è stato per decenni il mio luogo di lavoro quotidiano, dove ho avuto grandi soddisfazioni; e so, confortato da tanti colleghi, che anche alle medie ed alle superiori i fattori più importanti per riuscire ad aiutare significativamente i ragazzi sono gli stessi delle elementari.
Per cambiare sul serio la scuola tutti i docenti e gli operatori scolastici dovrebbero ricordarsi che ogni alunno è prima di tutto una persona, con tutti i suoi problemi; che quando entra in aula non lascia fuori della porta. Il rapporto personale fra l'uomo docente e le persone genitori col futuro uomo, l'attuale ragazzo, rappresentano la vera soluzione dei tanti problemi della scuola e, di conseguenza, della società.

Tre fattori specifici

Ecco di seguito i tre fattori specifici che, nel medio termine, concretamente, possono migliorare radicalmente la situazione nella scuola primaria e negli altri ordini di grado.
1° fattore: Migliorare di molto la collaborazione scuola-famiglia, che produrrebbe effetti sinergici incredibili sulla crescita del ragazzo. Scuola e famiglia si devono scambiare informazioni, formulare diagnosi, progettare interventi mirati per ogni singola necessità del bambino. È evidente, ineludibile, che tocca ai docenti creare un buon rapporto con le famiglie, a qualsiasi costo. Un rapporto stretto, possibilmente cordiale, con i genitori. Soprattutto con quei genitori con i quali possa sembrare impossibile il solo parlare. Credetemi: si può fare! Sono riuscito a farlo anche a Tor Bella Monaca, quartiere di Roma che non gode di buona fama. E io non sono né un genio, né un santo.
2° fattore: Impegno dei docenti a realizzare una relazione significativa con tutti gli alunni, fatta non solo di insegnamenti ed informazioni, ma di comprensione ed accoglienza, quelle vere. Il bambino deve capire che è accolto, accettato, amato a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Nei miei colloqui periodici, in privato, con i bambini è emerso di tutto, che i genitori spesso non sapevano.
Giovanni Bollea, padre della neuropsichiatria infantile italiana, ma anche un umanista, diceva che le relazioni umane curano. Se ci pensate, anche voi ne avete esperienza. Le relazioni significative di cui sopra durano nel tempo. Io mi vedo con continuità, a tu per tu ed in gruppo, con miei ex alunni, con età compresa fra i 16 ed i 50 anni.
3° fattore: Sforzo che devono fare i genitori per trovare il tempo di parlare con i figli. Il terzo fattore per migliorare radicalmente la situazione nella scuola primaria, e anche negli altri ordini di grado, è la comunicazione genitori-figli. I genitori devono essere aiutati dai docenti a capire che devono fare qualsiasi sforzo per trovare il tempo di parlare con i figli, tutti i giorni, possibilmente, anche solo cinque-dieci minuti. Ciò per conoscerli, quindi capire i loro problemi appena insorgono ed aiutarli. Anche parlandone con i docenti e collaborando con loro per un aiuto maggiore. Quanti degli episodi gravissimi di cronaca degli ultimi anni si sarebbero potuti evitare se i figli si fossero confidati con i genitori di quanto stava capitando loro.

Qualità della vita a scuola

Utilizzando i tre fattori suddetti si può migliorare molto la qualità della vita degli studenti, sia a scuola che a casa; si possono migliorare i loro apprendimenti, la loro crescita umana e culturale; si possono ridurre drasticamente gli episodi di abbandono scolastico e di bullismo. Lo so che posso sembrare arrogante, ma ho i risultati di una carriera decennale a confortarmi; ed anche quelli di molti miei colleghi. Ovviamente, nei casi più complessi l'aiuto di uno psicologo è stato importante. Il ministro ha fatto tanti cambiamenti utili, ma niente di significativo, “rivoluzionario”.
Io spero che tutti gli episodi terribili accaduti negli ultimi anni non siano stati vani e spingano il ministro ad esplorare una strada diversa da quelle percorse da sempre, tutte “parallele”, senza risultati. Servirebbe una grande riforma, una coraggiosa innovazione come quella che ho proposto. Che è sicuramente migliorabile.
Jannik Sinner dopo una partita di doppio vinta ha detto che «…l'amicizia fra due giocatori migliora la prestazione sportiva». L'amicizia fra alunno e docente migliora molto il comportamento ed il rendimento del ragazzo. L'ho sperimentato, sempre con successo. Vi chiederete: «Ma perché non ne parla col ministro?». Da due anni chiedo periodicamente al ministro di esporre quanto suddetto; gli ho detto che basterebbero quindici minuti. Ma ha altro da fare, mi dicono dalla sua segreteria.

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21 febbraio 2025